L’intervista a Sergio Marchionne comparsa ieri sulle pagine del Corriere della Sera è molto significativa per comprendere quale sia il futuro degli stabilimenti del gruppo Fiat in Italia. Due pagini abbondanti nei quali il manager svizzero-canadese ha parlato della situazione finanziaria, patrimoniale e debitoria del colosso che si sta formando con l’imminente fusione con la statunitense Chrysler. L’amministratore delegato anche annunciato, in base al principio che anche gli Agnelli piangono e partecipano ai sacrifici fatti dall’italiano medio, che le azioni ordinarie della Fiat non riceveranno un dividendo che servirà invece a ripatrimonializzare il gruppo che in effetti risulta un po’ troppo indebitato. Soprattutto, nelle ultime righe dell’intervista, Marchionne ha confermato implicitamente che il futuro del nuovo gruppo si trova in America dove verrà collocata la sede legale e operativa del nuovo gruppo Fiat-Chrysler o Chrysler-Fiat (non è la stessa cosa), nel quale la quota azionaria della Exor degli Agnelli-Elkann sarà inferiore all’attuale 30% detenuto in Fiat. Un traguardo che servirà a trasferire ad altri la responsabilità di chiudere questo o quello stabilimento in Italia. Una soluzione scelta anche per evitare che migliaia di operai messi per strada e piuttosto irritati, tanto per utilizzare un eufemismo, si presentino con i forconi al Lingotto o sotto la casa della famiglia Agnelli-Elkann-Borromeo sulla collina di Torino, a rinverdire i bei tempi del biennio rosso del primo dopoguerra con l’occupazione degli stabilimenti e i soviet aziendali.
“Le fabbriche italiane saranno salve solo se esporteranno in America”, titola il Corriere riferendosi al monito di Marchionne che in realtà è una minaccia. E quando parla di auto da vendere in America, Marchionne si riferisce non tanto alle Ferrari che verranno sempre e ovunque vendute ma alle Alfa Romeo che sono le uniche altre macchine made in Italy che hanno un mercato. Diceva Henry Ford I° che quando vedeva passare una Alfa Romeo si toglieva il cappello. Un riconoscimento del genio italiano applicato alle auto ma si tratta di una frase da collocarsi nel primo ventennio del secolo scorso. La Fiat invece negli Usa non hanno mai avuto mercato ed è difficile che mai lo avranno visto che in Italia e in Europa la Fiat ha i suoi punti di forza soltanto nei primi due segmenti del mercato dell’auto. Quelle delle auto da città (Panda e 500) e delle utilitarie (Punto) che negli Usa non le vuole nessuno. Non per niente il lancio della 500 negli States è stato un mezzo fiasco per non dire un autentico fallimento. Mentre di fatto da anni non riesce a sfondare in Europa nei segmenti superiori che assicurano i maggiori profitti. Come il segmento delle familiari da sempre riserva esclusiva della Golf della Volkswagen. Gli stabilimenti italiani dovranno quindi produrre Fiat dei primi due segmenti per il mercato italiano ed europeo e Alfa Romeo per i mercati Usa e canadese? Questo sembra essere quanto voleva dire Marchionne. Se questo non si verificasse, se insomma non si vendessero nemmeno le Alfa Romeo, che negli Usa si rivolgono ad un target di clienti della medio-alta borghesia, due stabilimenti italiani potrebbero chiudere. Dopo la chiusura a fine dicembre di Termini Imerese sarebbe un colpo non da poco. Dovremmo ritirarci da due siti su cinque, ha annunciato Marchionne con stile degno del migliore o del peggiore Agnelli, lasciando la scelta tra i cinque ancora operativi. Mirafiori, Cassino, Pomigliano, Atessa e Melfi. Ma quali, chiede l’intervistatore. potrebbero chiudere? E qui Marchionne è inciampato in un infortunio clamoroso, dai risvolti psicanalitici, facendo riferimento al film “La scelta di Sophie” con Meryl Streep. Un film nel quale la protagonista, deportata in un campo di sterminio nazista, messa da un SS di fronte alla scelta di scegliere uno dei due figli per salvarlo e lasciare uccidere l’altro, altrimenti sarebbero stati uccisi entrambi, fa la sua scelta seppure con il cuore a pezzi. Sophie, commenta Marchionne, alla fine deve scegliere e passa il resto della sua vita con l’incubo di quella decisione. Dunque, per favore, implora Marchionne, non mi chieda (quale potrei chiudere). In realtà nel film citato, anche il secondo figlio verrà assassinato dai nazisti e Sophie rimarrà sempre con un senso di colpa incancellabile. Per cui, i casi sono due. O Marchionne non conosce il film, ed è una ipotesi a cui non crediamo, o in realtà ha già deciso e sa quindi benissimo quali saranno le fabbriche che chiuderanno. Le più probabili sono Mirafiori e Pomigliano. E questo nonostante la militarizzazione imposta negli stabilimenti con la disdetta del contratto nazionale dei metalmeccanici e con l’imposizione agli operai di contratti capestro per i quali la busta paga verrà costituita soprattutto di straordinari e di premi di produzione.
Sergio Marchionne, insomma, è stato scelto dalla ex Famiglia più potente d’Italia per liquidare le attività legate alla produzione di auto nel nostro Paese che necessitano di troppi investimenti di capitale sul lungo termine. Soldi che i torinesi non vogliono più sganciare. Gli stabilimenti da chiudere potrebbero così passare da due a cinque e le auto potrebbero essere prodotte, come già lo sono, in Argentina, Brasile, Polonia e Serbia. Alle quali si aggiungerà la Turchia. Tutti Paesi dove il costo del lavoro è molto minore che in Italia. Gli Agnelli si potranno dedicare così ad altre attività più elastiche. Come finanza, alberghi, villaggi turistici, grande distribuzione e alimentari, nei quali il guadagno è assicurato senza grandi sforzi da parte di una Famiglia che per oltre 100 anni è vissuta sulle spalle del contribuente, grazie a finanziamenti agevolati e a fondo perduto, casse integrazioni a raffica, contingentamenti all’importazione di auto straniere, impossibilità per i concorrenti esteri di produrre in Italia e la svendita dell’Alfa Romeo dallo Stato alla Fiat a metà degli anni ottanta con la quasi immediata chiusura dello storico stabilimento di Arese. Lo stesso destino che sembra attendere le altre fabbriche del gruppo.
La scelta di Marchionne è chiudere comunque le fabbriche | Economia | Rinascita.eu - Quotidiano di Sinistra Nazionale