Gabriele D’Annunzio e la fede
Scritto da Romano Maria Levante il 27 febbraio 2009
Osservazioni sul mistero della religiosità del Vate.
Scriveva Giuseppe Pecci quarant’anni fa, nel suo “D’Annunzio e il mistero”, che era lungi da lui “l’idea di fare del D’Annunzio, anche vecchio, anche negli ultimi tormentati giorni, un asceta o un santo e nemmeno un cristiano convinto”. E concludeva che egli “portò con sé il suo mistero” ponendo l’ interrogativo: “Possiamo però pietosamente chiederci se, in definitiva, abbia prevalso in lui, negli ultimi istanti, la dura lucidità del suo cervello o il cristiano respiro di sua madre”, che egli chiamava “la mia madre santa”.
Piero Bargellini, nel sottolineare “il tormento della sua anima” affermava: “Che il goditore pagano abbia incontrato il Cristo, è un fatto per me certissimo. Ma non è detto che un incontro o una nostalgia siano sufficienti a fare un cristiano. Che il D’Annunzio abbia lottato con l’Angiolo è, sempre secondo me, dimostrabile. Quale sia stato l’esito della lotta resta un mistero che l’uomo s’è portato nella morte. E’, del resto, il mistero di tutti gli uomini”.
Entrambi questi autori ponevano con forza l’ interrogativo sulla sua religiosità e sul suo approdo finale. Il dilemma di Pecci richiama la lettera scritta dal Poeta il 25 marzo 1937, un anno prima della morte, a Maroni, il suo braccio destro al Vittoriale, nella quale si confidava così: “In uno dei miei libri io mi dicevo ‘mistico senza Dio’, ma col passar degli anni mi sono riconosciuto – pur contro la lucidità del mio cervello – sempre più inclinato a un misticismo visionario e più segretamente trepido al soffio del Soprannaturale”. E concludeva: “Ormai da venti anni io vivo nel respiro di mia madre vivente e presente e, come più gli anni passano, più la presenza diventa reale e attiva”. La risposta autentica la dà lo stesso Poeta in un altro scritto: “E oggi ritrovo le impronte delle ginocchia materne… nella solitudine del mio muto eroismo da cui dovrò dipartirmi…
E nell’una e nell’altra impronta oggi ritrovo il pensiero che condurrà la mia devozione e il pensiero che mi salverà l’anima”. Parole eloquenti che tuttavia non sono risolutrici del mistero.
Cerchiamo ora, nel settantunesimo anniversario della morte del Poeta, di riproporre l’interrogativo sul D’Annunzio credente dando una risposta, motivata e speriamo convincente, in una sorta di “processo” con prove precise e verificabili: un processo non a D’Annunzio ma a coloro che hanno fatto prevalere altri aspetti più evidenti e superficiali rispetto alla sua profonda spiritualità che si traduce in religiosità e fede.
La testimonianza rivelatrice della modella della Stanza del Lebbroso
Ogni indagine che si rispetti inizia con delle prove testimoniali e la nostra non fa eccezione. Anzi possiamo avvalerci di una supertestimone, la modella degli affreschi della Stanza del Lebbroso, la più intima e carica di simboli del Vittoriale, che ha dato corpo ai dipinti del pittore Guido Cadorin raffiguranti Santa Elisabetta d’Ungheria e Sibilla di Fiandra – due delle sante donne dipinte nel soffitto che dovevano assisterlo simbolicamente nella solitudine della vecchiaia – e la Maddalena che asciuga i piedi a Gesù nel quadro sull’architrave. Le sue rivelazioni sulle confidenze del Poeta in merito alla propria religiosità sono eloquenti e inequivocabili.
“La religione entrava spesso nelle nostre conversazioni – ci ha detto Ines Pradella, la Fiammetta di D’Annunzio – e forse anche la mia fede fu uno dei motivi per i quali si rafforzò la mia identificazione con le Sante donne per le quali ero stata la modella, che mi legò a quella che lui vide come una missione di assistenza del Lebbroso, e in ultimo del Moribondo”. Da qui un flusso di confidenze preziose, a partire dai racconti che il Poeta le faceva di episodi evangelici e di parabole, come la Samaritana, l’Emorroissa che toccando Gesù si sentì guarita, la festa delle Capanne, il discorso della Montagna, la Maddalena; una figura ben diversa, possiamo aggiungere, da quella risultante dalle “Parabole” dissacranti del “Vangelo secondo l’Avversario” e dagli altri scritti giovanili considerati come prova di irreligiosità sconfinante con la blasfemia, ma che lui stesso definì semplici esercizi stilistici senza intenzione antireligiosa.
I ricordi della confidente sono molto precisi. Intanto le diceva che “tutte le religioni attestano la vita eterna ma solo la nostra è quella vera”, e ciò è espresso plasticamente nella Stanza delle Reliquie dove al culmine delle divinità orientali vi è la Madonna cattolica, circondata dagli angeli e dai santi. “Il mio Dio – diceva a Fiammetta – mi ha dato un’anima assetata, un desiderio ardente per cose non di quaggiù”.
Le confidava di aver fatto la ricerca di Sant’Agostino e di essere giunto alla stessa sua conclusione di un’entità divina, trascendente, “Super nos”, alla quale fare sicuro riferimento. La Verità, il Paradiso, ripeteva, sono “molto più su, sopra le stelle, dove si svela un grande amore”. E ancora più direttamente andava al cuore della nostra religione: “Solo Cristo è morto per noi e solo per lui vi è stata la Resurrezione. Nessuno è più grande del nostro Gesù crocifisso perché nessuno ama più di uno che dà la vita”. Chiamava Gesù “divino salvatore” e non aveva paura perché, diceva, “la carità del mio personale salvatore supera tutto” ; e aggiungeva rivolto alla confidente: “Io ho un personale salvatore come pure lo hai tu”.
Dalle rivelazioni della modella emergono importanti indicazioni su questa religiosità che appare profonda. “Aveva fiducia e non timore – ci ha detto la testimone – perché era certo che la salvezza viene dalla grazia, un dono di Dio che non dipende dalle opere”. Spiegava che “Gesù è morto sulla croce per ciascuno di noi, nella sua bontà infinita ha perdonato tutti, livellando passato, presente e futuro; la vita eterna esiste, si deve aver fede nella grandezza di Dio e nell’immortalità. Credeva nella Resurrezione”. Anche qui ci sovviene un riferimento al Vittoriale, dove c’è il “Corridoio della Via Crucis” con alle pareti le quattordici stazioni del Calvario; e si trovano tanti oggetti sacri e immagini di culto incompatibili con una visione atea o soltanto agnostica, pur nell’estetismo senza limiti dell’immaginifico.
La testimonianza di Fiammetta consente di dare una spiegazione sia a queste confidenze sia agli atteggiamenti esteriori del Poeta spesso contrastanti con il suo intimo sentire: “Mi diceva sempre che la mia presenza lo avvicinava ancora di più alla religione della sua terra e di sua madre, religione che sentiva intimamente propria, al di là dell’osservanza esteriore e ripeteva le parole: ‘Fiammetta, tieni viva la tua fiamma che risplenda nella notte’, riferendole alla fiamma della fede di cui gli parlavo, ed anche all’iscrizione che spicca nella Stanza del Lebbroso, ‘Foco ho meco eterno’. Con me si sentiva del tutto a suo agio perché la mia semplicità gli consentiva di parlare di argomenti religiosi senza il timore, dal quale era assillato, che si cercasse di ‘convertirlo’”.
La testimone va ancora oltre nei suoi ricordi: “Mi confidava che la sua immagine di grande peccatore e di superuomo al di sopra di ogni vincolo e legame non si confaceva ad un’osservanza religiosa convenzionale e bigotta, alla quale sarebbe stato tenuto pubblicamente come credente. Aggiungeva che non tollerava nuove intromissioni dopo le tante che aveva dovuto sopportare e soprattutto non permetteva che altri penetrassero nella sfera più riposta dei suoi sentimenti”.
Qui possiamo trovare, in un certo senso, la base di tante incomprensioni sull’autentica posizione del Poeta in campo religioso. La sua vita da superuomo, al di là del bene e del male che irrideva la morale comune, era agli antipodi dalla vita religiosa; d’altra parte vi erano comportamenti, aperture sia verso i religiosi – come i frati e il parroco di Gardone don Fava – sia verso momenti elevati di ispirazione cristiana che alimentavano tentativi di conversione sempre ricusati. E questo, riteniamo, non perché disdegnasse parlare di religione – e le rivelazioni di Fiammetta sono lì a provarlo- quanto per il suo irriducibile rifiuto a svelarsi, a scoprirsi, che così esprime nel “Libro segreto”: “Il mio inumano piacere nell’esser disconosciuto e nell’adoprarsi a esser disconosciuto. Forse lo conosco io solo, sinceramente io solo so assaporarlo e di continuo rinnovellarlo.
Io attendo quanto più ho fretta, più mi contengo quanto più sono impetuoso, più scuro quando sono più lucente. Più mi spengo quanto sono più ardente: soffoco le faville, non il fuoco addentro”.
Ma nonostante tutto, di queste faville espressione di un’intima religiosità che sconfina nella fede ne ha sparse molte nella vita e negli scritti autobiografici. Cerchiamo di raccoglierle per condurre i necessari riscontri obiettivi al racconto della supertestimone, come in ogni indagine che si rispetti.
I riscontri nella vita
Le faville di religiosità seminate da D’Annunzio sono molteplici, insieme ad altrettante manifestazioni di segno opposto, la condotta “immorale” che gli veniva contestata e, negli scritti, la letteratura sensuale-mistica ritenuta corruttrice dei giovani per il grande ascendente che aveva su di loro: Francesco Flora, critico di lui in età matura, scrisse che “deve avere il segno intimidatore della grandezza un uomo che ha fatto impallidire d’attesa i giovani rapiti da lui, e noi con essi, e il ricordo ci riempie di appassionata nostalgia”.
Tutto questo concorse alla messa all’Indice da parte della Congregazione del Sant’Uffizio per ben quattro volte, di tutte le sue opere, fino alla postuma “Solus ad solam”, ma senza che fosse scomunicato l’uomo.
Neppure la Chiesa, pur arroccata nella sua intransigenza, poteva ignorare i segni di attenzione del Poeta per la religione e i religiosi. Il suo amore per San Francesco è straordinario, tradotto in un francescanesimo devoto che si esprime nei comportamenti e negli scritti, fin dai primi “Taccuini”. E poi Santa Caterina e Santa Teresa, il cui carattere terreno legato alle opere lo affascinava.
Ebbe anche interesse per San Gabriele dell’Addolorata, assisiate dal nome Francesco Possenti morto giovanissimo che diventerà patrono d’Abruzzo, dal Poeta chiamato “lu Checchino nostro abruzzese”, come ci ha rivelato la nostra testimone; e il destino volle che la notizia della morte del Poeta piombasse sulle celebrazioni del centenario della nascita del Santo. E non mancò la ricerca di Padre Pio, l’attesa dello “spiritual dono” della Provvidenza per un “incontro col mirabil uomo”, che non avvenne, o avvenne solo virtualmente, nonostante la volontà dei protagonisti; una vicenda misteriosa, una missiva che un messo doveva recapitare e ne fu impedito, riapparsa dopo decenni.
La sua predilezione per i frati di Barbarano e la sua vicinanza al parroco di Gardone don Fava, con il quale era prodigo di offerte, sono ben note, ma possono essere ritenute espressione di animo generoso piuttosto che di religiosità. Però attese la visita del vescovo di Brescia monsignor Tredici nella parrocchia con grande ansia e scrisse al parroco: “Sento già l’aura dell’Angelo che dalla tua bontà fu mandato a custodire la mia casa tanto triste”; né fece gesti scaramantici come quelli che lo portavano ad evitare il numero tredici anche nella numerazione delle pagine. Si era a un anno dalla morte, e sei mesi dopo venne chiamato al Vittoriale don Riboldi dei domenicani di Milano “per conversazioni di salute e di anima”. Particolarmente toccante l’ultima visita ai frati di Barbarano quasi presagisse la fine prossima, che giunse inattesa la sera del 1° marzo 1938 alle ore 8 e 5 minuti. Don Fava nel chiedere al Vescovo l’autorizzazione per il funerale religioso, prontamente concessa da Roma, assicurò che “da quando aveva conosciuto D’Annunzio, questi aveva mostrato di volgersi alla Chiesa. ‘Quell’anima avanzava verso Dio’”. Lui stesso gli aveva dato l’assoluzione “sub conditione”, l’Estrema Unzione e l’indulgenza plenaria e disse: “Io corsi al Vittoriale ‘chiamato’”.
Il funerale religioso, immortalato da eloquenti immagini con i preti e chierichetti in cotta bianca in testa al corteo diretto verso la chiesa e il crocifisso sulla bara, non ci sarebbe potuto essere se il Poeta lo avesse escluso. E’ vero che aveva detto a un amico di Salò tre mesi prima della morte: “Ho orrore di pensare prima ai miei funerali. Ma credi che debba proprio ammettere la pretaglia che mi ha condannato e diffamato per tutta la vita dietro la mia salma?” Tuttavia le disposizioni date a Maroni appaiono chiare, come riferisce D’Aroma: “Sono stato battezzato.
E tu sai quello che devi fare”. Non sono più esplicite perché voleva evitare contatti che ponessero condizioni inaccettabili per lui, come poeta e come uomo, e poi certamente don Fava non andava confuso con la “pretaglia”; mentre nei riti funebri aveva reso sempre onore e rispetto in occasione della morte dei commilitoni e così nelle cerimonie religiose in generale. Ricorda Ugo Ojetti che il cardinale Costantini gli confidò che D’Annunzio, nel corso di una funzione in suffragio della propria madre, “genuflesso ha seguito la messa sopra un messale, sulla messa dei morti che… è la più semplice e la più bella e la più antica delle nostre messe”; il suo attendente Romagnoli attestava che, entrando in chiesa, il Poeta si faceva sempre il segno della croce; quando fu trasferita la salma di Giovanni Randaccio nella basilica di Aquileia, ascoltò la messa inginocchiato per tutto il tempo”.
Il suo rito funebre a Gardone fece dire ad Ojetti: “D’Annunzio in chiesa, benedetto con l’aspersorio e l’incensiere, davanti alla croce di Gesù: ecco l’altra novità inaspettata e questa ci annunciava l’eterna pace”. D’altra parte i momenti di raccoglimento più intenso, davanti ai caduti di Fiume o davanti al feretro dei suoi più cari avieri commilitoni morti da eroi lo trovano sempre in ginocchio, manifestazione nella quale può esserci molto di più che il semplice rispetto.
Ma non crediamo che queste possano essere considerate prove sufficienti di una sua autentica credenza che andasse oltre la generica spiritualità o la religiosità legata all’esaltazione panica, con il “Dio della natura”, o eroica,con il “Dio degli eserciti”. Per quest’ultima ci sono le pagine sulla missione aerea alla bocche di Cattaro affidata alla protezione di San Francesco e tutta percorsa da richiami religiosi fino alla percezione, nel momento del pericolo, del “terzo luogo”, una plaga tra la vita e la morte dove raggiunge momenti di altissima spiritualità; toccati anche allorché si trova “sull’orlo della vita nell’accezione di Dante” con riferimenti inequivocabili all’al di là e al destino ultimo dell’uomo.
Va operata una precisa delimitazione – raccomandava monsignor Manlio Maini cinquant’anni fa – tra “spiragli di vita religiosa in un segreto capitolo di vita” e la credenza che avrebbe assorbito dalla sua terra, così definita: “Questa credenza si può dire fede quando si attiene alle linee precise di una Religione (nel nostro caso della religione cattolica), linee di Verità e di Precetti. Troppe e troppo gravi cose sono chiamate dunque in causa dal concetto di Fede”. Ma nel 1965 padre Raimondo Spiazzi poteva affermare che “si può porre il problema di una sua fede, o almeno di una sua religiosità, nel senso di riconoscimento e accettazione di un assoluto trascendente, quella che si chiama e si percepisce quasi istintivamente come realtà divina”.
E nel 1991 padre Ferdinando Castelli di “Civiltà cattolica”, pur partendo da un giudizio molto severo dell’“incontro di D’Annunzio col bellissimo nemico” in opere giovanili trasgressive se non blasfeme, resta colpito da una sua “vecchia preghiera, vergata a 23 anni, che è nello stesso tempo confessione e pentimento” e si chiede, dinanzi al “ferale taedium vitae” dell’uomo chiuso nel Vittoriale, se in prossimità della morte “ebbe il tempo e la grazia di ripetere qualcuna di quelle parole così vivide di umiltà e di speranza”.
Una chiave interpretativa nel libro-confessione
In fondo, una chiave per interpretare tante esitazioni ed incertezze nel percorso spirituale di D’Annunzio si può trovare nel libro-confessione “Contemplazione della morte” dove – dinanzi all’agonia di Adolphe Bermond, il fervido credente proprietario dello chalet di Arcachon dove soggiornava – manifesta il bisogno di “accendere l’altra lampada”, quella della fede, “ma senza spegnere la prima”, quella della poesia che si nutre dei forti richiami della natura umana: cioè della carne in perenne lotta con lo spirito, in quella che lui chiamava “la lotta dell’Angiolo”. Ma è proprio “la forza ascendente e molteplice”, la “sostanza rinnovellata per alimentare la divinità futura” che gli fa superare il dilemma tra accendere la nuova lampada e spegnere quella antica: in questa, anzi, ha “rifuso un più ricco olio perché riardesse”.
Nella “Contemplazione della morte” la religiosità autentica espressa senza remore veniva a scontrarsi con l’osservanza esteriore e con le sue regole, perciò era portato a distinguere nettamente i vari piani: continuava nelle opere e nella vita a manifestare la vitalità della sua natura ma senza dimenticare la matrice religiosa della sua terra (“sono di una terra nativamente religiosa”) e di se stesso. Come si riscontra in altre opere autobiografiche dinanzi alle quali si rimane sbalorditi per la straordinaria ricchezza interiore che sfiora la religiosità e spesso si avvicina alla fede.
Pecci fa un’accurata analisi della sua produzione letteraria sin dalle opere giovanili e ne emerge un’evoluzione costante verso forme di spiritualità religiosa che si lasciano alle spalle le forme espressive e i contenuti del decadentismo in un’epoca materialistica in cui perduravano i riflessi del romanticismo. Si vede chiaramente come dall’atteggiarsi irridente della prima fase si passa a una visione più serena fino agli atteggiamenti profondamente religiosi dell’ultimo periodo, quello “notturno”.
Negli scritti autobiografici è animato da religiosità autentica e si potrebbe riportare una serie lunghissima di espressioni, ambientazioni, citazioni bibliche anche se spesso questi contenuti sono stati fraintesi alla ricerca accanita di una vena pagana. Mentre si trattava di eccessi passionali dovuti alla sua natura che non lo allontanava, nonostante tutto, dal richiamo religioso.