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  1. #1
    Sessantottino radicalchic
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    Predefinito Percezione e comunicazione

    Scrive Putnam che la percezione del mondo è immediata per definizione. Ora, la percezione può essere vera o falsa, ma resta immediata. Invece la comunicazione è mediazione, ciò che dico a voi è un processo di ricezione mediata da tanti fattori, e come tale non arriva mai integro, nella sua entità originale. Io ritengo che lo iato tra percezione e comunicazione sia sintomatico della più grande cesura tra soggettivo ed oggettivo. Voi, o lettori di questa brevissima riflessione, cosa ne pensate?
    "Io non intendo sostenere una moralità basata sull'evoluzione: dico come le cose si sono evolute e non come noi esseri umani dovremmo comportarci.", Richard Dawkins

  2. #2
    Sessantottino radicalchic
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    Predefinito Re: Percezione e comunicazione

    Introduzione a Hilary Putnam

    di Alberto Gazzola

    Hilary Putnam (n.1926) può essere considerato uno dei massimi filosofi viventi e forse il maggiore tra quelli americani per ampiezza di interessi, profondità delle argomentazioni, originalità delle proposte. Formatosi con maestri del calibro di Carnap e Reichenbach nell'ambiente filosofico statunitense del primissimo dopoguerra (allora fortemente influenzato dalla scuola neopositivista di recente importazione), Putnam ha progressivamente esteso i suoi interessi sino a toccare una varietà sorprendente di argomenti: temi di filosofia della logica e della matematica, alcune questioni centrali di filosofia della fisica, problemi di epistemologia generale, questioni metafisiche, argomenti di filosofia del linguaggio e della mente; più recentemente questioni di estetica, etica, filosofia della politica, filosofia della religione (da rilevare come egli abbia dichiarato apertamente il suo ritorno alla fede ebraica, conversione che sembra essere avvenuta attorno alla metà degli anni settanta). In ognuno di questi campi il filosofo americano si è segnalato per l'incisività delle proposte, spesso indirizzate ad una critica radicale di posizioni filosofiche ampiamente diffuse.

    Se la critica verso gli avversari si caratterizza per la sua fermezza (ma anche per l'estrema sua onestà), non lo è meno quella che egli esercita sulle sue stesse idee, le quali sono di conseguenza soggette a continue trasformazioni, ridefinizioni, precisazioni e talvolta a profonde revisioni. Non sono mancate per questo a Putnam le accuse di incoerenza, incertezza, volubilità, accuse alle quali egli ribatte sottolineando fortemente la necessità di un atteggiamento filosofico fallibilista, dialogico, trasparente, aperto alla critica (in primo luogo la propria): “Cambiano idea solo coloro che ammettono i propri errori”.

    La produzione filosofica di Putnam tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Ottanta è raccolta per lo più nei tre volumi (Philosophical Papers 1, 2, 3), i quali spaziano dalla filosofia della logica, del linguaggio e della fisica, alla filosofia della matematica e della mente, per toccare questioni epistemologiche generali standard come la corroborazione e la preferibilità delle teorie, problemi di logica induttiva e altri ancora. Alcuni di questi saggi contengono tesi innovative divenute ormai classiche: tra tutte si possono ricordare la tesi del funzionalismo e la teoria causale del riferimento (detta anche teoria del riferimento diretto).

    Il tema centrale della riflessione putnamiana è certamente il realismo. Nel terzo dei volumi citati si registra il decisivo ingresso di temi legati alla cosiddetta filosofia “continentale”, ma soprattutto si va facendo strada una prima fondamentale trasformazione. Da un' originaria posizione a favore di un realismo tout court ("realismo metafisico") si assiste allo sviluppo progressivo di una forma alternativa di realismo (in un primo tempo battezzato realismo interno, successivamente realismo pragmatico o dal volto umano), un chiaro tentativo di realizzare una sorta di terza via tra un realismo forte (metafisico, scientifico) e l'ir-realismo (proprio delle varie forme di anti-realismo, relativismo, idealismo, nichilismo), le due grandi "famiglie" filosofiche che si spartirebbero l'intero spazio della filosofia contemporanea. Tale svolta comincia a definirsi con la pubblicazione del libro Meaning and the Moral Sciences (1978), e si precisa con la pubblicazione di Reason, Truth and History nel 1981. In Representation and Reality (1988) Putnam ha poi messo in discussione i capisaldi della sua precedente posizione a favore del funzionalismo per abbracciare una posizione attenta alle problematiche del cosiddetto Verstehen, che assumono un ruolo rilevante nella sua successiva produzione.

    In questa fase centrale della sua produzione gli influssi sono molteplici, ma soprattutto grande è il debito di Putnam nei confronti di filosofi quali Kant, Wittgenstein e William James. Kant, già punto di riferimento, diventa decisivo quando Putnam si accorge di non essere più in grado di rispondere secondo i canoni standard della filosofia analitica ai problemi fondamentali della filosofia, un approccio che andrebbe integrato con un diverso modo di porre i problemi. L'importanza di Kant diventa determinante in questo contesto soprattutto per il modo con il quale il filosofo tedesco ha affrontato le principali questioni del suo tempo, piuttosto che per il genere di risposte che egli ha elaborato. Secondo Putnam il primo filosofo nel quale può essere rintracciata una posizione simile al suo “realismo interno” è stato Kant. Putnam giunge quindi a sostenere che il mondo “dipende” [1] parzialmente dalla mente conoscente, e che la dicotomia realtà/apparenza altro non è che un'illusione trascendentale, fondata sull'idea che la realtà sia qualcosa di completamente indipendente da noi. L'idea di una realtà indipendente, che le teorie scientifiche descriverebbero compiutamente, lascia il posto a una concezione che vede lo status degli oggetti postulati dalle nostre teorie come intimamente legato alle scelte concettuali operate dall'osservatore. La proposta di Putnam è di considerare la conoscenza né come prodotto della mente umana (idealismo), né come un adattamento oggettivante in termini di corrispondenza alle strutture del mondo naturale (realismo forte, metafisico): i processi conoscitivi sarebbero piuttosto una sintesi dipendente da una componente fattuale e da una concettuale. Ma non possiamo distinguere nettamente l'elemento fattuale da quello concettuale della nostra conoscenza; questo equivarrebbe, tra l'altro, a suggerire l'esistenza di un mondo in sé per noi inconoscibile, facendoci ricadere nelle tesi del realismo classico. Non possiamo fare a meno dei nostri schemi concettuali, ma essi si applicano all'ambiente-mondo esterno, il quale a sua volta acquisisce un senso solo a partire da un sistema di valori .

    Un'altra fondamentale idea kantiana accolta da Putnam è quella riguardante la stretta interconnessione tra etica e metafisica. Tutti i problemi filosofici hanno, in un certo senso, una radice etica, o perlomeno valoriale (esistono valori epistemici, non solo etici). La stessa scienza non è qualcosa di “incontaminato” rispetto ai valori, ma, proprio in quanto prassi umana, è profondamente influenzata da essi. Le pretese del pensiero scientista, aventi come conseguenza rilevante la svalutazione del senso comune, si dimostrano assai deboli nei loro assunti fondamentali. Il loro fallimento apre alla possibilità di riservare, tra le altre conseguenze, un ruolo essenziale al mondo del senso comune (in un'accezione paragonabile alla Lebenswelt husserliana), per mezzo del riconoscimento della ragionevolezza delle nostre istanze etico-metafisiche, le quali sono le uniche che possono dare un senso alle nostre “vite morali”. Riprendendo l'analisi kantiana, Putnam vede scontrarsi i due concetti della filosofia scolastica (der Schulbegriff der Philosophie) e della filosofia intesa come concetto cosmico (der Weltbegriff der Philosophie). Il primo è oggi rappresentato dalla filosofia analitica; il secondo, da una filosofia che cerca di indagare la condizione umana ed elaborare “visioni del mondo” che diano un senso alle nostre vite. Compito peculiare del filosofo diventa quindi la ricerca dei “fini” dell'umanità: egli dovrebbe considerare la propria attività come quella di un insegnante che esercita la sua attività sui giovani, ma anche su se stesso e sugli altri adulti.

    Da Wittgenstein Putnam riprende la convinzione che, in un certo senso, “i problemi filosofici sono irrisolvibili”: la filosofia deve ritenersi soddisfatta qualora riesca a porre i problemi in un modo soddisfacente, ma non può certo sperare di arrivare a un termine ultimo, ad una risposta conclusiva. Ciò che possiamo fare è cercare “direzioni di risposta”, con la coscienza che i problemi filosofici sono questioni che l'uomo si porta con sé, e che esisteranno finché l'umanità continuerà ad esistere. La filosofia investe la sfera umana in tutte le sue attività conoscitive e pratiche, investe l'intera vita dell'uomo, non riguarda solo il “corretto modo di ragionare”, come spesso hanno sostenuto molti filosofi analitici, e nemmeno astratte speculazioni metafisiche, tendenza che spesso ha caratterizzato la tradizione europea. Essa riguarda profondamente la nostra capacità di sentire, di immaginare, ovvero “tutta la nostra sensibilità” di esseri umani.

    Sull'idea di “responsabilità universale” (e su altri temi) il lavoro di Putnam si incontra con quello di William James e del filosofo americano Stanley Cavell. James sosteneva che non si può fare a meno del proprio “temperamento” quando si fa filosofia: Putnam ne riprende l'affermazione dicendo che non dobbiamo trascendere “ciò che siamo”, ma dobbiamo prenderci la responsabilità del nostro “temperamento”.

    Putnam sembrava così giunto ad un certo equilibrio dopo il lungo e sofferto travaglio del realismo interno. Al contrario è riuscito ancora una volta a sorprendere con un'ulteriore nuova proposta (avente come conseguenza un forte ridimensionamento del realismo interno), presentata in Sense, Nonsense and the Senses (1994), centrata su un ripensamento radicale dell'idea di percezione. Secondo Putnam causa di molti problemi filosofici sarebbe la predominante immagine della percezione, nata con l'affermarsi del pensiero moderno e ancora in voga, anche grazie al suo diffuso impiego, spesso implicito, da parte delle emergenti “scienze cognitive”, basata sull'idea di un'interfaccia cognitiva (costituita dai “sense-data”) tra le menti e il mondo. Fornendo alle sue tesi il supporto decisivo delle idee di Austin e del filosofo di Pittsburgh John McDowell , e riconoscendo i suoi debiti nei confronti di James, Dewey e di un certo Aristotele (e ancora, per alcuni aspetti, di Wittgenstein), Putnam ritiene ora necessario il ritorno all'idea di percezione diretta, ovvero ad una concezione che rinunci all'idea di interfaccia ("realismo diretto” o “naturale”). Putnam esprime tale mutamento di atteggiamento parlando espressamente della necessità di una “seconda naivetè ” che permetterebbe di accostarsi al senso del mondo comune, anziché dissolverlo scetticamente come mera “proiezione” di una realtà naturale soggiacente (spesso intesa priva di senso, della quale darebbero testimonianza le scienze o una scienza fondamentale della quale ancora non disponiamo); oppure quale nozione incoerente, inutile, se non dannosa, come intesa da molti relativisti.

    Nota:

    [1] Su quale genere di dipendenza (concettuale, epistemica, ontologica) Putnam non è stato sempre chiaro. In alcuni scritti recenti Putnam esclude esplicitamente la dipendenza ontologica (almeno in un senso “forte” del termine ).

    introduzione
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  3. #3
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    Predefinito Re: Percezione e comunicazione

    Il vero e il falso sono propedeutici al giusto e all'ingiusto, quindi la lontananza dalla verità presuppone ci si soffermi sulla prima diarchia per poi procedere, senza salti. V'è da dire che gli antichi avevano ben chiara la distinzione tra aletheia e dikaiosyne/dike, tra veritas ed aequitas. Se la prima è l'epifania di ciò che è, fin lì, oscuro, la seconda si riferisce all'atto pratico, concreto. Mi piace ricordare Solone e la sua "bilancia dei pesi" per sottolineare la congruità del concetto di giustizia.
    Dopo Putnam, lasciamo l'ultima parola a Vattimo:
    La differenza fra "cosa in sé" e "fenomeno" è interessante perché é anche il principio della "critica". Fermarsi al "fenomeno" conclusivamente tale significa anche accettare le cose come sono. Ricordo sempre un verso di Bertolt Brecht: "Ciò che accade abitualmente non ritenetelo normale". È un avvertimento a non dare per "essere" tutto oro quel che luce, e a dire che ciò che ci si dà é sempre superficie di qualcos’altro. L’idea che la "cosa in sé" sia inconoscibile può persino aiutare la critica, nel senso della ricerca continua delle cause e degli effetti.

    Beh, una cosa buffa è che io mi sono iscritto a questo forum per distrarmi "bassamente" e le prime discettazioni filosofiche le ho avute obtorto collo con Troll, che ogni volta cercava di trascinarmi nell'agone dialettico e mi portava a dibattere di ciò di cui non mi premeva. Devo ammettere che, se questo era il suo intento, volontario o meno, sta riuscendo nella sua opera, perché non sono più così restio. Ma per me rimane sempre e solo divertissement.
    citazione di troll
    Il lettore trova già sufficienti motivi di riso nel tentativo disperato di fondare un'etica comunitaria su di una presunta "natura umana" che per ragioni mai chiarite dovrebbe servire da criterio normativo sovraordinato alla storia dei rapporti sociali che la contraddicono (come se le proteste della "coscienza infelice" di questo o quel tizio fossero un argomento)


    Ciao a tutti gli amanti della filosofia, vengo da forum filosofici, ne ho aperto uno con intenti sistematici.(da poco ne cerco anche una continuità in risposta al precariato che a lungo mi ha tenuto, mi tiene in scacco)
    Comunque alla fine effettivamente è sempre e solo divertissment. Questo è lo spirito! l:
    In questo forum, dopo anni di qualunquismo(mio) spero di trovare qualche ispirazione anche per un "politico filosofico".
    Noto che ad una rapida lettura i nazionalsocialisti dominano in lungo e largo e anche con arguzia (inusitata) :gratgrat:, d'altronde sono anche nei forum filosofici.:gratgrat:
    A sinistra il deserto iango:...intendo dire, che questo forum l'ho trovato dopo aver aperto un topic sulla ideologia.
    Topic aperto dopo aver visto la conferenza omonima presso la LUISS rintracciabile su youtube.
    In cui, per dirla in estrema sintesi, mi si son presentati filosofi che al liceo non si trattano, e che in teoria hanno portato avanti il pensiero di sinistra...
    Ecco spero tanto di trovare teorie interessanti e da sviluppare, non lo trovo così impossibile in un forum...anzi!
    Sopratutto se poi persone come lei mario rossi ne fanno oggetto di discussione, anche se come "premessa".


    Dopo la presentazione andiamo subito ai "lavori": ebbene sono d'accordo con lei, di fatto dovendone comuque trovare la comunicazione più esauriente possibile, ed essendo il lavoro in fieri.


    Proprio sul tema della equitas, si potrebbe inizare il lavoro.
    Quali autori greci? e in che "rilettura"? la mia traccia sarebbero i lavori di Focault.
    Lei ha già in mente altro? ha avuto letture illuminanti? a chi si riferisce? è d'accordo per un lavoro insieme?

    L'altro tema è quello lasciatoci in eredità dalla sinistra. Quali classi vi sono oggi? ha ancora senso parlarne?
    Di certo quali sono le false ideologie al di là dei sofismi gramsciani?


    Già sofismi...ecco che lei mi viene incontro, in realtà è da un pò di giorni che mi sono sciroppato il meraviglioso thread "oltre la logica".

    Mi sono permesso di citare alcuni passi, ovviamente per una critica (brecht-vattimo) politica che abbia "valenza", il concetto di dike è meglio lasciarlo stare.
    Ciò non toglie che come motivo esista, in questo mi sto convincendo kant potesse (può?) avere ragione: esiste un senso di giustizia a priori (x kant sì)? Questo tema neokantiano però non lo vedo ancora trattato nei forum.

    Ora lungi da me essere competente (non sono laureato, sono autodidatta anch'io): mi baso sulle intuizioni. (nel senso psicologico dato dal popolino).

    Lei affida le intuzioni della putnam (tra l'altro) ad una linea pregressa James, Dewey e di un certo Aristotele.

    Linea che poi sfocia con gli epigoni: Austin e il filosofo di Pittsburgh John McDowell.

    Non li conosco.

    Magari poi li approfondiamo (sicuramente).

    Di certo però io ci metto Peirce ed Hegel prima ancora.

    James fondamentalmente ha "rubato" una parte della filosofia di Peirce senza peraltro saperla padroneggiare e dando come esiti, quella corrente che è il neo-empirismo americano, e a cui alla fine la putnam si è liberata con fatica.
    Non le nascondo che lo scientismo potrebbe essere stato causato dalla cattiva lettura peirciana.

    La cosa mi semra "strana" visto i primi capitolo della semiotica cognitiva.
    Come strani mi sembrano gli esiti del filosofare hegeliano (troll ha ragione se le cose fossero così), e anche qui ho il serio dubbio che Hegel lo si è capito poco o niet'affatto.
    Infatti la fenomenolgia delle spirito inizia come quella di Peirce.
    Anche Aristotele inizia nella stessa maniera: ma mancandogli sistematicità ho dovuto abbandonarne la lettura dell'organon.

    Tutto questo è la rilettura della categorie kantiane.

    Ora esprimo una intuizione mia: è proprio kant il problema.

    Se io parto dai concetti universali a quelli particolari, è normale provocare un errore logico, che si risolve storicamente (nella storia del pensiero) nel valorizzare degli universali. Penso sia un problema di psicologia umana. Ovvero si scambia per deduzione ciò che invece è inferenza.

    Ma se deduco allora c'è qualcosa che viene prima...eccoci ai cortocircuti autoreferenziali, e alla necessità dell'unica verità.
    Il motore primo aristotelico: è senz'altro lui il problema su cui cascano in molti. In primis Heidegger e Severino (tutto da verifcare da parte mia). Non a caso Heidegger e Kant si basano sulle categorie aristoteliche.


    Ora applichiamolo al politico: se io parto da valori universali psicologisti alà gramsci il dibattito filosfico sta di nuovo nell'impasse.
    Temo e me ne sto rendendo conto mentre mi avvicino le cose stiano così.

    E' invece dal basso che bisogna partire: e cioè dal distinguere le categorie per inferenze (per prassi immagino) e non per idee superiori.
    La realtà è sempre in movimento, si tratta di ridefinirne le equitas o le volontà d'assieme(faccio felici i liberal).

    Va bene attendo risposta e intanto cerco di trovare la sinistra non gramsciana nel forum...iango:

  4. #4
    Sessantottino radicalchic
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    Predefinito Re: Percezione e comunicazione

    Citazione Originariamente Scritto da baol ontologico Visualizza Messaggio
    Lei affida le intuzioni della putnam (tra l'altro) ad una linea pregressa James, Dewey e di un certo Aristotele.

    Linea che poi sfocia con gli epigoni: Austin e il filosofo di Pittsburgh John McDowell.

    Non li conosco.
    Non riesco assolutamente - per mia mancanza, certo - a cogliere il legame, almeno riguardo la percezione, tra Aristotele (che conosco) e Putnam.


    Citazione Originariamente Scritto da baol ontologico Visualizza Messaggio
    Ora esprimo una intuizione mia: è proprio kant il problema.

    Se io parto dai concetti universali a quelli particolari, è normale provocare un errore logico, che si risolve storicamente (nella storia del pensiero) nel valorizzare degli universali. Penso sia un problema di psicologia umana. Ovvero si scambia per deduzione ciò che invece è inferenza.

    Ma se deduco allora c'è qualcosa che viene prima...eccoci ai cortocircuti autoreferenziali, e alla necessità dell'unica verità.
    Il motore primo aristotelico: è senz'altro lui il problema su cui cascano in molti. In primis Heidegger e Severino (tutto da verifcare da parte mia). Non a caso Heidegger e Kant si basano sulle categorie aristoteliche.
    Non ricordo nemmeno di aver mai letto qualcosa di Kant specificamente prossimo a quanto portato da Putnam sulla percezione. Severino, invece, è il Carneade (per me) che esce ed entra continuamente dalle e nelle discussioni filosofiche amatoriali.
    "Io non intendo sostenere una moralità basata sull'evoluzione: dico come le cose si sono evolute e non come noi esseri umani dovremmo comportarci.", Richard Dawkins

  5. #5
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    Predefinito Re: Percezione e comunicazione

    Citazione Originariamente Scritto da Mario Rossi Visualizza Messaggio
    Scrive Putnam che la percezione del mondo è immediata per definizione. Ora, la percezione può essere vera o falsa, ma resta immediata. Invece la comunicazione è mediazione, ciò che dico a voi è un processo di ricezione mediata da tanti fattori, e come tale non arriva mai integro, nella sua entità originale. Io ritengo che lo iato tra percezione e comunicazione sia sintomatico della più grande cesura tra soggettivo ed oggettivo. Voi, o lettori di questa brevissima riflessione, cosa ne pensate?
    anche per aristotele e kant la percezione è immediata.

    la differenza con peirce è che la percezione può essere reale o potenziale, non introduce la categoria di falso, che sennò porterebbe all'esistenza di qualcosa di fantasmatico, e richiamerebbe il cattivo genio cartesiano che ci fà percepire immediatamente un mondo "diverso" ma non reale.
    (cartesio lo risolve affidando a Dio la "garanzia" del pensato/oggetto)

    Anche Severino riflette di questo ribaltamento della nostra visione dualistica, non lo direi per nulla un carneade.

    Non so se Putnam sia così preciso, d'altronde è evidente che attinge dalla tradizione continentale.

    Comunque senza raggiungere le vette severniane e stando nel mondo in divenire sono d'accordo nel vedere che la comunicazione è la stessa essenza dei molti fraintendimenti filosofici e quotidiani.

 

 

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