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    Predefinito Gli animali nella letteratura

    Fin dai tempi antichi, molto spesso, nei testi letterari, sono state raccontate storie in cui gli animali facevano da protagonisti o comunque la loro presenza aveva un ruolo determinante nello svolgersi delle vicende.
    Spesso legati a questa o quella simbologia, si sono sostituiti all’autore, per ricordare princìpi, idee, sentimenti o vizi umani, nel tentativo di guidare l’uomo nella strada del “giusto”.
    Può essere interessante riportare in questo spazio alcuni brani in cui siano proprio gli animali a fare da attori.

    Per cominciare, non potevo non pensare al nostro Dante e quindi alla Divina Commedia:
    Già nel I Canto dell’Inferno, ci racconta del suo incontro con le tre fiere, la lonza, il leone e la lupa, che rappresenterebbero la lussuria, la superbia e la cupidigia o l'avarizia e come tali renderebbero difficile all'uomo la via della Salvezza.

    Ed ecco, quasi al cominciar de l'erta,
    una lonza leggiera e presta molto,
    che di pel macolato era coverta;
    e non mi si partia dinanzi al volto,
    anzi 'mpediva tanto il mio cammino,
    ch'i' fui per ritornar più volte vòlto.
    Temp' era dal principio del mattino,
    e 'l sol montava 'n sù con quelle stelle
    ch'eran con lui quando l'amor divino
    mosse di prima quelle cose belle;
    sì ch'a bene sperar m'era cagione
    di quella fiera a la gaetta pelle
    l'ora del tempo e la dolce stagione;
    ma non sì che paura non mi desse
    la vista che m'apparve d'un leone.
    Questi parea che contra me venisse
    con la test' alta e con rabbiosa fame,
    sì che parea che l'aere ne tremesse.
    Ed una lupa, che di tutte brame
    sembiava carca ne la sua magrezza,
    e molte genti fé già viver grame,
    questa mi porse tanto di gravezza
    con la paura ch'uscia di sua vista,
    ch'io perdei la speranza de l'altezza.
    E qual è quei che volontieri acquista,
    e giugne 'l tempo che perder lo face,
    che 'n tutti suoi pensier piange e s'attrista;
    tal mi fece la bestia sanza pace,
    che, venendomi 'ncontro, a poco a poco
    mi ripigneva là dove 'l sol tace.

  2. #2
    il pleure dans mon coeur
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    Predefinito Re: Gli animali nella letteratura

    Odissea, diciasettesimo libro, vv 290-327

    Così essi tali parole fra loro dicevano:
    e un cane, sdraiato là, rizzò muso e orecchie,
    Argo, il cane del costante Odisseo, che un giorno
    lo nutrì di suo mano (ma non doveva goderne), prima che per Ilio sacra
    partisse; e in passato lo conducevano i giovani
    a caccia di capre selvatiche, di cervi, di lepri;
    ma ora giaceva là, trascurato, partito il padrone,
    sul molto letame di muli e buoi, che davanti alle porte
    ammucchiavano, perché poi lo portassero
    i servi a concimare il grande terreno d’Odisseo;
    là giaceva il cane Argo, pieno di zecche.
    E allora, come sentì vicino Odisseo,
    mosse la coda, abbassò le due orecchie,
    ma non poté correre incontro al padrone.
    E il padrone, voltandosi, si terse una lacrima,
    facilmente sfuggendo a Eumeo; e subito con parole chiedeva:
    “Eumeo, che meraviglia quel cane là sul letame!
    Bello di corpo, ma non posso capire
    se fu anche rapido a correre con questa bellezza,
    oppure se fu soltanto come i cani da mensa dei principi,
    per splendidezza i padroni li allevano”.
    E tu rispondendogli, Eumeo porcaio, dicevi:
    “Purtroppo è il cane d’un uomo morto lontano.
    Se per bellezza e vigore fosse rimasto
    come partendo per Troia lo lasciava Odisseo,
    t’incanteresti a vederne la snellezza e la forza.
    Non gli sfuggiva, anche nel cupo di folta boscaglia,
    qualunque animale vedesse, era bravissimo all’usta.
    Ora è malconcio, sfinito: il suo padrone è morto lontano
    dalla patria e le ancelle, infingarde, non se ne curano.
    Perché i servi, quando i padroni non li governano,
    non hanno voglia di far le cose a dovere;
    metà del valore d’un uomo distrugge il tonante
    Zeus, allorché schiavo giorno lo afferra”.
    Così detto, entrò nella comoda casa,
    diritto andò per la sala fra i nobili pretendenti.
    E Argo la Moira di nera morte afferrò
    appena rivisto Odisseo, dopo vent’anni.

  3. #3
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    Predefinito Re: Gli animali nella letteratura

    Citazione Originariamente Scritto da tricatel Visualizza Messaggio
    Odissea, diciasettesimo libro, vv 290-327

    Così essi tali parole fra loro dicevano:
    e un cane, sdraiato là, rizzò muso e orecchie,
    Argo, il cane del costante Odisseo, che un giorno
    lo nutrì di suo mano (ma non doveva goderne), prima che per Ilio sacra
    partisse; e in passato lo conducevano i giovani
    a caccia di capre selvatiche, di cervi, di lepri;
    ma ora giaceva là, trascurato, partito il padrone,
    sul molto letame di muli e buoi, che davanti alle porte
    ammucchiavano, perché poi lo portassero
    i servi a concimare il grande terreno d’Odisseo;
    là giaceva il cane Argo, pieno di zecche.
    E allora, come sentì vicino Odisseo,
    mosse la coda, abbassò le due orecchie,
    ma non poté correre incontro al padrone.
    E il padrone, voltandosi, si terse una lacrima,
    facilmente sfuggendo a Eumeo; e subito con parole chiedeva:
    “Eumeo, che meraviglia quel cane là sul letame!
    Bello di corpo, ma non posso capire
    se fu anche rapido a correre con questa bellezza,
    oppure se fu soltanto come i cani da mensa dei principi,
    per splendidezza i padroni li allevano”.
    E tu rispondendogli, Eumeo porcaio, dicevi:
    “Purtroppo è il cane d’un uomo morto lontano.
    Se per bellezza e vigore fosse rimasto
    come partendo per Troia lo lasciava Odisseo,
    t’incanteresti a vederne la snellezza e la forza.
    Non gli sfuggiva, anche nel cupo di folta boscaglia,
    qualunque animale vedesse, era bravissimo all’usta.
    Ora è malconcio, sfinito: il suo padrone è morto lontano
    dalla patria e le ancelle, infingarde, non se ne curano.
    Perché i servi, quando i padroni non li governano,
    non hanno voglia di far le cose a dovere;
    metà del valore d’un uomo distrugge il tonante
    Zeus, allorché schiavo giorno lo afferra”.
    Così detto, entrò nella comoda casa,
    diritto andò per la sala fra i nobili pretendenti.
    E Argo la Moira di nera morte afferrò
    appena rivisto Odisseo, dopo vent’anni.
    Tricatel, mi hai letto nel "pensiero on line", perchè poco fa mi era venuto in mente questo bellissimo e commovente passo dell'Odissea!iaociao:

  4. #4
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    Predefinito Re: Gli animali nella letteratura

    Citazione Originariamente Scritto da Heidi Visualizza Messaggio
    Tricatel, mi hai letto nel "pensiero on line", perchè poco fa mi era venuto in mente questo bellissimo e commovente passo dell'Odissea!iaociao:
    l'Odissea è il libro che ho sempre sul comodino ho pensato a questo passo appeno letto il tuo bel 3d

  5. #5
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    Predefinito Re: Gli animali nella letteratura

    Nel VI canto dell'Inferno Dante incontra Cerbero, un cane dotato di tre teste, che rappresentano l'eccedenza del vizio della gola, per la quantità, la qualità e la consumazione continua del cibo.


    Cerbero, fiera crudele e diversa,
    con tre gole caninamente latra
    sovra la gente che quivi e' sommersa.

    Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,
    e 'l ventre largo, e unghiate le mani;
    graffia li spirti ed iscoia ed isquatra.

  6. #6
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    Predefinito Re: Gli animali nella letteratura

    Nel X libro dell'Odissea, anche il maiale trova il suo momento di gloria, quando Ulisse sbarca nell'isola di Eea, dove vive la maga Circe, che, offrendo una bevanda ricca di sostanze magiche, trasforma gli uomini di Ulisse in porci e li tiene prigionieri.


    Entro una valle, il palagio trovarono bello di Circe,
    tutto di lucidi marmi, in mezzo a un'aprica pianura. 210
    Tutto d'intorno, lupi movevano e alpestri leoni,
    ch'essa tenea domati, perché li molceva con filtri;
    né s'avventarono punto sugli uomini, e invece, levati
    su piè, le lunghe code festosi agitavano tutti.
    Come al padrone che torna da mensa costumano i cani 215
    scodinzolare, ché sempre con sé porta qualche leccume:
    così lupi ed unghiuti leoni d'intorno ai compagni
    scodinzolavano; e quelli temevan, veggendo le fiere.
    Stettero innanzi alla soglia di Circe dal fulgido crine.
    E udir la bella voce di Circe che dentro cantava 220
    ed una tela grande tesseva, immortale, siccome
    l'opere son delle Dive, son fini eleganti fulgenti.
    Primo a parlare prese Polite, signore di genti,
    ch'era fra tutti i compagni l'esimio, il più caro al mio cuore:
    "Compagni miei, c'è una lì dentro che tesse una tela 225
    e dolcemente canta, che tutta n'echeggia la casa,
    non so se donna o diva: su, diamole presto una voce".
    Subito Circe aperse le fulgide porte, uscì fuori,
    e l'invitò. Tutti quanti le tennero incauti dietro:
    solo Euriloco fuori restò, che temea qualche inganno. 230
    Circe, condottili dentro, su seggi e su troni li assise,
    cacio per essi intrise con miele dorato e farina,
    con vin di fiamma; e filtri maligni mescé nell'intriso,
    ché della terra nativa ricordo nei cuori non restasse.
    Ora, poi che Circe ebbe offerto, quegli altri ingoiato l'intriso, 235
    li colpì con una verga, li rinchiuse dentro il porcile;
    e già di porci avevano le setole, muso, grugnito,
    tutto l'aspetto: soltanto la mente era quella di prima.
    Furon così rinchiusi, che urlavan, piangevano; e Circe
    ghiande per cibo ad essi gittò, corniole, lecciole, 240
    tutte vivande dei porci, che sempre grufano a terra.

  7. #7
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    Predefinito Re: Gli animali nella letteratura

    Altro personaggio-animale che mi ha sempre affascinato, fin da bambina, all'interno della storia di Pinocchio, è quello del grillo parlante, che cerca di dare i giusti consigli al burattino, ma inutilmente.


    Capitolo IV

    La storia di Pinocchio col Grillo-parlante, dove si vede come i ragazzi cattivi hanno
    a noja di sentirsi correggere da chi ne sa piú di loro.


    Vi dirò dunque, ragazzi, che mentre il povero Geppetto era condotto senza sua colpa in prigione, quel monello di Pinocchio, rimasto libero dalle grinfie del carabiniere, se la dava a gambe giú attraverso ai campi, per far piú presto a tornarsene a casa; e nella gran furia del correre saltava greppi altissimi, siepi di pruni e fossi pieni d’acqua, tale e quale come avrebbe potuto fare un capretto o un leprottino inseguito dai cacciatori.
    Giunto dinanzi a casa, trovò l’uscio di strada socchiuso. Lo spinse, entrò dentro, e appena ebbe messo tanto di paletto, si gettò a sedere per terra, lasciando andare un gran sospirone di contentezza.
    Ma quella contentezza durò poco, perché sentí nella stanza qualcuno che fece:
    — Crí-crí-crí!
    — Chi è che mi chiama? — disse Pinocchio tutto impaurito.
    — Sono io! —
    Pinocchio si voltò, e vide un grosso grillo che saliva lentamente su su per il muro.
    — Dimmi, Grillo, e tu chi sei?
    — Io sono il Grillo-parlante, e abito in questa stanza da piú di cent’anni.
    — Oggi però questa stanza è mia — disse il burattino — e se vuoi farmi un vero piacere, vattene subito, senza nemmeno voltarti indietro.
    — Io non me ne anderò di qui, — rispose il Grillo — se prima non ti avrò detto una gran verità.
    — Dimmela e spicciati.
    — Guai a quei ragazzi che si ribellano ai loro genitori, e che abbandonano capricciosamente la casa paterna. Non avranno mai bene in questo mondo; e prima o poi dovranno pentirsene amaramente.
    — Canta pure, Grillo mio, come ti pare e piace: ma io so che domani, all’alba, voglio andarmene di qui, perché se rimango qui, avverrà a me quel che avviene a tutti gli altri ragazzi, vale a dire mi manderanno a scuola, e per amore o per forza mi toccherà a studiare; e io, a dirtela in confidenza, di studiare non ne ho punto voglia, e mi diverto piú a correre dietro alle farfalle e a salire su per gli alberi a prendere gli uccellini di nido.
    — Povero grullerello! Ma non sai che, facendo cosí, diventerai da grande un bellissimo somaro, e che tutti si piglieranno gioco di te?
    — Chetati, Grillaccio del mal’augurio! — gridò Pinocchio.
    Ma il Grillo, che era paziente e filosofo, invece di aversi a male di questa impertinenza, continuò con lo stesso tono di voce:
    — E se non ti garba di andare a scuola, perché non impari almeno un mestiere, tanto da guadagnarti onestamente un pezzo di pane?
    — Vuoi che te lo dica? — replicò Pinocchio, che cominciava a perdere la pazienza. — Fra i mestieri del mondo non ce n’è che uno solo che veramente mi vada a genio.
    — E questo mestiere sarebbe?
    — Quello di mangiare, bere, dormire, divertirmi e fare dalla mattina alla sera la vita del vagabondo.
    — Per tua regola — disse il Grillo-parlante con la sua solita calma — tutti quelli che fanno codesto mestiere, finiscono quasi sempre allo spedale o in prigione.
    — Bada, Grillaccio del mal’augurio!... se mi monta la bizza, guai a te!...
    — Povero Pinocchio! mi fai proprio compassione!...
    — Perché ti faccio compassione?
    — Perché sei un burattino e, quel che è peggio, perché hai la testa di legno. —
    A queste ultime parole, Pinocchio saltò su tutt’infuriato e preso di sul banco un martello di legno, lo scagliò contro il Grillo-parlante.
    Forse non credeva nemmeno di colpirlo; ma disgraziatamente lo colse per l’appunto nel capo, tanto che il povero Grillo ebbe appena il fiato di fare crí-crí-crí, e poi rimase lí stecchito e appiccicato alla parete.
    Ultima modifica di Heidi; 24-04-12 alle 23:03

  8. #8
    il pleure dans mon coeur
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    Predefinito Re: Gli animali nella letteratura

    da "A ovest di Roma" di John Fante

    Gradualmente i miei occhi percepirono un'immagine.
    Era una pecora. Non le vedevo la testa, solo il didietro
    lanoso e la pancia. Improvvisamente la corrente del
    vento cambiò la direzione della pioggia e la forma si modificò.
    Trattenni il respiro. Non era una pecora. Aveva persino una
    criniera.
    - E' un leone, - dissi, arretrando.
    Ma lei aveva una vista perfetta.
    - Non è niente del genere -. Nella sua voce non c'era
    più neanche l'ombra della paura.- E' solo un cane-. Gli andò
    vicino, senza timore.
    Ed era proprio un cane, un cane molto grande,con la pelliccia
    folta, era marrone e nero, con un gran testone e un naso nero,
    corto e tozzo, una bestia tristissima con il malinconico muso di
    un orso.

    (un libro da leggere!)

  9. #9
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    Predefinito Re: Gli animali nella letteratura

    Nel Decamerone di G. Boccaccio, nella sesta giornata, la quarta novella racconta la divertente ed arguta storia di "Chichibio e la gru"


    Currado Gianfigliazzi sì come ciascuna di voi e udito e veduto puote avere, sempre della nostra città è stato nobile cittadino, liberale e magnifico, e vita cavalleresca tenendo, continuamente in cani e in uccelli s'è dilettato, le sue opere maggiori al presente lasciando stare. Il quale con un suo falcone avendo un dì presso a Peretola una gru ammazata, trovandola grassa e giovane, quella mandò ad un suo buon cuoco, il quale era chiamato Chichibio, ed era viniziano, e sì gli mandò dicendo che a cena l'arrostisse e governassela bene. Chichibio, il quale come riuovo bergolo era così pareva, acconcia la gru, la mise a fuoco e con sollicitudine a cuocerla cominciò. La quale essendo già presso che cotta grandissimo odor venendone, avvenne che una feminetta della contrada, la qual Brunetta era chiamata e di cui Chichibio era forte innamorato, entrò nella cucina; e sentendo l'odor della gru e veggendola, pregò caramente Chichibio che ne le desse una coscia. Chichibio le rispose cantando e disse:
    - "Voi non l’avrì da mi, donna Brunetta, voi non l’avrì da mi".
    Di che donna Brunetta essendo un poco turbata, gli disse:
    - In fè di Dio, se tu non la mi dai, tu non avrai mai da me cosa che ti piaccia; - e in brieve le parole furon molte. Alla fine Chichibio, per non crucciar la sua donna, spiccata l'una delle cosce alla gru, gliele diede.
    Essendo poi davanti a Currado e ad alcun suo forestiere messa la gru senza coscia, e Currado maravigliandosene, fece chiamare Chichibio e domandollo che fosse divenuta l'altra coscia della gru. Al quale il vinizian bugiardo subitamente rispose:
    - Signor mio, le gru non hanno se non una coscia e una gamba.
    Currado allora turbato disse:
    - Come diavol non hanno che una coscia e una gamba? Non vid'io mai più gru che questa?
    Chichibio seguitò:
    - Egli è, messer, com'io vi dico; e quando vi piaccia, io il vi farò veder né vivi.
    Currado, per amor dei forestieri che seco aveva, non volle dietro alle parole andare, ma disse:
    - Poi che tu dì di farmelo vedere né vivi, cosa che io mai più non vidi né udii dir che fosse, e io il voglio veder domattina e sarò contento; ma io ti giuro in sul corpo di Cristo, che, se altramenti sarà, io ti farò conciare in maniera che tu con tuo danno ti ricorderai, sempre che tu ci viverai, del nome mio.
    Finite adunque per quella sera le parole, la mattina seguente come il giorno apparve, Currado, a cui non era per lo dormire l'ira cessata, tutto ancor gonfiato si levò e comandò che i cavalli gli fosser menati; e fatto montar Chichibio sopra un ronzino, verso una fiumana, alla riva della quale sempre soleva in sul far del dì vedersi delle gru, nel menò dicendo:
    - Tosto vedremo chi avrà iersera mentito, o tu o io.
    Chichibio, veggendo che ancora durava l'ira di Currado e che far gli convenia pruova della sua bugia, non sappiendo come poterlasi fare, cavalcava appresso a Currado con la maggior paura del mondo, e volentieri, se potuto avesse, si sarebbe fuggito; ma non potendo, ora innanzi e ora addietro e da lato si riguardava, e ciò che vedeva credeva che gru fossero che stessero in due piedi.
    Ma già vicini al fiume pervenuti, gli venner prima che ad alcun vedute sopra la riva di quello ben dodici gru, le quali tutte in un piè dimoravano, si come quando dormono soglion fare. Per che egli prestamente mostratele a Currado, disse:
    - Assai bene potete, messer, vedere che iersera vi dissi il vero, che le gru non hanno se non una coscia e un piè, se voi riguardate a quelle che colà stanno.
    Currado vedendole disse:
    - Aspettati, che io ti mosterrò che elle n'hanno due; - e fattosi alquanto più a quelle vicino gridò: - Ho ho; - per lo qual grido le gru, mandato l'altro piè giù, tutte dopo alquanti passi cominciarono a fuggire. Laonde Currado rivolto a Chichibio disse:
    - Che ti par, ghiottone? Parti ch'elle n'abbian due?
    Chichibio quasi sbigottito, non sappiendo egli stesso donde si venisse, rispose:
    - Messer sì, ma voi non gridaste - ho ho - a quella di iersera; ché se così gridato aveste, ella avrebbe così l'altra coscia e l'altro piè fuor mandata, come hanno fatto queste.
    A Currado piacque tanto questa risposta, che tutta la sua ira si convertì in festa e riso, e disse:
    - Chichibio, tu hai ragione, ben lo dovea fare.
    Così adunque con la sua pronta e sollazzevol risposta Chichibio cessò la mala ventura e paceficossi col suo signore.

  10. #10
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    Predefinito Re: Gli animali nella letteratura

    Bellissima e triste poesia di Giovanni Pascoli, scritta dopo l'assassinio del padre nel 1867.

    Cavallina storna
    (l'immagine è uno schizzo fatto proprio dal poeta)






    Cavallina storna

    Nella Torre il silenzio era già alto.
    Sussurravano i pioppi del Rio Salto.

    I cavalli normanni alle lor poste
    frangean la biada con rumor di croste.

    Là in fondo la cavalla era, selvaggia,
    nata tra i pini su la salsa spiaggia;

    che nelle froge avea del mar gli spruzzi
    ancora, e gli urli negli orecchi aguzzi.

    Con su la greppia un gomito, da essa
    era mia madre; e le dicea sommessa:

    "O cavallina, cavallina storna,
    che portavi colui che non ritorna;

    tu capivi il suo cenno ed il suo detto!
    Egli ha lasciato un figlio giovinetto;

    il primo d'otto tra miei figli e figlie;
    e la sua mano non toccò mai briglie.

    Tu che ti senti ai fianchi l'uragano,
    tu dai retta alla sua piccola mano.

    Tu c'hai nel cuore la marina brulla,
    tu dai retta alla sua voce fanciulla".

    La cavalla volgea la scarna testa
    verso mia madre, che dicea più mesta:

    "O cavallina, cavallina storna,
    che portavi colui che non ritorna;

    lo so, lo so, che tu l'amavi forte!
    Con lui c'eri tu sola e la sua morte

    O nata in selve tra l'ondate e il vento,
    tu tenesti nel cuore il tuo spavento;

    sentendo lasso nella bocca il morso,
    nel cuor veloce tu premesti il corso:

    adagio seguitasti la tua via,
    perché facesse in pace l'agonia...".

    La scarna lunga testa era daccanto
    al dolce viso di mia madre in pianto.

    "O cavallina, cavallina storna,
    che portavi colui che non ritorna;

    oh! due parole egli dové pur dire!
    E tu capisci, ma non sai ridire.

    Tu con le briglie sciolte tra le zampe,
    con dentro gli occhi il fuoco delle vampe,

    con negli orecchi l'eco degli scoppi,
    seguitasti la via tra gli alti pioppi:

    lo riportavi tra il morir del sole,
    perché udissimo noi le sue parole".

    Stava attenta la lunga testa fiera.
    Mia madre l'abbraccio' su la criniera.

    "O cavallina, cavallina storna,
    portavi a casa sua chi non ritorna!

    a me, chi non ritornerà più mai!
    Tu fosti buona... Ma parlar non sai!

    Tu non sai, poverina; altri non osa.
    Oh! ma tu devi dirmi una una cosa!

    Tu l'hai veduto l'uomo che l'uccise:
    esso t'è qui nelle pupille fise.

    Chi fu? Chi è? Ti voglio dire un nome.
    E tu fa cenno. Dio t'insegni, come".

    Ora, i cavalli non frangean la biada:
    dormian sognando il bianco della strada.

    La paglia non battean con l'unghie vuote:
    dormian sognando il rullo delle ruote.

    Mia madre alzò nel gran silenzio un dito:
    disse un nome . . . Sonò alto un nitrito.

    Giovanni Pascoli

 

 
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