Non bisogna dimenticare che sono considerazioni di razza ciò che distingue un vero popolo da una collettività di uomini che non meritano il nome di “popolo”. Dette considerazioni umane sono varie e molto differenti le une dalle altre. Ci sono Stati la cui popolazione è una massa profondamente meticciata, in cui gli esemplari di aspetto “puro”, se ce ne sono, hanno figli che non somigliano ai loro padri; in cui i figli di una stessa coppia che appaiono etnicamente omogenei, sono di razze differenti: uno negroide, l’altro mediterraneo o quasi, il terzo, con forti caratteristiche amerinde. Questi sono Stati, non Popoli.
Vi è per esempio uno stato brasiliano. Ha una popolazione (multirazziale e senza leggi di segregazione) che abita in Brasile. Non c’è un popolo brasiliano – ne, di conseguenza, esiste una “nazione” brasiliana. I “ricordi comuni”e la “volontà comune di vivere uniti” non possono, contro l’opinione di Ernest Renan, sopperire alla quasi totale assenza di omogeneità razziale.
Vi sono d’altra parte Stati la cui popolazione si compone di vari popoli sovrapposti ma non mescolati. E’ il caso degli Stati Uniti d’America, dell’Unione Sudafricana, della Rodesia, dell’Unione Sovietica, delle Indie. E’ per abuso di linguaggio che si da a qualunque agglomerato umano che abiti un territorio l’appellativo di “popolo” o di “nazione”. In effetti non c’è nessun legame naturale, nessun nesso biologico, tra un “cittadino nordamericano” di origine anglosassone, irlandese o mediterraneo e un altro “cittadino nordamericano” negro o meticcio, o ebreo. Quello che li avvicina artificialmente è un’amministrazione (il governo federale) comune e un modo di vita che la volgarizzazione delle tecniche tende a fare esteriormente simili. Ariani, negri, ebrei, votano insieme, pagano le imposte negli stessi uffici, ricevono in caso di malattia gli stessi soccorsi, ascoltano o guardano le stesse radio e televisioni, gli stessi film: mangiano tutti le stesse cose, bevono tutti coca-cola.
Anzi, negli Stati Uniti, come negli stati erroneamente chiamati “razzisti” della Rodesia e del Sudafrica (tuttavia più in America che in Africa), ariani e negri appartengono alle stesse chiese; sono metodisti, anglicani, luterani, cattolici o testimoni di geova, a seconda dei casi, però sempre senza distinzione di razza. Non essendo di questo mondo il regno del vero cristianesimo, le considerazioni biologiche non si possono tenere in conto. Quello che in questi paesi avvicina i popoli inglobati dentro la popolazione totale, diviene a essere assolutamente differente dal sangue, è lo sforzo (apparentemente in mano ad ariani, però in pratica sotto il controllo degli ebrei) di dotare le diverse razze di una civilizzazione comune – per iniziarli, nei limiti del possibile, alle stesse scienze, alle stesse tecniche e alla stessa “cultura” -, si esercita con lo stesso obbiettivo massificatore.
Questo stesso senso massificatore è presente anche dentro le frontiere dell’URSS. L’unica differenza è che nell’URSS è la fede marxista, una e indivisibile, e non la molteplicità delle sette cristiane del mondo anglosassone, quella che serve, o cerca di servire da collante tra popoli diversi, tra estranei per sangue, ai quali è stata imposta un’amministrazione (politica ed economica) simile e una lingua comune (la lingua russa ha preferenza ufficiale tra le altre lingue indigene).
Così come in tutti questi paesi nei quali oltre alla generalizzazione più o meno rapida di un modo di vita materiale uniforme, combinato con la diffusione di idee e valori comuni, vi è già, in un tempo più o meno lungo, un pericolo di mescolanza e, per tanto, di scomparsa di tutte le razze presenti. Mentre tra gli esseri viventi privati della parola e, per tanto, del pensiero discorsivo, l’infallibile e onnipotente voce del sangue regola l’accopiamento tra le coppie, la loro riproduzione sessuale, al contrario, tra gli uomini, la voce del sangue è sempre più repressa, dominata, neutralizzata da fallaci considerazioni concernenti la “cultura comune”, i “gusti comuni”, le “idee comuni” e, in generale, da tutto quello che può essere di primaria importanza in vista della “felicità” degli individui che si accoppiano, e anche delle loro rispettive famiglie, considerazioneiche non tengono in alcun modo in conto la razza.
Bisogna notare che i matrimoni misti (tra coniugi di razza diversa) sono, in proporzione, più frequenti tra i cosidetti “intellettuali” che tra i lavoratori manuali. La voce del sangue – il sano istinto di separazione sessuale da ogni persona biologicamente diversa – è più difficile da essere represso nella maniera in cui le razze sono più visibilmente estranee l’una dall’altra. Per questa ragione la mescolanza con i negri non si è mai diffusa negli Stati Uniti. Per questa stessa ragione si spiega il perchè l’apartheid sia, di fatto (anche se non legalmente) praticamente totale tra ariani e negri, tanto in Sudafrica quanto in Rodesia (dove i negri sono tuttavia invitati a partecipare alla civilizzazione bianca), e per questo si spiega perchè, non solo in Sudafrica e Rodesia ma anche negli Stati Uniti e in Europa l’apatheid tra ariani ed ebrei è molto meno percettibile che quello tra ariani e negri in Africa, dato che gli ebrei, seppur non ariani sono anch’essi “bianchi”.
Si trova quindi in ogni popolazione composta da gruppi razziali ancora separati che abitano lo stesso territorio, un perpetuo conflitto tra la tendenza generale della storia umana verso l’uniformità nel seno del caos etnico, e la reazione che oppone a questa uniformità l’istinto di conservazione di ogni razza – la sana tendenza di ogni gruppo vivente nettamente caratterizzato, che si manifesta anche tra gli uomini. Dentro queste due tendenze, qualunque sia la corrente che ottiene vantaggio, la popolazione in questione non diverrà mai un vero “popolo”.
Se, favorita dalla diffusione di un modo di vita uniforme così come da un “sapere” comune e soprattutto dai cosidetti “valori” antirazzisti comuni, la cancrena della mescolanza conquista, a poco a poco, tutta la popolazione, la decadenza di questa popolazione si fa irreparabile: è il caso di ogni cultura, di ogni creazione disinteressata, ossia di ogni attività che sia tendente a “produrre” sempre di più a solo scopo materiale.
Se al contrario, in questo conflitto di tendenze aquista vantaggio quella di mantenere le diverse razze separate, la conseguenza di questa tendenza “razzista” sarà che la popolazione manterrà la sua eterogeneità. Questa popolazione eterogenea, ciononostante, non sarà mai un “popolo” – e ancor meno una “nazione”. Si conserverà tale e quale come è, mantenendo la sovrapposizione di due o più razze vivendo in armonia le une con le altre nella maniera in cui la loro diversità primordiale sia riconosciuta e accettata. In una tale società il “popolo” di fronte al quale l’individuo deve annullarsi non può essere altro che il proprio gruppo razziale.
L’Unione Sudafricana (tanto diffamata dagli antihitleriani del mondo intero per il motivo dell’ipotetico e cosidetto “razzismo” dell’apartheid) non è uno Stato multirazziale di tipo autenticamente razzista (o lo è in modo molto incompleto), nonostante il suo programma ufficiale di “sviluppo separato delle razze”. Tanto in Sudafrica come in Rodesia è proibita l’esaltazione del razzismo, mentre negli Stati Uniti il razzismo è combattuto (furiosamente) senza che cessi la resistenza dei segregazionisti, e come ho già detto, anche in Sudafrica si confonde “ariano” con “bianco”. E come conseguenza di questa confusione, il Sudafrica, lontano dal separare gli ebrei dai posti chiave del paese e, in modo generale, da ogni professione che gli permetta di aquistare un’influenza politica o cuturale considerevole, da agli ebrei tutti i vantaggi (o più) di cui possono godere i bianchi, mentre vengono negati agli ariani dell’Asia, per quanto questo sia illogico, se si tiene conto che sono di pelle chiara (come la maggioranza dei Brahamani e Khshatriya del Punjab).
La mescolanza tra ariani ed ebrei non è proibita in Sudafrica, erroneamente chiamato razzista, così come non lo è in nessun altro paese. E’ vero che, in ogni parte dove vi sia la presenza di due o più razze umane i cui appartenenti sono tutti o quasi tutti della stessa religione, come il cristianesimo, centrata “sull’uomo”, si manifesta alla lunga, una tendenza al meticciato. Ogni vero razzismo implica la negazione del carattere “a parte” dell’uomo, e la sua integrazione in seno al congiunto di tutte le specie viventi; la negazione dell’uguaglianza di diritto delle “anime” tanto come dei corpi.
Da qui risulta che è lontana dal meticciato – ed è già qualcosa – (o che almeno è capace di combatterlo con abbastanza forze e perseveranza per preservare la propria elite razziale), quella popolazione di varie razze unita nell’accettazione naturale di una dottrina fondata sulla gerarchia naturale delle razze, ossia sulla disuguaglianza, e per tanto, sulla completa integrazione dell’uomo, esso stesso diverso, nel mondo della Vita, mondo unico nella sua essenza, anche se infinitamente vario nelle sue manifestazioni. Solo una popolazione unita nell’accettazione comune di una dottrina secondo la quale né i diritti né i doveri sono gli stessi per tutti gli uomini (come è – almeno dalle prime invasioni degli Ariani di sessanta secoli fa – l’enorme popolazione delle Indie) può trionfare su questa forza di disintegrazione particolarmente attiva nell’Età Oscura, che tende alla livellazione dal basso.
Per comprendere la storia dei popoli che abitano questa vasta porzione dell’Asia – che ingloba oltre alla “repubblica indiana” attuale, i due Pakistan e l’isola di Ceilan; una superficie simile a quella di tutta l’Europa, a parte la Russia – bisogna retrocedere ai lontani tempi in cui le prime tribù ariane, venute dal nord, discesero in onde successive verso il “paese dei sette fiumi” (il Sapta Sindhu nelle scritture sanscritte) attraverso il famoso passo del Khaib, il Cammino dei Conquistatori.
Secondo Bal Gangadhar Tilak, comunemente conosciuto come Lokamanya Tilak – brahamano del Maharata, erudito e matematico, che lo dimostrò mediante considerazioni astronomiche – , queste invasioni si ebbero quattromila anni prima dell’era cristiana, vari secoli prima della cosruzione della piramide di Giza; quando in Mesopotamia fioriva la civiltà Sumera nei suoi centri più antichi: Erech, Nippur, Eridu, millecinquecento anni prima di Sargon di Accadia. E gli Arya – che in sancrito vuol dire “quelli che comandano”, detto in un altro modo gli uomini della razza dei signori che venivano, sempre secondo Tilak, dal lontano Nord.
Erano fratelli di quelli che, più vicini alla culla comune della razza si chiameranno un giorno germani, elleni, latini, le cui lingue presentano similitudini profonde. I loro antenati avevano vissuto più in là del circolo polare artico, nel tempo in cui questa regione godeva di un clima temperato – ossia, prima che l’asse del nostro pianeta si inclinasse più di ventitrè gradi. Loro avevano aspettato con adorazione il ritorno del sole – la vittoria del giorno dopo le lunghe notti illuminate dalle aurore boreali – e cantarono lo splendore del cielo e venerarono gli astri (gli “splendenti” o Deva) che mai si nascondevano, in inni di una poesia più che umana.
Nel passare dei secoli durante i quali percorrerono per tappe l’immensa distanza che li separava dalla divina patria artica, gli Arya conservarono alcuni di quegl’inni. I loro bardi ne composero altri, e presto, nel corso della conquista graduale delle terre calde, dovettero improvvisarne molti altri. Trasmessi oralmente per molto tempo – e finalmente scritti- 1009 di questi poemi sono giunti fino a noi. Costituiscono il Rig Veda – il testo sacro più antico delle Indie, che ancora oggi salmodiano pietosi brahamani.
Cerchiamo di immaginare questi antichi guerrieri e quei sacerdoti della nostra razza, avanzando passo passo, al massimo alcuni chilometri al giorno. Al centro della coorte invasora , che si allunga come un fiume, sono raggruppati i carri, dove stanno le donne, i bambini, gli equipaggiamenti. Con un passo lento e regolare sono tirati dai buoi. A entrambi i lati vanno gli uomini, a piedi o a cavallo, fortemente armati. I combattenti più sicuri – che hanno dato prova già di forza e valore in altre peregrinazioni – aprono e chiudono la marcia. Alla sera, si fermano. Si da da mangiare agli animali; si dispongono i carri intorno al campo; e tra i sacrifici ai Deva, si mangia e si beve.
I guerrieri montano la guardia intorno al campo. Quelli che hanno tempo libero si riuniscono intorno al fuoco, e ascoltano sino a tarda notte, i racconti dei più vecchi della tribù e i canti dei bardi. Per la prima volta, le armoniose sillabe di una lingua ariana – “indoeuropea” – risuonano sotto il cielo delle Indie. Chi avrebbe potuto prevedere che sessanta secoli dopo, risuoneranno in tutte le lingue a nord dei monti Vindhyas, in Bengala, nell’Assam, incluso alle frontiere del mondo giallo?
Al mattino, dopo la purificazione nell’acqua chiara di qualche fonte o in quella dell’Indo o in alcuni dei suoi affluenti e dopo aver recitato i versetti prescriti a Surya, luce vittoriosa, calore fecondatore, anima e intelligenza del mondo, si riprende la marcia predestinata.
L’India di allora – molto meno popolata e molto più bella di ora; coperta in gran parte da interminabili boschi pieni di nobili felini, cervi ed elefanti – aveva dato nascita su tutto il Sindh e il Punjab, a una brillante civilizzazione, tecnicamente superiore a quella degli Ariani: la civiltà della Valle dell’Indo. Fu opera di una razza dalla pelle rosso-scura, capelli neri e flessibili, razza intelligente, industriosa, commerciante, mistica in certe occasioni, e pacifica, i dravidi, che sono stati paragonati non senza ragione ai sumeri.
Costruirono alte città, con un buon numero di case (dicono gli archeologi), che raggiungevano sette o otto piani. Producevano una serie di articoli di uso comune – tra altri vasi decorati – di uniformità impressionante. Rendevano culto alle dee madri, e conoscevano apparentemente una qualche forma di yoga. Quasi non conoscevano le armi, ed erano inferiori agli Ariani non solo nella conoscenza della guerra, ma nell’organizzazione, disciplina collettiva e senso civico.
I dravidi furono, nell’India del tempo della conquista ariana, che fu lenta, e durante i secoli che seguirono, quello che minoici ed egei furono in Grecia, nella conquista del paese da parte dei Dori e dopo di questa conquista: maestri in certi ambiti, ma nonostante, “cittadini di seconda classe”, sottomessi ai loro vincitori.
Ma essi non furono l’unico ostacolo (di certo non molto forte) per l’installazione dei nuovi arrivati. Tra essi, nel fondo dei boschi nelle loro capanne di foglie e rami, o in ripari naturali, vivevano gli antenati immemori dei negroidi, mongolidi e degli uomini del tipo Munda che formano ancora oggi una parte numericamente importante della popolazione delle Indie: i vedda di Ceilan; i khashia, lushais, mikirs, miris, nagas, kukis, ecc.., dell’Assam; i Santal di Bhiar e del Bengala, i gund e i bhils dell’India centrale. Gli Arya erano solo qualche migliaio, forse col tempo qualche decina di migliaio, di fronte a tutti questi popoli e tribù ostili, che chiamavano Dasyus (abitanti dei boschi) o…Rakshas (demoni).
E’ possibile che trovarono, nella società dell’Harappa e di Mohenjo-Daro, un sistema ereditario di divisione del lavoro. Però furono loro a dare a questo sistema, se esisteva, un senso razziale e diversificarono la popolazione delle Indie in caste immutabili. E non poterono fare altro se volevano conservare le caratteristiche fisiche e morali della razza ariana, ossia se volevano sopravvivere. Iniziarono di certo a mescolarsi liberamente con i dravidi, tecnicamente più avanzati di loro… fino a che compresero, in tutto il suo tragico orrore, il pericolo del meticciato.
Fu allora che si formò il sistema delle caste: la divisione della popolazione delle Indie in una minoranza di Arya dwijas o “nati due volte” (perché dovevano conoscere questa seconda nascita che rappresenta l’iniziazione spirituale), e un immensa maggioranza di sub-genti dalla pelle scura, destinati ai lavori servili. I negroidi, negro-mongolidi e genti di tipo Munda, i più antichi abitanti del suolo indiano, furono relegati nella parte più bassa della scala – fuori da ogni casta. I “nati due volte” si spartirono il potere. D’ora in avanti l’autorità spirituale spetterà ai brahamani; il potere temporale agli kshatriya.
Era impensabile di insegnare a un giovane sudra, anche se eccezionalmente dotato – e ancor meno a un chandala, sotto a ogni casta -, le verità supreme, o di insegnarli a recitare le più belle invocazioni ai deva o le più potenti formule rituali, e anche recitarle davanti a lui. Tanto i trasgressori di questa proibizione, come quelli a favore dei quali sarebbe stata trasgredita, erano castigati a pene terribili. Da allora sono passate molte cose, molte trasformazioni hanno cambiato la società indiana, come tutte le società.
Nonostante tutto avvennero matrimoni proibiti, nascevano figli i cui gentori non appartenevano alla stessa casta (questo faccia riflettere sulla fallimentarità razziale del sistema castale, prima o poi avverranno sempre delle mescolanze, la questione del sangue allogeno non si può risolvere con questo sistema, ogni civiltà che invece di spazzare via per sempre i conquistati ne ha fatto uso come manodopera a contatto con i vincitori o ha cercato di creare un sistema multirazziale diviso in caste prima o poi è sempre caduto nel meticciato, solo una lontananza territoriale può veramente assicurare il mantenimento della purezza razziale. N.d.tr).
Però al posto di relegare questi bambini (con i loro genitori) nell’oscurità, si considerò ogni incrocio come l’inizio di una nuova casta, e che si poteva unire solo a un altro incrocio simile. Nelle Leggi di Manu vi si trova tutta una classificazione di queste sotto-caste che già all’epoca della redazione del codice era considerevole. Oggi, la divisione della popolazione Indù che meritano il nome di caste, ossia quella al cui interno, le genti, avendo uguale dignità, possono sedersi alla stessa tavola, e sposarsi tra loro, non sono più quattro, come all’origine, ma più di duemila.
Ormai non si distinguono più fisicamente i membri di una casta vicina, per esempio, un Kayastha bengali (della casta degli scribi) da un boidya (della casta dei medici), o un teli (della casta dei commercianti di aceto) da un tanti (sarto). Però ancora si distinguono, e molto chiaramente, un indù di casta molto alta, brahamano o kshatriya, cioè un indù indoeuropeo, da un indù che non lo è, o che lo è meno, e soprattutto nel nord della penisola, la regione più anticamente arianizzata. Si potrebbero classificare esemplari di tutti i gruppi, razziali e professionali allo stesso tempo, delle Indie, e classificarli.
Si otterrà così un enorme collezione di tipi che vanno gradualmente dal negroide e anche dall’australoide sino all’ariano puro – spesso più puro dei suoi fratelli dell’Europa (per lo meno dell’europa meridionale). Tra più di novecento milioni dell’insieme della repubblica indiana, i due Pakistan e Ceilan, ci sono forse un venti milioni di ariani quasi puri: di pelle chiara (a volte molto chiara), occhi castani o grigi (in rari casi azzurri o azzurri-verdi) capelli che vanno dal nero al castano-rossiccio, e dai tratti perfettamente indoeuropei. Si dirà che è poco.
E’ molto se si pensa che sessanta secoli separano i tempi attuali dal momento in cui le prime tribù ariane attraversarono il passo del khyber. E se non è molto, è in ogni caso sufficiente perché nessun ariano del mondo possa, se è razzialmente cosciente, desiderare l‘“unità dell’india”mediante la soppressione pura e semplice dei “tabù” di casta, e la mescolanza intensiva che deriverebbe da questo.
In ogni caso i fatti che concludo di raccontare qui mostrano chiaramente che le Indie non sono “un popolo” come non lo sono gli Stati Uniti d’America, l’Unione Sovietica o l’Unione Sudafricana. Però c’è una differenza: mentre in questi paesi una dogmatica fede comune, di cui si stimola la diffusione – una fede chiaramente antirazzista, come il marxismo, o una fede che si riferisce all’aldilà, e che è indifferente ai problemi della razza, come il cristianesimo – tende, nonostante tutto, ad avvicinare le razzeo comunque costituisce un freno all’istinto di segregazione, mentre in India si verifica il fenomeno contrario.
Qui, la tradizione religiosa proclama tanto la disuguaglianza congenita delle anime come dei corpi, e la gerarchia naturale delle razze, dominata dalla razza ariana – come nell’Hitlerismo – stimolando così la segregazione. Con il passare dei secoli, che sia in nome di una filosofia negatrice della vita, sia in nome di “necessità pratiche”, si è cercato di porre fine a questa tradizione razzista. Tuttavia non ci sono riusciti. Il buddismo cercava i suoi fedeli alla vita monastica, però nella pratica aveva come risultato la mescolanza di caste senza giungere all’estinzione della specie umana. Ha finito per essere bandito dall’India.
Guru Govinda Singh, il fondatore della setta guerriera dei Sik, volle reclutare i suoi discepoli tra tutte le caste, pretendendo di tenere in conto solo il valore individuale di ogni uomo. Però questo interesse per l’efficienza guerriera, questa esigenza di qualità essenzialmente ariane tali come lo spirito di sacrificio, senso della responsabilità, accettazione allegra della disciplina, anche molto dura, ecc.., ebbe come risultaro che furono soprattutto indù di casta ariana quelli che lo seguirono. Non bisogna far altro che guardare i Sik per rendersi conto di questo.
Nessun governo della “Repubblica Indiana” attuale avrà seguito là dove Goru Govinda Singh e, secoli prima, il Budda stesso, fallirono. Le Indie continueranno a essere il paese delle caste, in opposizione alle “classi”, il paese delle razze e sottorazze gerarchizzate, in cui l’ariano puro (o supposto tale) senza denaro, senza posizione – il brahamano mendicante, che dorme sopra una panca, o in una piazza pubblica – è onorato e sarà condotto nel miglior posto, tra i suoi uguali di sangue, in un banchetto di nozze per esempio, a cui sempre sarà invitato.
E le Indie continueranno a essere il paese in cui, al contrario, l’uomo di razza inferiore – il sudra e, con più ragione, l’intoccabile, anche se milionario (perché ai nostri giorni ci sono intoccabili milionari) –continuerà a essere relegato, almeno negli ambienti ortodossi, al posto assegnato a quelli della sua stessa origine, in qualche seggio fuori dalla sala del festino, e questo nonostante la sua ricchezza e, per di più, nonostante il suo sapere, se ce l’ha – perché ricchezza e sapere si aquisiscono ma solo il sangue è dono degli dei.
In altre parole l’India non sarà mai “una nazione”. Neanche sarà – o almeno speriamo – un caos etnico senza elite razziale: il sistema di caste, incluso con le sue debolezze attuali, preserverà le Indie da tale destino. Continuerà a esserci un’associazione di popoli e razze, uniti da una sola civilizzazione comune che è in accordo con la sua gerarchia naturale. Perché l’induismo è più di una religione nel senso che si da a questo termine in occidente. E’ una civilizzazione, civilizzazione dominata dal razzismo ariano, accettato dalle numerose razze non ariane, grazie al dogma del karma della trasmigrazione delle anime.
Se un giorno l’Hitlerismo giungesse a conquistare l’Europa credo con sicurezza che nel trascorso dei secoli venturi, la mentalità dell’europeo medio si avvicinerebbe sempre più a quella dell’indù ortodosso di qualunque casta. Come illustrazione di questo vado a descrivere un episodio che mi capitò nella mia vita in India. Fu durante l’anno glorioso del 1940, poco dopo l’inizio della campagna di Francia.
Vivevo a Calcutta e nonostante tutti i miei sforzi, non ero riuscita a tornare in Europa in tempo. E avevo un giovane servo chiamato Khudiram, un adolescente di quindici anni, sudra, della sotto casta dei mahesha (comunità di lavoratori del bengala occidentale), molto scuro di pelle, occhi leggermente chiusi, figura piatta – in nessun modo un ariano! – e perfettamente analfabeta.
Una mattina al ritorno dal mercato del pesce (in cui andava ogni giorno per comprare qualcosa per i gatti) questa ragazzo mi disse trionfalmente: “Mem Saheb, venero il vostro Fuhrer e desidero con tutto il mio cuore che vinca la guerra!”. Restai sbalordita. “Khudiram” dissi, “sei certo che non lo veneri perché sai, come tutto il mondo, che è vittorioso? Non conosci nulla della storia della sua vita né della sua opera”.
“Può darsi”, mi rispose, “che sia un ignorante. Però ho conosciuto questa mattina al mercato uno che ha almeno vent’anni e sa leggere. E mi ha detto che il vostro Fuhrer combatte, in Europa, al fine di estirpare la Bibbia, che sostituirà con il Bhagavad-Gita.” Restai nuovamente a bocca aperta, pensai per un momento: “Il Fuhrer si sorprenderebbe molto di come interpretano la sua dottrina al mercato di Calcutta!”.
Dopo ricordai un passo del Canto I del Bhagavad-Gita, che conoscevo secondo la bella traduzione di Eugene Burnouf: “Dalla corruzione delle donne procede la confusione delle caste” – per tanto delle razze, “Dalla confusine delle caste procede la perdita della memoria; dalla perdita della memoria procede la perdita della conoscenza, e da questo tutti i mali”.
Dissi a Khudiram : “Colui che hai incontrato al mercato ha ragione. Ripetilo a tutti quelli che vorranno ascoltarti. Per questo ti do un giorno libero – e una rupia per pagare una tazza di the ai tuoi amici. Và, e utilizza la tua libertà per la buona causa!”. Il ragazzo, completamente felice, si apprestò ad abbandonare la cucina dove avevamo discusso.
Però lo volli trattenere un momento, e chiedergli perché voleva con tanto entusiasmo quell’ “ordine nuovo” che non favoriva in nessun modo la gente della sua razza. “Sai Khudiram – gli dissi – , che rimpiazzare la Bibbia con la Bhagavad-Gita in tutta Europa e nei paesi sotto la sua influenza, equivale a estendere un sistema di caste simile a quello delle Indie? E sai che tu, come sudra quale sei, non avresti nell’ordine nuovo del mio Fuhrer, nessuna possibilità di promozione? Desideri questo?”.
Non dimenticherò mai la risposta dell’adolescente – la risposta delle masse non ariane delle indie, fedeli a una Tradizione razzista che li sottomette, per bocca di un giovane analfabeta. “Si, lo so. Voglio la vittoria del vostro Fuhrer perché l’ordine che cerca di stabilire è conforme allo spirito dei Shastra, perché è l’ordine divino, l’ordine vero. Poco importa il luogo che mi viene assegnato! Io non sono niente, io non conto. Solo la verità conta.
Se sono in una casta molto umile, è quello che ho meritato. Avrò sbagliato, e gravemente, nelle mie vite anteriori. Se in questa vita permango fedele alle regole della mia casta: se non mangio alimenti proibiti, se mi sposo con una ragazza che mi è permessa, e non desidero nessuna delle altre, rinascerò più in alto nella scala degli esseri. E se persevero di vita in vita nella via della purezza, chi lo sa? Un giorno – passati molti secoli – forse rinascerò Brahmano. O dentro questi nuovi Arya dell’Europa che venerano il vostro Fuhrer”.
Pensai agli uomini della mia razza che in un altro tempo, e in onde successive, avevano attraversato il passo di Khyber. Il figlio dei tropici, dopo sessanta secoli, gli rendeva omaggio. E pensai ai miei camerati tedeschi –i miei fratelli nella fede hitleriana – le cui divisioni corazzate passavano per le vie della Francia. Il figlio dei tropici rendeva omaggio anche a loro, posto che la loro fede, la fede hitleriana, è l’espressione moderna della Tradizione ariana di sempre.
Mi si chiederà: “Se le Indie non sono una nazione e non possono convertirsi in una nazione, perché si deve esaltare la nazione indiana in scritti, che alla sua epoca ebbero un certo rilievo? Perché ha messo nella prima pagina di uno dei tali libri, una frase tanto falsa come questa: Fare di ogni indù un nazionalista indiano e di ogni indiano un nazionalista indù?” Ora spiegherò questa apparente contraddizione. Per comprenderla – e giustificarla – devo ricordare che il colonialismo britannico nelle Indie fu essenzialmente differente da quello dei primi Arya, e dei loro lontani sucessori, i greci dell’invasione di Alessandro.
Gli antichi Arya adoravano i Deva però non disprezzavano gli dei degli altri popoli, e incluso gli rendevano omaggio occasionalmente: i greci adoravano le loro molteplici divinità – i dodici olimpici, e una moltitudine di più dei – però quando potevano, non disdegnavano i sacrifici agli dei stranieri, che tra l’altro identificavano con i propri. Tanto gli Arya come i greci erano orgogliosi della loro razza, e volevano conservarla pura.
Però nessuno dei due credeva che le istituzioni politiche o sociali, buone per il loro popolo, lo fossero anche per tutti gli altri. Non erano vittime della superstizione dell’ “uomo”, né del desiderio astratto della “felicità” umana, legata alla concezione di un “progresso” universale, lineare e infinito.
Savitri Devi in una foto a dir poco emblematica scattata probabilmente in Egitto
E anche se sfruttavano i vinti per diritto di conquista, utilizzando le proprie istituzioni per sfruttarli meglio, per il resto li lasciavano tranquilli. Il razzismo ariano – di fatto, ogni vero razzismo – è per natura tollerante, per strano che questo possa sembrare alle masse contemporanee.
Non vi sono più intolleranti per natura di coloro cui una nuova follia (alimentata da un certo numero di falsità) li spinge ad “amare tutti gli uomini” (e non gli animali ovviamente); e sono intolleranti solo per necessità in cui si trovano a difendersi a tutti i costi.
Gli inglesi che nei secoli diciotto e diciannove, giunsero in India, dopo la dominazione dei Grandi Mongoli (e di alcuni principi indù) erano come i fondatori dei due regni di Bactras e Sangala, venti secoli prima, ariani di razza, ossia, in generale,disposti alla tolleranza.
Non cercarono neppure di cambiare i costumi degli indù o dei mussulmani, se non si opponevano allo sfruttamento del paese. Però erano cristiani, o almeno di formazione cristiana, e avevano ereditato dal cristianesimo (anche se fosse solo in teoria) l’ “amore per tutti gli uomini” e la credenza, base delle democrazie moderne, che tutti gli uomini hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri.
Inoltre avevano conservato del cristianesimo quell’intolleranza tipicamente giudaica, ereditata dai suoi primi fedeli, educati alla fede nel “dio geloso”. Gli inglesi stimolarono l’azione dei missionari cristiani nelle Indie, e con il tempo sopressero certi costumi che li sorprendevano, in particolare il sacrificio (in principio volontario) della vedova sull’ara funebre del suo sposo, e sopra tutto, introdussero poco a poco nel paese, con l’insegnamento nella scuola e con una serie di riforme politiche i dogmi della democrazia e dello spirito della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo.
Il vero crimine dell’Inghilterra contro l’India non è aver sfruttato il suo suolo e le sue genti in un modo senza precedenti, ma l’aver inculcato a milioni di indù di casta superiore principi democratici antirazzisti, antitradizionali, così come l’umanitarismo se non un vero antropocentrismo; e alla fine l’aver introdotto in questa vasta terra dell’Asia, sistemi tendenti a favorire gli elementi razziali meno validi della popolazione.
Una delle leggi introdotte più sorprendenti, oggetto di un’immensa e lunga agitazione ma applicata prima della seconda guerra mondiale, è quella conosciuta con in nome di communal award. Trattava che ogni comunità religiosa fosse rappresentata proporzionalmente al numero dei suoi fedeli nelle assemblee legislative provinciali – veri parlamenti indigeni composti (in teoria) da “rappresentanti del popolo” delle regioni, la maggioranza dei quali sono più estese della Francia o Gran Bretagna e che contengono milioni di abitanti (tutti elettori naturalmente! Dove sarebbe se no la democrazia!?).
Per esempio il numero di deputati musulmani doveva essere il cinquantacinque per cento del totale dei rappresentanti nell’Assemblea del Bengala, dato che il cinquantacinque per cento degli abitanti della provincia erano mussulmani. L’Assemblea Legislativa dell’Assam doveva contare un numero di deputati cristiani proporzionale al numero di cristiani – quasi tutti aborigeni convertiti dalla diligenza dei missionari – dentro la popolazione totale dell’Assam. Gli intoccabili dovevano essere rappresentati, in ogni provincia, proporzionalmente al loro numero. Così in ogni provincia, c’erano regioni (in inglese “costituenti”) dove le liste elettorali di qualunque partito politico contenevano esclusivamente cristiani, mussulmani, o intoccabili.
Gli elettori ossia tutti gli abitanti maggiorenni – non avevano altra scelta che quella di votare tali candidati o… depositare nell’urna una scheda bianca. Era un sistema concepito ed elaborato per distruggere il potere politico degli indù in generale ma, soprattutto, degli indù di casta alta – ossia l’elite ariana delle Indie – e passarlo ad un’ amministrazione sempre più “indianizzata” che gli stessi inglesi avevano messo in piedi dopo il loro arrivo, che consideravano ineluttabile. Era un sistema imposto dall’autorità senza interpellare il potere coloniale. Non si poteva cambiare niente. Dal punto di vista razzista ariano non si poteva fare altro, se non cercare di limitare il male che di certo derivava dalla sua applicazione. E per questo bisognava agire come se si accettasse l’assurdo principio del diritto della maggioranza al potere, indipendentemente dal suo valore, semplicemente perché rappresenta il grande numero e… sforzarsi di convertire gli indù in maggioranza, in relazione alle altre comunità. (….)
Quanti Indù di casta ariana si rendavano conto del profondo significato dell’Hitlerismo? Questo è il caso di Sri A. K- Mukherji o di un ariano dei tempi vedici esiliato nei tempi dell’India moderna: Pandit Rajwade, di Poona. Evidentemente molto pochi furono gli uomini o donne che si resero conto di quale era la vera natura dell’Hitlerismo. Certamente, pochi ariani non tedeschi, nelle Indie (però in proporzione più che non tra gli ariani d’occidente) erano coscienti del senso dell’hitlerismo e allo stesso tempo collaboratori del Terzo Reich. La grande maggioranza, la quasi totalità degli amici europei della Germania nell’epoca Hitleriana, avevano un punto di vista puramente politico, vedevano in esso solo una dottrina politica, capace di dare adeguate soluzioni ai problemi dei loro paesi.
Una delle tragedie del nostro tempo è che, presi insieme, sono i nemici dell’Hitlerismo, e in particolare i giudei e i cristiani intelligenti, che lo hanno meglio compreso. Loro detestavano l’Hitlerismo, senza dubbio, ma lo detestavano per quello che gli ha dato grandezza ed eternità: per la sua scala di valori, centrati non “sull’uomo”, ma sulla vita, per la sua possibilità di diventare molto presto – una volta associato ai riti – una vera religione. I suoi nemici lo odiavano perché sentivano, più o meno confusamente – e a volte molto chiaramente – che la vittoria dell’Hitlerismo avrebbe significato la fine di quello che da almeno duemila anni (se non duemila e quattrocento) il mondo occidentale ha conosciuto e amato, sarebbe stata la negazione dei valori che per tutto questo tempo hanno aiutato a dar vita al mondo occidentale.
E’ degno di nota il fatto che uno almeno dei collaboratori più brillanti del nazionalsocialismo – e uno che ha pagato con la vita l’amicizia alla Germania rigenerata – Robert Brasillach, è stato cosciente del carattere essenzialmente “pagano” della mistica hitleriana. Brasillach collaborò con la Germania “nonostante” e non a causa di questo carattere “pagano”. In vari passaggi, in particolare nella poesia “Le Sept Coluleurs”, Brasillach esprime l’impressione di estraniamento che lui sentiva coi vicini della Germania del Rhin, tra i tedeschi tutti, pur con l’ammirazione che sentiva per il suo rinascimento politico e sociale. Riferendosi alla Germania di Adolf Hitler scriveva: “E’ un paese strano, più lontano da noi che la più lontana India o Cina”, un paese pagano. Nel 1935, quando il Reich rigenerato era in piena gloria, Brasillach si domanda se “tutto questo durerà”, come se sapesse che la lotta del Fuhrer era una lotta contro il tempo – una lotta controcorrente – e come se sentisse l’inutilità, nel senso materiale, di quella lotta.
Ma c’è di più. Nei suoi “Poemes de Fresnes” – i suoi ultimi poemi, scritti alcune settimane, forse alcuni giorni prima di cadere sotto i colpi di un plotone di esecuzione – lui non tratta per niente della Germania vinta, ma elevata al rango di Terra Santa d’Occidente per il suo ruolo di campione dell’idea panariana; non parla neppure della fede Hitleriana, ma della Francia, così come della sua famiglia e dei suoi amici più cari, della sua fede cristiana. In una poesia datata 9 novembre non c’è una sola parola che ricordi ciò che questa data significa per la storia del movimento nazionalsocialista (anniversario del Putsch del 1923, in cui caddero sedici combattenti del nazionalsocialismo).
E durante il suo breve processo dichiara di essere stato “prima di tutto francese” e solo dopo nazionalsocialista, avrebbe potuto dire di essere nazionalasocialista in quanto prima di tutto francese; perché l’opposizione alla democrazia parlamentare, e la lotta contro l’influenza giudaica nella politica di tutti i paesi gli sembravano splendide attitudini (soprattutto applicate in Francia), nonostante la mistica Hitleriana, alla quale lui mai appartenne. Tanto tra i collaboratori francesi (combattenti per il nuovo ordine europeo) come tra gli inglesi sanzionati dalla Legge 18 B, sono molto pochi quelli che ho trovato sinceramente hitleriani in quanto coscienti delle implicazioni filosofiche dell’Hitlerismo. Dirò di più, anche negli anni della maggior gloria del Terzo Reich, erano ben pochi i veri hitleriani tra milioni di tedeschi che acclamavano il Fuhrer.
Uno dei più puri hitleriani che ho avuto la gioia e l’onore di conoscere – l’Oberregierungs und Schulrat Heinrich Blume – mi disse nel 1953 che il numero di tedeschi che si erano dati completamente al movimento sapendo in pieno cosa facevano non superava di certo i trecentomila. Cifra ben lontana dal novantacinque e mezzo per cento degli elettori del Reich, che portarono il Fuhrer al potere. L’immensa maggioranza degli elettori avevano votato per la ricostruzioone economica e per la rigenerazione del corpo sociale, non per il ritorno alle verità fondamentali della vita e per la “lotta contro il tempo” che implicava l’Hitlerismo, del quale neanche se ne accorsero.
C’è di più: ci furono tedeschi che – come Hermann Rauschning, l’autore di “Hitler mi ha detto” – appena si resero conto del carattere pagano della Weltanschauung Hitleriana, si allontanarono dal movimento nazionalsocialista. Bisogna notare che essi compresero questo solo quando entrarono sufficientemente in confidenza con Hitler come se fossero stati ammessi nel suo piccolo circolo di iniziati o parzialmente iniziati. Perché c’era differenza tra gli insegnamentii dati al popolo in generale e quella che ricevevano i discepoli: una differenza non di contenuto ma di chiarezza. Per esempio al punto 24 dei famosi Venticinque Punti specifica che il Partito, proclamando la più alta tolleranza religiosa, si attiene a un “cristianesimo positivo” – in altre parole a quello che c’è di “positivo” cioè di vero, in conformità alla Tradizione, nel cristianesimo storico – però combatte e condanna ogni religione o filosofia “ che ripugna il senso morale della razza germanica, o che sia pericolosa per lo Stato”.
Il punto 24 omette (volutamente senza dubbio) ricodare che ogni religione che volga le spalle alle realtà di questo mondo, e in particolare alle realtà biologiche, fino al punto di permettere il matrimonio tra genti di razze diverse, sempre che i coniugi siano membri della stessa “chiesa”, lo stesso che ogni religione o filosofia che esalta l’ “uomo” anche se deficiente o anche se è all’ultimo stadio di decadenza fisica o morale, non può essere altro che un pubblico pericolo nello Stato Nazionalsocialista. Il Fuhrer si astiene completamente nel Mein Kampf di insinuare una riforma religiosa. “E’ criminale” scrive, cercare di distruggere la fede accettata da un popolo “sino a che non c’è nulla che la posso rimpiazzare”.
Lui scrive anche che la missione del movimento nazionalsocialista “non consiste in una riforma ma in una riorganizzazione politica del popolo tedesco”. Però ciò che egli non scrive in un libro destinato alla grande massa di un popolo cristianizzato dal nono secolo, e che si credeva, almeno nella sua maggioranza cristiano – è che ogni regime basato, come lo era il regime nazionalsocialista, sulla negazione del valore intrinseco di ogni uomo, indipendentemente dalla sua razza e dal suo valore individuale è per forza l’antitesi di ogni ordine sociale cristiano. Perché ogni società cristiana ha per principio il rispetto “per l’essere umano” creato, qualunque esso sia, “a immagine e somiglianza” di un dio trascendente e personale, essenzialmente amico dell’uomo.
Quello che Adolf Hitler non poteva dire alla grande massa è che ogni regime fondato su una dottrina centrata sulla vita e sulle leggi eterne, ha necessariamente un significato più che politico. Dei voti della massa del popolo tedesco dipendeva in effetti il proprio successo, perché non bisogna scordarsi che Hitler prese il potere “legalmente” ossia “democraticamente”. Questo senso metapolitico della mistica dominante allora in Germania, la captavano soltanto il Fuhrer e l’elite nazionalsocialista: gli iniziati della Thule Gesellschaft; ii maestri e i migliori alunni degli Ordenburgen, in cui si formavano i membri della SS. La massa del popolo non captò questo significato e sarebbe stato contrariato se lo avesse scoperto, con tutte le sue implicazioni; per esempio che qualcuno gli avesse fatto comprendere che il Cristianesimo e l’Hitlerismo son due vie differenti e incompatibili, aperte sull’eterno, e che una stessa persona non può seguire entrambe le vie, ma che deve scegliere.
Fuori dalla Germania – e fuori dall’India di tradizione Ariana – un’ elite pensante amava o odiava l’Hitlerismo a causa della sua vera natura. L’elite giudea lo malediva per ragioni tanto profonde come è la sorda ostilità secolare che oppone Israel contro il mondo Germanico. L’enorme massa degli uomini di tutti i paesi – indifferenti alla “politica” – temevano l’Hitlerismo senza sapere esattamente il perché, e in realtà lo temevano perché sentivano nella dottrina di Adolf Hitler la negazione di ogni antropocentrismo, la “sapienza dello spazio stellato” (come io l’ho chiamato) in opposizione all’ “amore per l’uomo” e l’affanno per la sua felicità, in questo mondo o in un altro.

Corrente 88