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    Predefinito Re: I confini della "Padania"

    Il “gran padre Po” e la Padania nel 1930. Parole profetiche
    27 DICEMBRE 202227 DICEMBRE 2022 POLITICA LETTURA 5 MIN

    di Cuore Verde – Ho già evidenziato nei miei precedenti commenti, con evidenze giornalistiche e letterarie, come una idea precisa e consapevole di Padania dovesse essere già nata almeno fin dalla metà degli anni ’60 altrimenti non si sarebbero potuti organizzare, nello stesso periodo e sullo stesso tema, convegni di alto profilo e discuterne in ambienti politici ed universitari.

    Una idea di Padania che sembra avere avuto quindi una origine, una evoluzione ed una storia “elevata” che probabilmente non può essere compiutamente documentata ma che trova parzialmente riscontro in taluni “reperti” giornalistici che io definirei eccezionali. Propongo quindi un altro formidabile esempio tratto ancora dall’Archivio storico de La Stampa consultabileon-line: l’articolo Il “Lido” di Guastalla del giornalista Mario Bassi (Forlì, 1886- Dolo,1945) pubblicato il 30 luglio 1930. L’autore, in questo lungo articolo dedicato appunto all’inaugurazione del “Lido – Po” presso Guastalla, descrivendo nella premessa il fiume Po, nelle sue caratteristiche positive e negative, quasi come un dio nello stesso tempo bonario e terribile (il “gran padre Po”), fa esplicito e inequivocabile riferimento ai padani, in senso etnico, e alla Padania come entità “reale, consistente e viva”. Ecco il testo di apertura dell’articolo Il “Lido” di Guastalla (il grassetto è mio):

    “E’ sorta, questa nuova stazione fluviale da un complesso di condizioni di circostanze, che le une all’altre s’allacciano, che l’una concorda con l’altra, o materiali e ideali; ma l’elemento prevalente è l’appassionato amore, quasi un culto idolatra, che la gente di queste maravigliose terre nutre per il suo fiume, il gran padre Po. Il fiume, qua, costituisce veramente la ragione prima, fondamentale della vita; e da esso derivano, e attorno ad esso concorrono la leggenda e la storia, ogni attività di opere e ogni ricchezza di prodotti, la linea e il colore caratteristici del paesaggio, la poesia: la sua già mitica divinizzazione, sua rappresentazione e suoi attributi di nume indigeno, tornano presenti e palesi. Esso è il benefico Irrigatore, il fecondatore dei campi, che già alimentò di sé, del suo limo; esso è la pesca e la caccia; esso è la principale via di comunicazione e di trasporto: esso, la forza che aziona ruote di mulini e turbine d’officine; esso, il chiaro specchio dei boschi che s’affollano dalle due rive, del cielo che sopra s’inarca; esso, la melodia interminabile delle fluenti acque, agli smaglianti meriggi, alle notti stellate; esso è anche la furia rapinatrice, il dio irato tremendo, quando la sua corrente gonfia e mugge e straripa. Tra la terra lombarda, di là, e la terra, di qua, emiliana, il vergiliano «re dei Fiumi» non stabilisce confine di diverse provincie; ma accomuna, in unità di tradizioni e di costumanze, in un concorde spirito e in pari tenor di vita, negli interessi e nelle aspirazioni, le popolazioni rivierasche, che non tanto si sentono emiliane o lombarde, ma intimamente, essenzialmente padane. Ché la Padania non è arbitraria definizione geografica o motivo letterario di maniera, e nemmeno una geniale invenzione del mio amico Giannetto Bongiovanni, strapadano dalla punta dell’unghie alla punta de i capelli; ma entità geografica ed etnica e storica e folcloristica ed economica reale, consistente e viva; e il suo cuore, forse, è proprio qua: dove Guastalla ha inaugurato il suo Lido-Po.

    Mario Bassi cita l’amico Giannetto Bongiovanni (Dosolo,1890 – Brescello,1964) “strapadano dalla punta dell’unghie alla punta dei capelli”, autore dei “Racconti di Padania” pubblicati nello stesso periodo (Il ceppo, 1923 – Consigli a Madlén, 1925 – La Compagnia del Trivelin, 1931). In questo senso, appare chiaro come le considerazioni di Mario Bassi non costituiscano un punto di vista isolato ma si riferiscano ad una idea di una Padania, intesa quale “entità geografica ed etnica e storica e folcloristica”, elaborata in alcuni circoli letterari e culturali padani, ancorché ristretti ed elitari, almeno fin dalla metà degli anni ’20 del novecento.

    https://www.lanuovapadania.it/politi...le-profetiche/
    Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero; infine, dove fanno il deserto dicono che è la pace.
    Tacito, Agricola, 30/32.

  2. #82
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    Predefinito Re: I confini della "Padania"

    Ripartiamo da Guido Fanti e dalla Lega del PO
    6 Gennaio 20172 Gennaio 2017

    di REDAZIONE – Ripartiamo da Guido Fanti, esponente di primo piano del Partito Comunista, per cui era stato sindaco di Bologna, presidente della Regione Emilia Romagna, deputato, senatore, europarlamentare e vicepresidente del Parlamento europeo. Fanti è stato un personaggio importante soprattutto per la cultura autonomista in ragione del suo coraggioso tentativo di creare una unione sovraregionale padana nel lontano 1975: una iniziativa che gli era costata la carriera e che lo aveva escluso – al di là dei formali riconoscimenti successivi – dal reale potere sia nel partito che nelle istituzioni.
    A ricordo di Fanti, sfortunato padanista di sinistra, pubblichiamo alcune pagine che lo ricordano, tratte dal libro La questione settentrionale di Gilberto Oneto (Editoriale Libero, 2008).
    Ci sembra il modo più serio di celebrarne la memoria, in mezzo alla vergognosa sbrodolata di retorica e di ipocrisia che in questi giorni stanno riversando sinistri di ogni sfumatura: nessuno di loro – neppure il distratto Prodi – ricorda il coraggioso e sfortunato tentativo autonomista di Fanti e non serve cercarne troppo le ragioni.
    La Lega del Po
    Nel 1970 viene approvata la legge per l’istituzione delle Regioni a statuto ordinario con l’opposizione dei nazionalisti, che gridano all’attentato all’unità della patria, e con più di venti anni di ritardo, visto che l’attuazione del dettato costituzionale avrebbe dovuto avvenire entro il 31 dicembre 1948. Finalmente le strutture regionali si organizzano e nella primavera nel 1975 vengono eletti i Consigli regionali: sembra che – pur con più di un secolo di ritardo e in termini piuttosto blandi – si possa finalmente costruire quel decentramento che era negli auspici dei più accorti patrioti risorgimentali.
    Il 6 novembre del 1975 su La Stampa compare un articolo di Francesco Santini dal titolo “Ma nascerà davvero la super regione della Padania? Fanti spiega la sua proposta per una grande Lega del Po”. È una intervista esplosiva al comunista Guido Fanti, primo presidente della Regione Emilia Romagna, che descrive il suo progetto di aggregazione delle cinque regioni ordinarie della Valle padana, per coordinare e rendere più efficienti alcune funzioni e servizi che superano la dimensione regionale, ma in realtà anche per dare più forza al Nord nel confronto con lo Stato centrale e per rimediare ad alcuni degli squilibri con il Sud nella gestione e distribuzione complessiva delle risorse. La Padania di Fanti viene concepita come modello geopolitico funzionale, di organizzazione di interessi socio-economici rispetto a un centro politico governato dalla Dc, in coerenza con l’idea pluralista di Europa delle regioni tratteggiata in quegli anni da Denis de Rougemont.
    Vale la pena di riportare alcuni dei passi più significativi dell’articolo.
    “Alla vigilia dell’incontro Governo-Regioni fissato a Roma per metà novembre, Guido Fanti Presidente della Giunta dell’Emilia Romagna, rilancia con il tema Padania il ruolo dell’area del Po e giudica improcrastinabile un accordo tra Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto ed Emilia per superare la crisi che ha colpito il Paese.
    C’è sul tavolo del governo Moro il piano di intervento a medio termine e Guido Fanti propone la partecipazione delle Regioni al dialogo per il rilancio economico.
    Chiede perciò che al discorso con i Sindacati, il Governo affianchi in parallelo quello con le Regioni impegnate in queste settimane ad attuare i decreti anticongiunturali e a preparare i bilanci del prossimo anno.
    “E’ un’occasione che il Paese non può perdere – dice – un appuntamento al quale gli Enti locali, proprio per le funzioni loro attribuite, non possono mancare”.
    Inserisce su questo punto il progetto di un accordo tra le cinque Regioni dell’area del Po e subito aggiunge che la proposta non nasconde l’insidia di scaricare una nuova forza sul governo centrale: vuole al contrario, “convogliare l’apporto coordinato di un’area geografica che ha in comune un groviglio di problemi irrisolti, di scelte non fatte”.
    “Nessuno vuole indebolire il governo Moro – dice – anzi la nostra è una proposta di sostegno” e liquida i timori di una aggregazione tra Regioni forti, fatalmente contrapposte ad un Mezzogiorno debole, chiarendo: “Nel Centro-Nord la crisi economica non si è tradotta come al Sud, in crisi sociale: quindi in un discorso ampio di programmazione, la strategia di intervento non si deve risolvere sulla testa del Meridione d’Italia, anzi le cinque Regioni del Po sono chiamate a incidere come fattore di equilibrio”. (..) Il Presidente della Giunta emiliana, individua nel superamento delle vecchie strutture dello Stato centralistico e nella rapida attuazione del nuovo Stato decentrato, “la via d’uscita per il Paese”.
    “Le Regioni – dice Fanti – rifiutandosi di chiudersi in se stesse, sono chiamate a svolgere il ruolo di protagoniste della politica nazionale e il consolidarsi dei rapporti permanenti, nell’area padana, rappresenta un contributo decisivo”.
    Le singole realtà regionali sono per Fanti limitate e i grandi temi, da quello dell’industrializzazione e dell’occupazione a quello degli investimenti “si estendono su aree geografiche ben più vaste; le risorse potenziali del Po sono disperse e inutilizzate, la crisi dell’agricoltura investe pesantemente anche le zone padane tradizionalmente più avanzate. Il patrimonio zootecnico si depaupera di giorno in giorno mentre il più grande fiume italiano è oggi una minaccia naturale, non una fonte di ricchezza”.
    Il progetto di aggregazione per le Regioni della Valle Padana è in formazione e si annunciano i primi contatti tra i Presidenti delle Giunte regionali. Fanti individua i punti al primo posto e le Regioni padane, nel tentativo di collaborare debbono tenere presenti essenzialmente, con gli sbocchi professionali dei giovani, il lavoro nelle campagne.
    (..) Dall’agricoltura passa all’industria: “C’è da tener conto della domanda sociale, ma è necessario individuare tutti insieme, gli sbocchi sui mercati interni e su quelli esteri, ecco la necessità del confronto fra le Regioni del Po. Non si può ignorare la politica delle localizzazioni industriali, per uno sviluppo equilibrato del territorio”.
    (..) Questa della Padania, è per Fanti una proposta essenzialmente politica. Ne ha parlato a Bruxelles, la settimana scorsa in sede CEE con il Presidente Ortoli e dice: “E’ inutile andare a Bruxelles a chiedere soldi per le Regioni quando non ci sono: la nostra proposta è stata diversa: chiediamo piuttosto che siano le Regioni e non la Cassa per il Mezzogiorno a gestire i fondi riservati in sede comunitaria, alle aree depresse del nostro Paese”.
    Fanti è uomo di sinistra che ha evidentemente ben presenti le posizioni di Turati e di Grieco, è stato partigiano ed ha respirato a fondo il Vento del Nord; prima di disertare era stato anche ufficiale della Rsi e non si può non pensare che qualcosa di quella esperienza sia rimasto nell’idea stessa di raccogliersi a difesa attorno alla valle del Po.
    Il disegno fantiano è supportato da una serie di studi di dettaglio redatti da un gruppo di esperti, fra i quali spicca il giovane ricercatore Romano Prodi.
    Il suo progetto per la nascita della Padania trova scarso favore; con l’eccezione del presidente della Liguria, tutto il mondo istituzionale manifesta forte opposizione: partono subito il coro dei patrioti e l’ostensione delle icone tricolori. Il repubblicano Francesco Compagna stigmatizza – con poca originalità – i pericoli per l’unità, vedendo nel “mito della Padania” la “premessa, se non di una scissione dell’Italia, certo di una erosione della sua unità”, oltre al pericolo che “si potesse innestare il separatismo del Nord, armato di interessi ben più consistenti di quelli che operavano nell’arcaico retroterra del separatismo siciliano”.
    Negli stessi giorni, la Montedison organizza un convegno sul tema per discutere “la proposta, di particolare rilevanza sotto il profilo politico-istituzionale, di dar vita ad una forma di coordinamento tra le regioni padane”. É ancora Compagna che si incarica di contrastare l’iniziativa, attribuendo alla Montedison di Cefis (e a Miglio, che ne è il consigliere) l’intenzione di sganciarsi dal Sud. Gli argomenti che utilizza sono i soliti del piagnisteo meridionalista.
    Ma sono anche gli stessi comunisti che osteggiano Fanti. Togliatti era infatti stato fin troppo chiaro quando in un discorso in preparazione dell’Assemblea costituente pubblicato su L’Unità del 30 dicembre 1945, aveva scritto: “Noi non siamo federalisti, noi siamo contro il federalismo, noi riteniamo che lo Stato italiano deve essere organizzato come uno stato unitario (..). Uno Stato federalistico sarebbe una Italia nella quale risorgerebbero tutti gli egoismi e particolarismi locali ostacolando la soluzione di tutti i problemi nazionali nell’interesse di tutta la collettività. Una Italia federalistica su base regionale sarebbe un’Italia nella quale in ogni regione finirebbero per trionfare delle forme di vita economica e politica arretrate, vecchi gruppi reazionari”.
    Su questa iniziativa Fanti si gioca la sua carriera politica. E perde.
    Fra i pochissimi che comprendono la portata del progetto e che lo difendono c’è Gianfranco Miglio, che, con un articolo su Il Corriere della Sera del 28 dicembre 1975, ripropone il tema delle tre Italie: “Considerata la pietosa esperienza dello Stato “nazionale-unitario” (..) l’unica esperienza alternativa da tentare è quella costituita dalla consapevole integrazione tra grandi aggregazioni geo-economicamente omogenee: il Nord, il Centro, il Sud (più le due isole autonome)”.
    Sia Fanti che Miglio hanno perfettamente compreso che le Regioni nascono vecchie e che devono essere superate da aggregazioni con ben diversa valenza socio-economica e identitaria: così come sono concepite, esse infatti riproducono tutti i mali dello Stato centrale, e rischiano di diventare la parte più conservatrice del vecchio e corrotto apparato unitario, e – per queste ragioni – di trovare nell’opinione pubblica o l’indifferenza o un giudizio francamente spregiativo.
    Fanti torna sull’argomento più di 20 anni dopo in occasione della marcia leghista sul Po, in una intervista a Il Giornale. Vi si legge: “Allora Romano Prodi era un giovane economista (..) pieno di voglia di fare, di lavorare alla creazione di questa macroregione. Io lo stimavo molto e così gli ho affidato un incarico delicato che lui ha egregiamente portato avanti.
    – Quale esattamente?
    Di presidente del Comitato scientifico per la politica di programmazione economica della giunta dell’Emilia Romagna.
    – E che ruolo aveva questo organismo?
    Studiare la fattibilità di una sorta di aggregazione regionale ampia che comprendesse tutte le regioni che si affacciavano sul Po.
    – E come volevate chiamarla questa aggregazione?
    Beh, il termine appunto era Padania, oppure Lega del Po: rendeva bene.
    – Che regioni dovevano confluire a quel progetto?
    Quelle più forti: Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia Romagna, Liguria.
    – Quando è nata l’idea di Padania?
    Subito dopo la creazione delle Regioni, istituite nel ’70. In quel periodo c’era molto fermento sul ruolo di questi enti locali. La legge consentiva poca libertà d’azione soprattutto nelle aree strategiche. Così il nostro comitato scientifico aveva studiato una ricetta che garantiva un maggiore decentramento e più potere alle Regioni nel campo della programmazione economica.
    – Dunque Prodi era favorevole all’idea di un decentramento forte, forse anche a una creazione di un nucleo politico diverso da quello nazionale?
    Io, Prodi e gli altri esperti che avevo chiamato a far parte di questo comitato, eravamo in perfetto accordo sulle cose da proporre. Noi volevamo creare un soggetto regionale ampio molto forte, con dei poteri di gestione su materie strategiche, l’economia, le infrastrutture. Ma a Roma non ce l’hanno permesso. Ci hanno bloccato tutto.
    – Chi vi ha bloccato tutto?
    Il partito a cui appartenevo. Il Pci in testa. Ricordo un attacco violentissimo fatto da Gerardo Chiaromonte sull’Unità. Diceva che la nostra proposta politica era antimeridionalista, razzista, invece non era affatto così. Non avevano capito nulla o forse volevano nascondersi dietro quel falso problema per non perdere il potere decisionale sulle cose che contavano.
    – E Prodi cosa pensava delle critiche che piovevano addosso alla sua proposta?
    Sono passati troppi anni, non ricordo le parole precise, ma Romano diceva che sbagliavano, che non capivano, la pensava esattamente come me, era dalla mia parte. Del resto lui stesso aveva confermato scientificamente la validità di un progetto di decentramento spinto in cui il gruppo delle regioni all’avanguardia rivendicavano un ruolo strategico nella politica di programmazione nazionale e internazionale.
    – Una sorta di piccolo stato autonomo?
    Non era un problema di nazionalismo. Noi volevamo più poteri per evitare che Roma bloccasse iniziative importanti per le regioni del Nord. E da Roma ci hanno bloccato.
    – Hanno avuto paura, secondo lei?
    Certamente. Tutta la partitocrazia ha avuto paura di perdere consenso e potere. Cinque regioni ricche messe insieme costituivano una mina vagante per il potere centralista. La Padania avrebbe potuto avere una forza contrattuale fortissima e un peso politico nella politica economica enorme. Così hanno subito affossato l’idea politica di cui io rivendico la paternità ed è finito tutto sotto silenzio. Peccato”.

    https://www.lindipendenzanuova.com/r...a-lega-del-po/
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    Predefinito Re: I confini della "Padania"

    Tale aggregazione fu suggerita da Guido Fanti che fu il primo presidente dell'Emilia Romagna

    Macroregione Nord, idea di un pci
    Ma la proposta, il 27 aprile '45, fu dell'università Cattolica

    di Stefano Bruno Galli* * da il sussidiario.net

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    L'idea di una macroregione del Nord è, senza dubbio, assai seducente. E tuttavia, contrariamente a quel che potrebbe apparire dal dibattito di questi giorni, è un'idea antica, che risale alle origini della Repubblica. In quanto tale, rappresenta un elemento costante della storia che, come un torrente carsico, riemerge circa ogni quarto di secolo ed è lo specchio fedele in cui si riverbera la Questione settentrionale.
    All'indomani della Liberazione, il 27 aprile 1945, un gruppo di giovani dell'Università Cattolica di Milano guidati dal professor Tommaso Zerbi organizzarono il movimento del Cisalpino. Movimento che si rifaceva, nel nome, al manifesto elaborato da Carlo Cattaneo all'inizio delle Cinque Giornate di Milano, nel 1848, auspicando la nascita di una Repubblica lombarda. Stato autonomo e libero, democratico e indipendente. Il Cisalpino del secondo immediato dopoguerra nasceva per contrastare l'ottuso nazionalismo fascista e per tutelare gli interessi dell'Italia settentrionale. Secondo i cisalpini, una repubblica federale sarebbe stata la risposta più efficace a questa realtà, nell'intimo convincimento che la vera democrazia si può realizzare solo ricorrendo all'autonomia e all'autogoverno delle comunità volontarie territoriali. La repubblica federale che proponevano era concepita su base cantonale, secondo il modello elvetico, con la costituzione di un Cantone cisalpino (che era poi la macroregione del Nord di cui si dibatte oggi) comprendente tutta la valle del Po.

    Il 6 novembre 1975, alla fine del proprio mandato, il primo presidente della Regione Emilia-Romagna, l'esponente del Partito comunista Guido Fanti (scomparso di recente), rilasciò un'intervista a La Stampa. Proponeva la stipula di un accordo permanente tra Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia, con l'obiettivo di fronteggiare la crisi economica attraverso l'adozione di politiche coordinate e la programmazione strategica dello sviluppo di un'area geografica ed economica circoscritta alle regioni che si affacciano sul Po.
    Per uscire dalla crisi, secondo Fanti, era necessario andare oltre le strutture del vecchio Stato burocratico e accentratore, per fondare un nuovo Stato fortemente decentrato su base macroregionale. Anche il comunista Fanti pensava dunque alla macroregione del Nord. Alla sua proposta politica non mancò di replicare, sulle colonne del Corriere della Sera, il professore della Cattolica di Milano Gianfranco Miglio. Che trovava persuasiva e fondata l'idea di una macroregione del Nord, autonoma dal punto di vista politico e amministrativo. Ricordava i tempi del Cisalpino (movimento al quale, giovanissimo, aveva aderito anche lui) e definiva «inevitabile» la nascita di una macroregione padana, per una serie di ragioni di natura storica, politica e istituzionale
    Con la caduta del Muro di Berlino e la morte della Prima repubblica, il tornante 1989-1994 è decisivo per il riemergere dell'idea di una macroregione del Nord. Richiama l'attenzione su questa realtà, proprio in quegli anni, la Fondazione Agnelli, realizzando un'importante ricerca: La Padania, una regione italiana in Europa (1992). Ricerca dalla quale viene fuori con chiarezza l'esistenza di una macroregione del Nord dalla fisionomia geoeconomica e dalla vocazione europeista e federalista.
    Nello stesso anno appare anche la ricerca di un politologo di Harvard, Robert Putnam: Le tradizioni civiche nelle regioni Italiane (1992). Le virtù civiche delle comunità territoriali della valle del Po risalgono all'esperienza storica municipale del XII secolo, caratterizzata da un sistema articolato di comunità volontarie territoriali. Si trattava di comunità fondate sull'autonomia, l'autogoverno e le libertà commerciali. Ciò rappresentò la maggiore alternativa al feudalesimo allora dominante nel resto dell'Europa, compreso il Sud Italia normanno.
    Questa esperienza storica, politica e istituzionale, ma anche economica, sociale e culturale, ha inciso nella mentalità collettiva, questa la sua tesi, sino a segnarla in profondità e a caratterizzarla in modo specificamente identitario.È in questo contesto, segnato dagli studi della Fondazione Agnelli e di Putnam, che Gianfranco Miglio, allora coinvolto nell'avventura della Lega, rilancia il suo progetto della macroregione del Nord e delle tre Italie; non già nell'Asino di Buridano, pubblicazione che è solo della fine degli anni Novanta, come erroneamente ricorda la stampa in queste calde giornate d'agosto, commentando e analizzando la prospettiva della macroregione del Nord proposta dal presidente Formigoni. Una prospettiva peraltro largamente condivisa, che sta raccogliendo molti consensi trasversali.
    Oggi non si possono chiudere gli occhi di fronte al fatto che il 70% del Prodotto interno lordo, cioè del fatturato del paese, viene dal grande Nord (Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia). E che il Nord annualmente stacca un assegno dell'ammontare di circa 60 miliardi di euro. Questa è la realtà, che certifica l'esistenza della Questione settentrionale, espressione di un'area geografica ed economica dalla forte vocazione produttiva, all'avanguardia in Europa. L'Istat ha da poco anticipato i dati relativi al 2011: mentre il Nord, che non ha problemi di debito pubblico e ha un'evasione fiscale assai modesta, cresce dell'1% malgrado la crisi, il Centro e il Sud sono fermi al palo. Baviera e Grecia sono dunque due dimensioni concrete che nascono dalla frattura prodotta dallo sviluppo duale della Penisola.
    Il problema, dal punto di vista politologico, risiede nel fatto che chi ha inteso governare questo paese non ha mai fatto i conti sino in fondo con il Nord, se non attraverso la vessazione fiscale. E tuttavia, di fronte alla crisi economica in atto, oggi il Nord non può più permettersi il lusso di trasferire ingenti risorse al Mezzogiorno e neppure di sostenere il debito pubblico.A rendere credibile e attuabile il progetto di una macroregione del Nord, autonoma dal punto di vista politico e amministrativo, vi sono due elementi. Da un lato l'omogeneità, cioè l'unità organica delle comunità volontarie territoriali della valle del Po. E dall'altro l'esigenza di una revisione dell'istituto regionale, figlio di una cultura istituzionale e amministrativa di matrice ottocentesca che ha fatto il suo tempo: troppo piccolo per avere politiche ambiziose, troppo grande per avere un rapporto diretto con i cittadini. Oggi, di fronte al cupio dissolvi dello Stato nazionale, burocratico e accentratore, s'impongono le grandi unità regionali. Che non hanno nulla a che vedere con le regioni previste in una Costituzione concepita per quello Stato che sta morendo e che, nella sua deriva, trascina con sé anche la Carta e le vecchie Regioni. Qui ci troviamo di fronte a unità macroregionali che rappresentano il vero antidoto alla crisi economica e alle perverse dinamiche della globalizzazione. Se prima la dicotomia era quella tra Stato e mercato, adesso essa ha mutato di segno ed è quella tra comunità territoriali e mercato globale. Comunità territoriali che devono essere messe nelle condizioni di sviluppare un'azione autonoma nel contesto internazionale in forza del paradigma glocal.
    La macroregione del Nord è una comunità di destino; non è un'invenzione politica, è piuttosto una realtà, che riemerge con forza. È dunque ineluttabile che vada a finire così, cioè che nasca la macroregione del Nord, atto politico che risolve le contraddizioni della storia. Bene ha fatto però il neo segretario della Lega, Roberto Maroni, a inchiodare tutti alle proprie responsabilità, di fronte al dibattito di questi giorni. Riconoscere l'esistenza della Questione settentrionale e auspicare la nascita di una macroregione del Nord, intesa come realtà politica e amministrativa, oggi non basta più. Bisogna farla. È il momento di agire, di far seguire alle parole i fatti.

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