Pubblico qui un articolo di oggi letto su Libero, che si riferisce a due articoli apparsi precedentemente sullo stesso quotidiano (sabato e domenica).
Se qualcuno li avesse disponibili, secondo me non sarebbe una brutta idea pubblicarli.
Io, per precisare, lo riporto da una pagina di Libero libera dalla "censura" dell'abbonamento.
Sarò sociale, ma non sono certo "socialista"!
Vobis
Agli italiani serve un po’ di patria
di Dino Cofrancesco
«Chi non sa conservare non sa innovare, anzi chi non conserva non innova. Bisogna avere il coraggio di ambedue, perché innovare e conservare sono i due emisferi della vita e il loro avvicendarsi è come l’inspirare e l’espirare, la sistole e la diastole». Condivido toto corde le parole di Marcello Veneziani, apparse su Libero di sabato scorso, ma da inguaribile empirista ritradurrei la tesi in un “giudizio di fatto”, mettendo da parte consigli, timori e speranze suggeriti da pur legittimi “giudizi di valore”.
Detto in soldoni, anch’io ritengo che non ci possa essere progresso civile, sociale, economico e culturale se manca il senso dell’appartenenza a una comunità politica, a una «comunità di destino». Quest’ultima è l’arena in cui si confrontano e si scontrano le diverse visioni del mondo, le ideologie, le forme di governo, i modelli istituzionali: se le squadre in competizione sono consapevoli che, al di là degli esiti della partita, vale la pena tener in buon ordine il campo da gioco e commisurano la superiorità morale di un contendente sull’altro sulla sua capacità di incrementare il benessere collettivo, la città prospera e la civiltà va avanti. La vicenda dei Paesi anglosassoni resta esemplare: le loro liberali forme di governo poggiano da sempre su un solido patriottismo che, nei momenti solenni della vita nazionale, come le guerre o l’ascesa al trono o l’elezione di un nuovo capo dello Stato, è in grado di unire tutte le componenti sociali, politiche, culturali, religiose della Nation.
L’invito di McCain
Il discorso di ringraziamento dello sconfitto John McCain ai suoi elettori e l’invito a stringersi attorno al vincitore Barack Obama spiegano la grandezza degli Stati Uniti più dell’elenco dei numerosi premi Nobel e delle performance industriali e tecnologiche. «Esorto tutti gli americani che mi hanno sostenuto a unirsi a me non soltanto per fargli le congratulazioni per la sua vittoria, ma per offrire al nostro presidente la nostra disponibilità e i nostri sforzi più convinti per trovare dei modi per marciare uniti, per trovare i necessari compromessi, per superare le nostre divergenze e per contribuire a riportare la prosperità, a difendere la nostra sicurezza in un mondo pericoloso e a lasciare ai nostri figli e nipoti un Paese più forte, un Paese migliore di quello che noi abbiamo ricevuto».
Se i cittadini si sentono membri di una «grande famiglia», lo Stato dispone di una «riserva di legittimità» che diventa cruciale soprattutto nella cattiva sorte, quando le risorse materiali si assottigliano e solo l’attaccamento alla comunità di cui si fa parte consente di affrontare privazioni e disagi. Mai gli inglesi si sentirono tanto uniti quanto dopo il discorso radiofonico in cui il vecchio Winston Churchill, in una Londra minacciata dagli aerei tedeschi, promise ai suoi concittadini lacrime e sangue.
La moderna società occidentale si regge su tre gambe: le istituzioni politiche, il sistema produttivo, la cultura intesa come l’insieme degli atteggiamenti collettivi nei confronti delle autorità, dei costumi, delle credenze religiose, dei codici morali che orientano e regolano la vita dei cittadini. Tale insieme può essere funzionale alla politica e all’economia o, al contrario, costituire per esse un problema.
Per fare un esempio emblematico, le difficoltà incontrate dalla Repubblica di Weimar nel fronteggiare la crisi del ‘29 furono centuplicate dalla cultura del tempo, che a destra e a sinistra era caratterizzata da posizioni fortemente critiche nei confronti dell’economia di mercato e della democrazia liberale.
Non vorrei fare l’uccello del malaugurio, ma oggi in Italia non siamo messi meglio: grazie alla disastrosa mancanza di una sinistra moderna e riformista, il centro-destra ha riportato una schiacciante vittoria elettorale, ma non sembra consapevole di doverla più agli autogol degli avversari che al suo programma e al suo «senso dello Stato», né riesce poi a immaginare quale effetto moltiplicatore potrebbe avere sulla stagnazione economica una political culture antiliberale ma purtroppo egemone nell’accademia, nei mass media e nel mondo dello spettacolo.
Mi si consenta di citare un caso avvenuto di fresco. Nella grande città del Nord in cui vivo e insegno, il circolo culturale che raccoglie la componente An del PdL, mi ha invitato a tenere una conferenza sulle “culture della destra”. Ho accettato volentieri e, nella mia relazione, ho in sostanza detto le stesse cose di Veneziani. In particolare, ho ricordato l’enorme significato spirituale del Risorgimento italiano, alle origini della nostra identità etico-politica, e ho richiamato l’attenzione sul fatto che la città che ha dato il maggior contributo di uomini, di eroi, di pensatori alla lotta per l’indipendenza, da molti anni, nel suo Ateneo, ha disattivato il corso di Storia del Risorgimento. Al termine della mia chiacchierata, il coordinatore metropolitano del PdL, dopo avermi ringraziato, ha osservato, pensando di essere spiritoso, che il problema oggi non è quello di liberarsi degli austriaci, del Papa e dei Borbone, ma quello di liberarsi delle sinistre saldamente insediate al Comune e alla Regione.
Risorgimento out
Se “retorica” è l’essere fuori posto - come quell’avvocato di un boss che in un’arringa si richiamò ai valori della Resistenza e della Liberazione - non mi sono mai sentito un retore come in questa occasione. Quello stesso ambiente che diversi decenni fa voleva impedire la proiezione del bellissimo (e, a modo suo, molto patriottico) film di Mario Monicelli, “La Grande Guerra”, al solo sentir parlare di Mazzini e di Garibaldi mi rivolgeva sguardi compassionevoli non molto diversi da quelli con cui da giovane seguivo i comizi televisivi dell’onorevole Alfredo Covelli.
Nel congedarmi dagli amici che mi avevano invitato, rivolsi loro una domanda molto poco retorica: se la crisi economica sarà davvero devastante, se il governo annasperà tra difficoltà di ogni genere, se le sinistre antioccidentaliste e anticapitaliste scateneranno le piazze, in mancanza di forti legami ideali come si salverà il Paese? La risposta è stata che la mia era un’ipotesi dell’irrealtà e che, in ogni caso, Silvio avrebbe saputo come venirne fuori. La tradizione, il senso della nazione, l’orgoglio del passato non fanno più parte del popolo della Destra un tempo radicale ma qualcosa si è conservato dei vecchi tempi: la fiducia incrollabile nell’Uomo della Provvidenza!
http://www.libero-news.it/articles/view/556870