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Quando Prodi svendeva le aziende pubbliche
14/05/2012 - Nel 1985 il Professore provò a cedere la Sme a De Benedetti per 500 miliardi di lire. La Corte di Appello, oggi, sentenzia: "Trattamento di evidente favore"
di Donato De Sena
Il Romano Prodi politico, e presidente del Consiglio, gode senz’altro di una reputazione migliore del Prodi che ha ricoperto negli anni ’80 il ruolo di manager pubblico, impegnato nella gestione di una fetta della vasta galassia di partecipazioni statali. Della tentata vendita del colosso alimentare di Stato Sme alla Buitoni di Carlo De Benedetti da parte dell’Iri, di cui il Professore era presidente, si parla ancor’oggi. E non per elargire complimenti all’inventore dell’Ulivo. Il sospetto è che l’azienda controllata dalla mano pubblica, e sulle cui sorti pesavano le decisioni di Prodi, abbia assunto un trattamento, economico e non, di favore nei confronti del gruppo alimentare dell’ingegnere.
LA SME A DE BENEDETTI – Tutto comincia il 30 aprile 1985 quando l’ingegner De Benedetti, in conferenza stampa con Prodi annuncia l’acquisto, avvenuto il giorno precedente, del pacchetto di maggioranza della Sme, il ramo agro-alimentare dell’Iri. L’ingegnere che soli tre mesi prima aveva acquisito il controllo della Buitoni-Perugina, si assicurava, proprio, attraverso la nuova azienda, il 64% della finanziaria di Stato, colosso dell’agro alimentare che, nazionalizzato nel ’63, comprendeva i marchi Motta, Alemagna, Cirio, Bertolli. Il prezzo pattuito era di 497 miliardi di lire. Prodi, che dell’Iri, principale ente pubblico italiano operante in diversi settori strategici, ricoprì la carica di presidente dall’82 all’89 (e una seconda volta nehli anni ’90), fu il vero e proprio artefice della trattativa e dell’accordo.
500 MLD IN 18 MESI – In conferenza stampa tenuta con De Benedetti non esitava a sottolineare l’importanza politica ed economica della cessione. Il Professore, in particolare, confermava che il settore alimentare per l’Iri non era affatto prioritario, e che quindi le aziende oggetto di vendita potevano essere alienato senza remore: l’Istituto per la Ricostruzione Industriale – faceva sapere il Professore – da quel momento in poi si sarebbe concentrato prevalentemente sugli investimenti nel settore delle nuove tecnologie e in aziende strategice come Stet e Sip. De Benedetti pagò 1107 lire per ottenere 449mila azioni Sme diventando, di fatto, il primo gruppo alimentare italiano. L’operazione avvenne con la benedizione di Mediobanca di Enrico Cuccia che pure partecipava all’operazione e che divenne secondo azionista. Il conto dell’ingegnere sarebbe stato saldato in 150 miliardi di lire da versare nel giro di poche settimane e in ulteriori tre tranche da 75, 150 e 125 miliardi nei successivi 18 mesi.
DC E PSI CONTRO – Tutto sembrava filare liscio. Ma all’indomani dell’operazione economico finanziaria i distinguo fecero emergere come le trattative si erano svolte in maniera frettolosa e senza considerare l’opportunità di offerte migliori. La politica si divise. La Dc salutò con favore la vendita delle industrie alimentari di Stato alla Buitoni di De Benedetti, il ministro delle Partecipazioni statali Darida gradì, si parlò di una cessione senza alternative. Il Psi e il suo leader Bettino Craxi, risposero con un lungo dossier di interrogativi sull’operazione. Alcuni esponenti del Garofano parlarono di un’offerta della Lega delle Cooperative per 700 miliardi.
LO STALLO – La situazione degenerò drasticamente nelle settimane successive. Con Darida e Prodi che chiedevano la questione venisse chiusa nel più breve tempo possibile e il Psi che insisteva nel sollevare le proprie perplessità. La vicenda della vendita della Sme finì in Parlamento. Ma cinque ore di dibattito alla Camera, il 16 maggio, non servirono a fornire chiarimenti e un rasserenamento delle posizioni in campo. Il ministro e il presidente dell’Iri ricordavano agli interlocutori come il settore alimentare non fosse strategico per il Paese, e come il deficit della bilancia commerciale derivasse dal comparto agricolo e non dall’industria di trasformazione di cui faceva parte lo Sme. I socialisti, attraverso il sottosegretario Giuliano Amato, chiedevano che l’autorizzazione alla vendita venisse bloccata finchè non sarebbero state ascoltate organizzazioni di settore, non sarebbero state valutate altre offerte, non sarebbero stati chiariti tutti i dettagli del prezzo pattuito con De Benedetti. Un atteggiamento che qualcuno lesse come un tentativo di Craxi e del suo partito di non essere scavalcati nelle decisioni che legavano il mondo della politica e l’alta finanza.
NUOVE, MIGLIORI, OFFERTE – Nel frattempo, il 7 maggio, il consiglio di amministrazione dell’Iri era già stato informato, e aveva approvato, la trattativa con De Benedetti. La data che avrebbe dato il via definitivo al passaggio di mano era il 28 maggio, giorno in cui si sarebbe espresso definitivamente il Cipi, Comitato Interministeriale per la Politica Industriale (la data prevista inzialmente era il 10 maggio, poi prorogata). Poco prima della mezzanotte del 28 maggio all’Iri giunse la proposta della cordata Barilla-Ferrero-Berlusconi che offrivano 100 miliardi in più di De Benedetti. Poco dopo entrarono in corsa anche la Lega delle Cooperative, con una proposta di acquisto di circa 650 miliardi, e quella di un misterioso gruppo di imprenditori campano guidato dall’industriale Giovanni Fimiani.
ADDIO VENDITA – La fase di stallo che ne conseguì condusse il governo a negare l’autorizzazione per la vendita a nessuno dei potenziali acquirenti. La Sme rimase nell’orbita nel settore pubblico. L’esecutivo fece sapere di aver analizzato le conseguenze occupazionali, il parere dei sindacati e i risvolti di politica generale dell’operazione della cessione considerando non necessaria la cessione. Il 15 giugno, con un decreto, venne annullata la vendita alla Sme di Buitoni. Il ricorso degli uomini di De Benedetti, però diede ragione al mancato acquirente. In un primo momento il tribunale di Roma negò il sequestro delle azioni Sme chiesto da De Benedetti. Il Tribunale stabilì che l’accordo Sme Buitoni bloccato dal nulla osta governativo, non fosse valido. Ma Appello e Cassazione ribaltarono le sentenze del primo grado. Era il marzo 1986.
“TRATTAMENTO DI FAVORE” – Ebbene, oggi la Corte di Appello di Roma, chiamata a giudicare su di un caso di diffamazione sollevato da Prodi afferma – lo riporta Panorama – che “la trattativa condotta dal presidente dell’Iri, aveva avuto come possibile acquirente, senza gara di imprenditori, un unico interlocutore”, che presidente Iri e De Benedetti avevano “trattato segretamente”, e che il prezzo pattuito con De Benedetti “curiosamente basso”. E’ la conclusione della causa del Professore emiliano contro Pietro Armani, ex vicepresidente dell’Iri, professore alla Sapienza e per tre legislature parlamentare di An, che nel novembre 1999 in un’intervista al Giornale aveva duramente criticato l’operazione condotta dal presidente Iri nella primavera ’85. La Sme, dopo il veto di Craxi, fu ceduta ad altri soggetti negli anni ’90 e permise all’Iri di incassare circa 2.200 miliardi di lire. “Anche ipotizzando una svalutazione del 100% del decennio – disse Armani alla stampa – si sarebbe trattato di 1.000 miliardi nel 1985, assai più del doppio dell’offerta di De Benedetti”.
Quando Prodi svendeva le aziende pubbliche