Originariamente Scritto da
Cane di paglia
Non riesco a levarmi dalla testa il fatto che nell'aborto vi sia qualcosa di profondamente sbagliato, una scelta che indica quantomeno una profonda inadeguatezza psicologica e spirituale alla Vita nel senso pieno del termine, ma anche una delle frontiere più spinte della pretesa, da parte dell'uomo, di controllare nevroticamente la realtà, la natura, l'altro da noi come si controllerebbe una minaccia o un pericolo.
E, spesso, questo pericolo è il pericolo di cambiamento, di apertura, di trasformazione, di evoluzione, di rottura degli schemi pre-costituiti, di superamento delle abitudini tanto rassicuranti quanto ingessanti. Il problema dell'aborto, però, non è tanto di ordine legale (si o no), ma culturale, e come tale va affrontato, partendo dalla radice del problema, ossia dall'animo umano di fronte a questa società. L'obiettivo deve essere quello di rendere superflua l'opzione dell'aborto e quindi di rendere fisiologica la percentuale di coloro che vi ricorrono, facendo ricorso agli strumenti meglio visti: dai sussidi alla creazione di reti di protezione delle neo-mamme, alla capacità di mettere in luce la maternità non come una prova insostenibile ma come l'opportunità di entrare in una dimensione più appagante.
A sinistra si usa con troppa superficialità il termine libertà: la scelta di interrompere una gravidanza non è necessariamente un atto libero, anzi, molto spesso è indotto da paure e insicurezze che lungi dal renderci più liberi comprimono drammaticamente il raggio d'azione delle nostre scelte. E la stessa cosa può dirsi della sessualità disordinata che è spesso all'origine delle interruzioni di gravidanza, e che è frutto di condizionamenti, pressioni, ricerca dell'accettazione o bisogno di surrogati al vuoto interiore.
Per tutto questo credo che la battaglia contro l'aborto abbia il merito di mantenere alta l'attenzione su un problema radicale e capitale per la nostra società, che non è una mera funzione del PIL, ma un tessuto vivo, di persone in carne e ossa chiamate, ognuno secondo le sue possibilità, a realizzare le proprie facoltà più nobili.