Oscar Giannino
Spiace, che l’intervista a Mario Monti della Stampa di oggi non dedichi una sola domanda al punto di fondo. Quello sollevato ieri dal Financial Times , che ha svelato che cosa provocherà un calo del Pil italiano tale da compromettere con meno entrate l’obiettivo di azzerare il deficit pubblico al 2013: un’altra snatgata fiscale entro il 2012. E quello su cui apre a titoli di scatola stamane il Wall Street Journal in edizione europea. O l’Italia cambia marcia con meno spesa e meno tasse subito, o la sua recessione come terza economia europea è un guaio per tutti. Oltre che, naturalmente, per noi. menospesa-menotasse: quel che non si è visto, col governo Monti. Né con la sinistra. Né con la destra. Eppure i media su questo muti e zitti, tranne pochissime voci. Luca Ricolfi, Angelo Panebianco, naturalmente noi, pochissimi altri. Il mutismo su questo deriva da cambiamenti indotti alla politica italiana.
E’ ovvio innanzitutto che sia un’amara vita, quella di dati alla mano tenta di battersi da anni contro le crescenti pretese fiscali dello Stato, a danno della spina dorsale che tenta comunque di tenere in piedi l’Italia. L’accusa ricorrente è quella di difendere l’evasione, dipinta in maniera sempre più ossessiva e sistematica come il cancro numero uno dell’Italia, l’espressione più diretta della sua anomia atavica, dell’incapacità di vaste masse di italiani di aderire al patto costitutivo della Repubblica oggi, come di ogni Stato pre esistente all’Unità. Al contrario, non è il DNA civico degli italiani il male economico nazionale. E’ il DNA sempre più incivile delle amministrazioni pubbliche, sempre più degenerato nei decenni di crescita galoppante della spesa corrente, seguita negli ultimi vent’anni da un aumento altrettanto forte della pretesa tributaria e contributiva.
Il sostegno tanto vasto alle martellanti campagne di Stato sulla “colpa dei furbetti italiani” ha determinato nel tempo paradossali conseguenze. Largamente inintenzionali, perché nemmeno il più consumato stratega di comunicazione pubblico avrebbe immaginato vent’anni fa di poter determinare simili trasformazioni, nell’attitudine politica verso il tema da parte tanto della sinistra quanto della destra.
La sinistra, per storia e convinzioni impregnata di maggior fiducia nei confronti delle politiche pubbliche e della redistribuzione dei redditi, ha finito per invocare e difendere ogni aumento della pressione fiscale “marginale”. Avanti con le aliquote più alte, “di solidarietà”, sui redditi più elevati delle persone fisiche. Plauso all’innalzamento progressivo delle aliquote contributive di tutte le figure professionali e fattispecie contrattuali diverse dal lavoro dipendente. L’effetto paradossale è triplice. Primo: alzare le aliquote marginali sulle persone fisihe fa ulteriormente assottigliare la risicatissima percentuale dell’1% di contribuenti oltre i 100mila euro di reddito lordo, lo 0,4% oltre i 200mila, lo 0,07% oltre i 300mila. I ricchi si dematerializzano, perché meglio degli altri possono arbitrare l’aliquota imputando reddito a società italiane ed estere, controllate o partecipate. Secondo: nel frattempo poiché la spesa corrente aumenta sempre – solo in tre anni nella storia della Repubblica è scesa in termini reali, con Ciampi una volta, poi nel 2010 e 2011 – ecco che gli alleggerimenti tributari e contributivi ai decìli di reddito più basso, quelli cari alla sin istra, non sono avvenuti mai o quasi, per importi risibili. Terzo: nel tessuto d’impresa, è bastonata assai più la piccola e piccolissima, artigiani e commercianti, rispetto alla media impresa, alle grandi e alle banche che la vecchia sinistra attaccava.
E’ la sinistra stessa – nella storia e nell’evoluzione dell’ordinamento italiano – ad aver congegnato un sistema del prelievo sulle persone giuridiche che ribalta il principio della progressività fiscale stabilito dall’articolo 53 della Costituzione, ed è di qui che discende il fatto che il tax rate reale dei “piccoli” sia anche di 30 punti superiore a quello del grande capitale. La sinistra vischiana aveva pensato a un grande compromesso con grande industria e banche, oltre che a un premio incentivante alla crescita della dimensione d’impresa, che è generalmente troppo piccola per poter adeguatamente esser patrimonializzata e per investire su crescita innovativa. Ma, mentre il credit crunch è più duro per i piccoli e lo Stato li mette nel mirino – l’intero e pesante aggravamento della rigidità all’entrata nel mercato del lavoro proposto dal ministro Fornero, per esempio, è a loro carico, non della grande industria – l’odio sociale crescente che li addita come evasori è un ulteriore autogol della sinistra. Respingere l’idea che un’impresa artigiana in contabilità ordinaria dichiari 22mila euro l’anno mentre il dipendente sta a 17mila, come si è letto la settimana scorsa a proposito dei dati fuorvianti proposti anche quest’anno dal ministero delle Finanze (tanto fuorvianti che anche lo stesso Attilio Befera ha dovuto riconoscerlo, l’indomani, con la comprensibile cautela visto che il ministero è il suo controllante in Agenzia delle Entrate ed Equitalia), per la sinistra è come tagliarsi l’erba sotto i piedi: i sette milioni di dipendenti di Rete Imprese Italia sono a basso reddito e sempre più piagati da una domanda domestica in regresso, ricorderanno che Stato e sinistra li additano come colpevoli invece che vittime.
Ma anche per la destra, o meglio per quel che ne resta tra divisioni, smarrimenti, inabissamenti e indagini giudiziarie, la campagna mediatica dello Stato assetato ha comportato tre conseguenze singolari. Primo: poiché ha indecorosamente fallito nei tagli alla spesa pubblica, e ha più responsabilità della stessa sinistra nell’aver dilapidato i sette punti di Pil di minor oneri sul debito pubblico regalatici ogni anno dall’euro, ecco che la destra ha finito per dover praticare e assecondare ciò che aveva sempre spergiurato di non fare, cioè mettere ancora più pesantemente le mani nelle tasche degli italiani. Secondo: a differenza di quanto avviene in tutti i paesi avanzati di fronte all’esplosione del debito pubblico, la destra italiana o quel che ne resta ormai non ha più alcuna credibile proposta di tagli fiscali equilibrati da minor spesa, nell’ambito di quei 5-7 punti di Pil in meno in 3-4 anni che sono l’orizzonte delle grandi riforme perseguite nel precrisi da Paesi come la Germania, che grazie a questo si sono vigorosamente rimessi in piedi. Terzo: la destra in questo ha deluso sia le grandi imprese, sia soprattutto le piccole e piccolissime. E’ inconcepibile che non ne paghi il conto elettorale.
Conclusione. E’ un dovere civile, battersi e sostenere che artigiani e commercianti, imprese piccole e piccolissime hanno sacrosantamente ragione a chiedere meno tasse e contributi, spiegare ogni giorno che è giusto tentino di arrangiarsi approfittando di ogni piega dell’ordinamento per diminuire il loro carico fiscale, urlare che è uno schifo che nessuno si muova di fronte ai piccoli che si suicidano e si danno fuoco davanti all’Agenzia delle Entrate. Anche il governo tecnico prende e tassa, ma non taglia. Che cosa la politica riuscirà a fare, si vedrà più avanti. Ma nel frattempo bisogna assolutamente far sentire meno sola l’Italia che tenta di stare in piedi. Un’Italia a cui lo Stato è nemico. Che debba aprirci la sua edizione il Wall Strett Journal, mentre noi pensiamo ad altro, è solo riprova dell’ipocrisia italiana.