Sul problema di una tradizione europea
1 gennaio 2000 (21:15) | Autore: Alberto Lombardo


1Questo saggio di Adriano Romualdi, pubblicato ventitré anni dopo la sua prima edizione, è uno degli scritti più belli e pregnanti che il tradizionalismo italiano abbia prodotto nel dopoguerra, eccezion fatta, come ovvio, per gli scritti e i libri in genere di Julius Evola. In una breve ma alquanto completa sintesi, l’Autore ripercorre quella metafisica della storia già delineata nella seconda parte dell’evoliana Rivolta contro il Mondo Moderno, non mancando però di introdurre interessanti spunti nuovi ed elementi di comparazione infratradizionale.

Fine essenziale del lavoro, come sin dalle prime righe del suo saggio mostra chiaramente l’autore, è quello di ricondurre, nella temperie culturale e politica del tempo attuale, a una comune dimensione i termini di Europa e Tradizione, per restituire alla Tradizione europea e indeuropea il suo giusto carattere di guida spirituale e materiale che da millenni le spetta. E la tradizione indeuropea viene riesaminata, dall’India delle invasioni arie e dei Veda, alla Persia e ai suoi miti, sino all’Ellade e alla romanità, nei suoi cicli – prisco, augusteo, medievale e germanico – come portatrice di una superiore concezione, di contro al mondo dei “sostrati” che i primigeni invasori ebbero a conquistare e dominare. Romualdi individua nel rapporto simbolico tra toro e cervo la lotta di questi due principi: un elemento simboleggiando la forza primigenia e scatenata del caos, l’altro incarnante il simbolo rigenerato della vita in un senso superiore, imperniato sull’elemento-chiave da Romualdi giustamente individuato nella concezione metafisica dell’ordine, lo rta sanscrito, il kosmos greco, la ratio italica e romana, e ancora l’orlog germanico e l’ascia persiano. Si tratta di una concezione dell’armonia e dell’ordine che investe ogni dominio, spirituale e materiale, interiore ed esteriore, in una fusione che vuole la corrispondenza di realtà umana e divina. In questo equilibrio non si perde la funzione dell’uomo, che anzi proprio attraverso la sua volontà determina il corretto scandirsi del tempo, l’equilibrato armonizzarsi delle cose, il giusto rapporto gerarchico tra uomini nelle loro società. E’ questa concezione a muovere eserciti e a provocare migrazioni di popoli, grandi guerre e grandi atti di sacrificio e di eroismo, a portare gli uomini a livelli di dedizione e di milizia che spesso trascendono dal piano semplicemente umano.

Il cristianesimo è visto come un fenomeno essenzialmente estraneo allo spirito indeuropeo. “Il pathos cristiano, questo miscuglio di sentimentalismo plebeo e di semitica magniloquenza, questo umanitarismo venato di isterismo escatologico, contraddice il gusto classico. I fumi d’incenso non riescono a dissimulare l’odore della gente piccola: per il romano distinto il gusto cristiano è una volgarità di fronte all’olimpicità di un Seneca o di un Marco Aurelio. Ma il cristianesimo seppe fondere in un unico crogiuolo tutti i fermenti anticlassici, anti-europei latenti nell’Impero, conferendo alla sua predicazione egualitaria un’altissima carica esplosiva”. Il cristianesimo, insomma, rappresenta dal punto di vista tradizionale un momento di grandissima crisi e in ultima istanza il momento di presa di potere delle forze sovversive e antitradizionali sull’Europa. Si apre così l’oscura epoca della decadenza bizantina e del dominio dell’Oriente sull’Europa. Sino alla rivitalizzazione delle invasioni germaniche, parrebbe spento lo spirito europeo. Ma con la nascita del Sacro Romano Impero e l’importantissima unione di idee-chiave, da una parte il mito di Roma si torna a incontrare con il sangue germanico e dall’altra il cattolicesimo viene europeizzato nel nuovo ciclo del medioevo ghibellino, i caratteri positivi del quale, in definitiva, sono proprio quelli extra-cristiani. La mistica germanica, nell’esempio di Meister Eckhart, sembra “ripetere l’antica parola delle Upanishad“: alimentato nuovamente, il fuoco spirituale che covava sotto le ceneri sembra tornare ad ardere.

Ma si viene alla fine anche di questo ciclo, con la definitiva e irreversibile crisi della cristianità. Il mondo del dopo-Faust vede un ritorno, alterato, degli Olimpici, in cui, seppur nella più nera delle epoche, sembrano offrirsi le possibilità di riscatto più prossime seppur celate. Si tratta della via tradizionale europea alla modernità: il dominio freddo, distaccato e padrone delle forze scatenate, compito che più che mai urge a una razza che sembra aver ormai del tutto perso la coscienza di sé. Nelle ultime pagine del suo bellissimo saggio Romualdi scrive:

“La cristianità appartiene al passato, ma simboli ancor più antichi sembran guardarci con nuova freschezza. La scoperta delle Americhe si compì a bordo della Santa Maria; lo sbarco sulla luna col missile Apollon. Cristo e Maria sbiadiscono, ma il volto apollineo della razionalità ariana rifulge di nuovo. Allo stesso modo – spezzata la cerchia gotica e cristiana delle antiche città – noi riprendiamo a guardare la natura come fonte di meditazione religiosa. La nebbia nei boschi al mattino, i profili azzurri dei monti ci parlano di purità e distanza. Da Goethe in poi, gli Olimpici sono tornati ad esserci più familiari del Crocefisso”.

Si tratta di una lettura agevole e scorrevolissima: non se ne può in nessun caso rimanere indifferenti, e quanto essa dice, meglio di qualsiasi recensione, parla direttamente, col linguaggio dei simboli, all’interiorità più sincera.


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Adriano Romualdi, Sul problema d’una Tradizione Europea, edizioni di Vie della Tradizione, Palermo 1996, pp. 54, £15000.

Articolo tratto da Algiza 7 (1997), pp. 26-27.

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