Originariamente Scritto da
Maximilian
Sempre Bouchard, poche righe più avanti
"In tutte le loro azioni ho notato questa follia e furia [...] di cui tutti gli Italiani, specie i Romani, parlano tanto e che io credo abbiano ereditato dai loro antenati che vissero sotto il dominio dei re francesi; e sono tanti gli altri modi e abitudini francesi rimasti a Napoli, soprattutto tra la nobiltà, da farmi credere, appena arrivato, di essere ancora in Francia; e si sa che non c'è nazione in Italia per la quale i francesi abbiano più simpatia, simpatia ricambiata, che per i napoletani."
Lingue e dialetti d’Italia nella percezione deiviaggiatori sette-ottocenteschi
Appena arrivato a Torino, il Lalande registra la coesistenza di italiano e francese «à la cour de Turin & dans la bonne compagnie», mentre il popolo non capisce altro che il piemontese, un dialetto «tout-à-fait abstardi & dont on se mocque à Turin même»; eppure, continua il Lalande, offrendoci uno degli esempi (che non mancano ma, lo ripetiamo, non sono la regola) di carente competenza passiva dell’italiano in Italia, un étranger a bien de la peine à s’en passer: il m’est arrivé de prier des gens du peuple de me parler Italien, & je ne pouvois pas l’obtenir.
[Oltre al Veneziano] fra i dialetti settentrionali, hanno decisamente cattiva fama genovese e torinese. Il primo è un «fort méchant Italien» per Guyot de Merville e addirittura «the very worst Italian dialect» per l’inglese Edward Gibbon. Per il secondo, si potrebbe generalizzare il giudizio del Lalande che abbiamo già ricordato sopra: si tratta di un dialetto ibrido, di «un compuesto de toscano y francés» (Moratín),114 d’una parlata che «n’est pas plus italien que français» (Stendhal),115 d’una «bad imitation of the French» per l’inglese William Hazlitt (1825).116 Già Dante, in De vulgari eloquentia, I XV 8 aveva giudicato il volgare di Torino e di Alessandria (oltre al trentino) turpissimum, anche in base a un argomento che, per quanto dotato di un suo fondamento storico, è formulato nei termini della classica petizione di principio (e non saprei dire quanto un tale atteggiamento mentale suggestioni anche, per poligenesi, i nostri viaggiatori): trattandosi di città ai confini d’Italia, «puras nequeunt habere loquelas».
Giudizi non troppo benevoli conseguono il milanese, da parte di Johann Caspar Goethe (il quale, rovesciando lo stereotipo sessuale sopra ricordato, ammira le ragazze milanesi, ma non il loro modo di parlare: «è un peccato che la loro pronunzia non sia uguale allo spirito con cui sono dotate») e per il Galiffe («The Milanese dialect is not much more like what we call Italian, than any other European language»). E soprattutto il bolognese che, oltre a essere scambiato per «svizzero tedesco» da parte dell’Hervás (vd. sopra, p. 40), dispiace al Moratín (è «una corrupción del toscano, mezclada con voces y frases provinciales, y alterada considerablemente en la pronunciación») a W. Goethe (il bolognese «ist ein abscheulicher Dialeckt den ich hier gar nicht gesucht hätte»), e, ancora, al Galiffe («The Bolognese dialect is horrible»). Anche il romagnolo di Ravenna, di conserva con la città e i suoi abitanti, suscita una reazione molto sfavorevole da parte di Shelley, in una lettera alla moglie Mary (1821): «Ravenna is a miserable place: the people are barbarous & wild, & their language the most infernal patois that you can imagine».