Populismo, il sale della democrazia
Dino Cofrancesco
Sempre più spesso, nel nostro Paese, l’accusa di “qualunquismo” rivolta agli avversari politici viene sostituita dall’epiteto ingiurioso “populista!”. Il populismo, un po’ in tutta l’Europa continentale, non gode di buona stampa ma quando si prova a dire che cosa sia, quali ne siano le cause, e quali le caratteristiche salienti si entra nel regno delle ombre e comincia, assordante, la babele linguistica. Come gli storici contemporaneisti si dividono tra coloro che vedono nel fascismo il punto d’approdo dell’anticomunismo e coloro che lo considerano, invece, l’espressione più coerente dell’antiliberalismo latente nella cultura politica dell’Europa continentale, così studiosi e pubblicisti che scrivono sul populismo si dividono tra quanti lo ritengono il nemico giurato della democrazia e quanti, al contrario, pensano che la sua bestia nera non sia la “sovranità popolare” ma il liberalismo, inteso sostanzialmente come costituzionalismo ovvero sistema di “leggi fondamentali”, di freni e contrappesi volto a limitare l’onnipotenza del detentore del potere, monarca o popolo che sia.
Diciamo subito che la tesi del populismo come antidemocrazia è debolissima e non a caso la si ritrova in quella sinistra post-azionista che alle solide - per quanto unilaterali - categorie del marxismo ha sostituito la denuncia moralistica delle degenerazioni plebiscitarie e massmediatiche del nostro tempo. Qualche anno fa, su La Repubblica, Stefano Rodotà, in tema di “Democrazia senza popolo”, parlava del «contagioso populismo che caratterizza ormai l’intero nostro sistema politico» e che «è l’opposto di una presenza del popolo nell’insieme delle istituzioni, capace di far sentire la propria voce al di là del momento dell’investitura, non degradato a “carne da sondaggio”». E ancor prima Gian Enrico Rusconi, nel saggio Possiamo fare a meno di una religione civile? (Laterza, 1999) adoperava come termini intercambiabili dispotismo e populismo col risultato di non poter più spiegare come mai la terra promessa della democrazia, gli Stati Uniti d’America, abbia conosciuto non poche ondate populistiche che hanno semmai rafforzato non indebolito, la sovranità popolare. Se il populismo come antidemocrazia non porta molto lontano, il populismo come antiliberalismo va considerato attentamente, trattandosi di una interpretazione con cui hanno fatto i conti i maggiori analisti del fenomeno, dai francesi Y. Meny e Y. Surel, agli anglosassoni Paul Piccone e M. Canovan, dal greco Y. Papadopoulos agli italiani Marco Tarchi e Flavio Chiapponi, per limitarci a questi.
Come scrivono nel loro libro, Populismo e democrazia (Il Mulino, 2001), Yves Mény e Yves Surel: «I regimi occidentali sono costruzioni eterogenee, pragmatiche e barocche che mescolano diverse eredità. E anche la componente populista fa parte della nostra concezione della democrazia e delle nostre istituzioni. La democrazia non può fare a meno del popolo proprio quando ha spinto gli artefatti del costituzionalismo a un grado così alto di raffinatezza. (...) Il populismo ci ricorda, sotto forme spesso eccessive o addirittura sgradevoli, che le costruzioni più elaborate del governo degli uomini non possono ignorare il popolo a favore delle élite, i comuni mortali a favore degli esperti, le aspirazioni al cambiamento di fronte alle regole ferree delle carte dei diritti fondamentali».
Gli autori per quel che riguarda la dimensione ideologica del fenomeno, non hanno dubbi: il «principio superiore» che sta alla base del populismo è semplice e inequivocabile: «Il popolo può fare e disfare quello che vuole, perché nulla deve fermare una pulsione che è diretta emanazione del popolo. Questa logica, ereditata dalla rivoluzione francese nella sua versione illiberale, ha una sua coerenza. Se il popolo è la fonte del potere, nulla può limitare la sua capacità di decidere e di criticare. Nel populismo c'è Rousseau, Robespierre e Marx, mentre la sua critica si dirige contro gli eredi di Montesquieu, di Sieyès, di Tocqueville».
È, in definitiva, la conclusione alla quale giunge Margaret Canovan, che, pur non mostrando simpatie per il fenomeno, ne fa, per citare Francesco Alberoni, il polo “movimentista” della dialettica movimento/istituzioni. In un articolo - dal titolo non poco emblematico - “Il populismo come l’ombra della democrazia”, sostiene che: «Si potrebbe anche sostenere questo parallelismo: come le chiese necessitano di un’occasionale esplosione di fondamentalismo per infondere vita in istituzioni ormai ossificate, così le democrazie hanno bisogno dell’insorgere occasionale di populismo per scuotere i partiti e per costringerli a tener conto delle rivendicazioni popolari».
Ci si chiede, però, dinanzi alle due definizioni in negativo del populismo (antidemocrazia e antiliberalismo) se non ne venga trascurato qualche aspetto cruciale. In particolare, siamo veramente sicuri dell’incompatibilità tra liberalismo e populismo? E non dice nulla il fatto che gli inventori della “democrazia dei moderni”, i nordamericani, siano anche i più gelosi custodi dell’istituzionalismo liberale?
Diritto versus Politica, certamente, ma un conto è se dietro il primo stanno gli individui (con i loro diritti soggettivi) e dietro la seconda il cosiddetto interesse collettivo, un conto ben diverso è se si verifica il contrario ovvero che ci si affidi (a ragione o a torto) al piano politico per difendere gli individui dall’esuberanza del sociale - sancita nelle leggi. Quando il Regno del Diritto conteneva pochi punti fondamentali - come nell’800 e per buona parte del ’900 - il populismo come versante impetuoso, “momento francescano” della democrazia, poteva venir visto come un ricostituente organico, per così dire, troppo forte: al sovrano popolare che diventava sempre più invadente gli individui opponevano le libertà al plurale, i diritti imprescrittibili (vita, libertà, proprietà), il garantismo e l’habeas corpus.
In una situazione molto diversa in cui interesse pubblico, protezione sociale e Welfare State hanno dilagato nei codici, restringendo enormemente il potere degli individui di muoversi, di innovare, di inventarsi sempre nuovi rapporti sociali, di salvaguardare la loro privacy e i loro beni, le istituzioni che incanalano la volontà popolare acquistano tutt’altro significato. Insomma, paradossalmente, in un’ottica liberale, potrebbe essere la determinazione populista a riaprire i giochi in uno Stato sociale col fiato corto, l’asso nella manica di un rinnovato liberalismo.
http://www.libero-news.it/articles/view/554437
carlomartello