LAMPEDUSA
VINCENZO LOMBARDO E IL CIMITERO DEI CLANDESTINI
LE CROCI DELLA PIETÀ
Ogni mattina si reca nella zona del camposanto che è stata riservata agli extracomunitari senza nome. Si ricorda ancora i primi 13 corpi. Adesso sono 82, e ognuno ha un crocifisso. «Musulmani? Che importa, un Dio lo avevano anche loro».
Chiude gli occhi, come se cercasse aiuto e conforto. La misericordia a volte è un pesante fardello e la pietà un laccio che imbriglia il cuore e la mente. Vincenzo Lombardo cerca parole per dire della pietà che un giorno lo ha soverchiato, lui che di mestiere faceva solo il guardiano delle storie dei morti di qui, cimitero di Lampedusa, sepolture di pietra ocra, che si sfaldano nel sole e nel vento di sale che soffia da Cala Pisana. La misericordia è la sua tribolazione e la compassione è diventata angoscia.
Sono 13 anni che Vincenzo Lombardo ci traffica, da quando una mattina all’alba i carabinieri lo cercarono perché avevano trovato un corpo gettato dalle onde sulle rocce di punta Maluk. Adesso racconta e le sue parole si alzano come una supplica e un lamento. Il sole sbianca le tombe e il vento solleva la polvere grigia della terra.
Lui il pellegrinaggio lo compie ogni mattina, un passo dopo l’altro, lungo questa strada di cipressi fino al cimitero dei morti senza nome, corpi inghiottiti dal mare e dal mare restituiti nelle braccia dell’isola. Lombardo dice soltanto: «Lo faccio perché non c’è nessuno che a loro vuole bene».
Entriamo. C’è un piazzale di asfalto. Vincenzo Lombardo si ferma e stende il braccio: «Li hanno messi lì, in fila, uno accanto all’altro. Avevano ancora gli occhi aperti che guardavano il cielo. Erano tutti neri». Il racconto è un tumulto d’orrore e di pietà. Ma bisogna andare fino in fondo, perché lui è l’icona della misericordia di questa gente di mare, misura di carità e di clemenza, simbolo di rispetto e di venerazione della gente di qui, che ha sempre accolto chi veniva dall’acqua.
Vincenzo Lombardo è l’uomo della pietà. Dice: «C’era un lavoro che nessuno faceva. Mi sono fatto avanti con l’aiuto di Dio». Cammina piano lungo il piazzale, come se quei 13 cadaveri bagnati fradici fossero ancora lì: «Sono partiti per avere una speranza in questa Italia nostra e sono morti».
In questi anni ne ha portati qui 82, senza nome, i corpi spolpati dai pesci, schiantati dall’impatto contro gli scogli.
Una rosa su una tomba di donna
A Lampedusa c’era solo lui, guardiano del cimitero, a cui potevano affidare il compito della pietà. Ricorda che la prima volta restò sei giorni senza mangiare, percosso e trafitto dal dolore e dall’odore della morte: «Mettevo le foglie di menta nella mascherina e poi mi chinavo tra le rocce. A volte si staccava una gamba, un braccio». Lo chiamavano i pescatori, quando salpavano la rete e vi trovavano impigliati i cadaveri. Lui prendeva la mascherina e si infilava le foglie di mentuccia in tasca, per sopportare l’odore acre della morte. Ripete il gesto, le mani che sfregano e poi i palmi che serrano la bocca.
Camminiamo tra le tombe fino alla sepoltura dei morti senza nome. I primi li ha sepolti sotto un papiro che cresce spontaneo in un angolo del cimitero, fossa comune per gente senza nome. Un giorno ha sepolto una donna, giovane, bella, l’unica donna che hanno trovato morta in mare: «Poi sono venuto a piantare una rosa sulla tomba».
Non ci sono lapidi, non ci sono storie, neppure una data. Nell’angolo dei morti senza nome sono piantate croci di legno, semplici, povere. Lui lo sa che forse non erano cristiani. Ma dice che fa lo stesso, che non importa se il loro Dio è diverso dal nostro, se non usano le croci: «Un Dio l’avevano pure loro».
Racconta che quando qualcuno toglieva la tomba gli regalava la croce di pietra per piantarla sulle sepolture dei morti senza nome. Accarezza quelle croci, sistema le rose, tutte le mattine. Qualcuno sull’isola dice che Vincenzo Lombardo è un po’ matto. Lui sorride: «Rifarei tutto daccapo, perché Gesù vede e io un giorno mi presenterò a lui».
Vite travolte dal "mare mare"
Se li ricorda tutti, uno per uno quei morti consegnati dal mare. Vorrebbe solo conoscere le loro storie, chiedere perché sono partiti: «Ho trovato anelli, foto sbiadite, resti di documenti, troppo poco per ricostruire la vita». Eppure s’immagina le loro voci, dolenti, magari sarcastiche verso "l’Italia nostra".
Dice: «Hanno navigato il mare e sono morti di "mare mare"». Lo ripete quasi con ossessione, "mare mare", onda che sommerge, acqua che ruggisce, che raddoppia, che diventa tragedia e porta via la vita. Dice che «ci vorrebbe un cimitero solo per loro», scelta di dignità per chi è morto di frontiera, luogo di pellegrinaggio per non dimenticare chi ha lasciato terra e affetti ed è spirato di "mare mare". Dice che nel suo cuore tutti hanno un nome e che lui li ripassa ogni mattina quando viene all’alba a trovarli, anche adesso che non è più il guardiano del cimitero.
Prima va a sistemare le rose e a spolverare le croci di legno e poi cammina tra le tombe, fino a quella dove hanno scritto "extracomunitario" e una data: 7 giugno 2008. E poi fino all’unica che ha un nome e un cognome, Chidi Eze, e due date: 26 febbraio 1973-21 gennaio 2009. Non respirava più, adagiato sul fondo di un gommone.
Il fratello ha raccontato la storia, cattolici entrambi, fuggiti dalla Nigeria. Padre Vincent Mwagala, il viceparroco tanzaniano di Lampedusa, e don Stefano Nastasi, parroco dell’isola, hanno benedetto la bara.
Il sindaco Dino De Rubeis ha disegnato una croce sulla lapide. Gli altri restano tutti senza nome e senza storia dentro questo cimitero in mezzo al mare, "Spoon river" muta che incrocia percorsi e destini dell’approdo più tragico.
Eppure, chi va a Lampedusa non può evitare di camminare fino a Cala Pisana, camposanto del dolore del mondo, dove la pietà e la misericordia di un uomo aiutano tutti.
Alberto Bobbio
http://www.sanpaolo.org/fc/0914fc/0914fc28.htm