No Industria? No Pil. No Pil? Depressione. Depressione? Miseria generalizzata.
7 giugno 2012 Di Giuseppe Sandro Mela


Confindustria ha recentemente pubblicato una serie di dati ed elaborazioni di consistente interesse. Alcuni sono la conferma di nozioni acquisite, altri invece dolorose constatazioni.



Questo grafico mette chiaramente in evidenza come il Pil di un’area, o di una nazione, sia sostenuto in gran parte dalla produzione industriale. Non che questa constatazione non fosse già nota da molto tempo, ma si ha qui la riconferma della sua perdurante validità, con dati attuali.



No industria? No Pil. In Italia negli ultimi trentacinque anni, dal 1976 al 2010, il peso del manifatturiero é sceso dal 29.6% al 16.6% in termini di valore aggiunto e dal 28.1% al 17.5% in termini di occupazione.

Non desta quindi stupore alcuno che l’Italia ne sia rimasta penalizzata, ed anche fortemente.



Questo grafico ci mostra due fatti.

Il primo, che facendo 100 la produzione industriale del 2005, adesso nel 2012 essa vale 84: un calo davvero sensibile.

Il secondo, che la modesta ripresa che si stava manifestando tra la fine del 2009 e la fine del 2011 é stata vanificata in modo pressoché totale.



Quando guardiamo la classifica mondiale dei primi venti produttori, vediamo come in un decennio la Cina sia balzata al primo posto scavalcando gli Stati Uniti, passando dall’8.3% al 21.7.

Ma ancor più preoccupante è il fatto che mentre i paesi europei perdono molte posizioni (Francia -3, Regno Unito -2, Italia -2, Spagna -1, i Bric sono in continua crescita: India +4, Korea del Sud +1, Brasile +2, Russia +2.

Si noti come l’Italia sia stata superata dall’India ed anche dalla Korea del Sud.

Questo dato non stupisce, tendo conto anche della grane disomogeneità industriale in Italia.



Come si constata, mentre la Nord Est ed il Nord Ovest sono ampiamente sopra i livelli medi europei, Centro e Mezzogiorno rientrano tra le zone sotto-industrializzate del continente.

Considerazioni.

La regressione costante nel tempo dei paesi occidentali ed il concomitante sviluppo di quelli orientali, assieme a Russia e Brasile, dovrebbe portare gli europei a fare una profonda analisi critica del loro modo di sentire ed operare.

Qui non siamo di fronte ad un evento temporaneo o congiunturale, ma di fronte ad una crisi strutturale o, meglio, ad una svolta epocale: la nostra Weltanschauung non é più idonea ad affrontare le sfide attuali, mentre quella dei Bric sembra proprio essere premiante.

Se non vogliamo condannarci ad un costante declino, é necessario rimettere in discussione una serie di punti che qui schematizziamo in estrema sintesi.

Pensiamoci bene.

Se la medicina è una scienza finalizzata a migliorare lo stato di salute degli uomini, l’economia è una scienza finalizzata a garantirgli il miglior benessere possibile. Come tutte le scienze, si basano su dati e fatti oggettivi e su teorie che cercano di spiegarli al meglio. Se in medicina una teoria portasse alla morte precoce dei pazienti la si dovrebbe abbandonare: non si vede per quale motivo non si dovrebbe fare altrettanto con teorie economiche che impoveriscano invece che arricchire la gente.

Le teorie scientifiche non dovrebbero essere vissute come dogmi di fede, né tanto meno essere utilizzate per coercire la realtà entro i limiti della loro visione: tentativo a priori condannato al fallimento. Le teorie non sono fini, ma mezzi, esattamente come ogni operazione economica é un mezzo non un fine. Il fine è l’aumento o, almeno, il mantenimento della ricchezza della gente.

Quindi, tenendo presente che la dote scientifica più importante é quella di saper riconoscere l’elemento comune nella molteplicità dei fenomeni, vediamo dove l’Occidente ha attuato gli schemi economici che lo stanno portando alla rovina.

1. Intervento dello stato nell’economia. Sotto le più svariate etichette politiche, la mentalità occidentale si è sempre più configurata nel tempo a favore degli interventi dello stato nei processi economici. Se fa ancora salva la proprietà privata, di fatto la ingabbia con leggi e normative che ne inibiscono la libertà di gestione deprimendone la competitività. Persone umane e realtà produttive non sono di fatto oggi più libere nell’adeguarsi alle esigenze che sono imposte dalla globalizzazione dei mercati, sui quali agiscono invece importanti attori che hanno piena libertà di azione. Sarebbe come imporre limitazioni alla potenza di fuoco del proprio esercito durante un conflitto: la sconfitta diventa inevitabile.

2. Burocratizzazione. Ogni intervento dello stato in economia, oltre a deprimerne la produttività, ha come sgradito effetto collaterale la necessità di incrementare consistenza e poteri del corpo dei burocrati e dei funzionari che devono dar luogo a leggi e normative. Questo ulteriore costo é un fardello aggiunto alla soma del mondo produttivo, gradito soltanto a chi riesca ad intrufolarsi nel labirinto burocratico, accaparrandosi un posticino inamovibile con l’immenso potere di concedere o negare licenze e permessi.

3. Corruzione. La potestà del burocrate non si estende solo al fatto di poter concedere o negare licenze e permessi, ma anche a quella di prolungare sine die un iter burocratico. Basta solo chiedere un’ulteriore consulenza o parere superiore. Ciò facendo, si genera un nodo ove inevitabilmente si annida un centro di corruzione, che la reclama e la impone. Persone ed imprenditori non possono più guardare alle esigenze e richieste del mercato, dei Consumatori, ma non possono fare altro che cercare con ogni mezzo di ingraziarsi e propiziarsi i burocrati. Burocrati deresponsabilizzati politicamente, ma ben responsabili di ciò che fanno nel favorire consorterie e discapito di una scelta rapida ed obiettiva.

4. Sbilanciamento del rapporto burocrazia/produzione. Mentre il corpo dei burocrati è inamovibile, quello della produzione non é più a lungo sostenibile quando esce dal mercato, ragion per cui si riduce di numero per messa in liquidazione o fallimento delle imprese, delocalizzazione produttiva, ovvero riduzione di produzione e personale. Così, alla riduzione della produzione si associa la piaga per cui un numero sempre più ridotto di addetti alla produzione deve mantenere un numero sempre maggiore di burocrati e funzionari che dovrebbero “gestire” il loro lavoro.

L’intervento dello stato nell’economia ha portato solo ai disastri odierni,

perché inzuccarsi su questa strada?

No Industria? No Pil.

No Pil? depressione.

Depressione? Miseria generalizzata!!

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