“Da tempo si è mostrato che il valore economico della protezione consentita dagli incentivi al meridione è inferiore a quello della protezione doganale al cui riparo è sorta l’industria delle regioni nord-occidentali del Paese. E notisi che quella industria ha fruito di altri benefici: i profitti straordinari consentiti dalle commesse belliche conseguenti alle due grandi guerre e poi il pratico annullamento dei debiti delle imprese reso possibile dalle due inflazioni postbelliche. E ciò non è neppure bastato: per il sostegno del sistema industriale che si andava formando sono infatti occorsi anche i ripetuti salvataggi industriali effettuati nel ventennio tra le due guerre, un tipo di intervento che è poi continuato anche dopo l’ultima guerra, con un ritmo e per entità che non trovano esempi nel resto del mondo occidentale. A fronte di questa vicenda si collocano i 1.100 miliardi, in lire 1972, di contributi in conto capitale impegnati e ancora in parte non erogati all’industria meridionale a tutto il 1974. Si tratta di un importo probabilmente minore dei sopraprofitti di una sola delle due guerre conseguiti dalle industrie del triangolo; lo stesso può dirsi per ciascuna delle due inflazioni belliche di cui hanno beneficiato gli investitori in impianti industriali del tempo che, come era normale, si fossero largamente finanziati con prestiti bancari. Non vi è modo ovviamente di procedere a valutazioni anche approssimate di tali benefici. Questa possibilità esiste però nei riguardi dei salvataggi bancari: la perdita assunta dallo Stato a seguito dei salvataggi bancari effettuati dopo la prima guerra mondiale fino all’operazione di risanamento effettuata dall’IRI nel 1934 è stata valutata in 10,5 miliardi del tempo, importo che si può far corrispondere a 1.400 miliardi del 1972. I contributi in conto capitale dati all’industria meridionale durante tutto l’intervento straordinario, ammontanti come detto sopra a 1.100 miliardi, sono dunque inferiori al costo dei soli salvataggi bancari, un costo, notisi, sopportato da una economia italiana certo molto più povera di quella odierna.
Pur non potendo stimare le quantità, di certo non è stato solo il Mezzogiorno ad usufruire dell’intervento pubblico per l’industrializzazione.4 L’area del Nord Ovest fu, fino agli anni ‘60 del secolo scorso, l’unica in cui ci fosse una notevole presenza del settore secondario. Per questo motivo fu l’unica area che poté godere di tutte le politiche di incentivi e protezione doganale. E di certo gli interventi a favore dell’industria padana non cessarono con l’avvio della politica di intervento del Mezzogiorno. Per poterlo affermare serenamente è sufficiente contare tutte le volte in cui si è evitato il fallimento della FIAT.
Il condizionamento della classe imprenditoriale del Nord delle scelte di intervento per lo sviluppo del Mezzogiorno ha comportato una distorsione della natura dello stesso tale da apportare, nel lungo periodo, maggiori vantaggi al Nord rispetto al Sud.
La SVIMEZ, già nelle stime preliminari relative alla fase di preindustrializzazione, aveva previsto che gli effetti dell’intervento, così come definiti, sarebbero stati maggiormente favorevoli per il Nord.
“La Svimez, applicando la teoria del moltiplicatore agli investimenti previsti per il primo biennio, era giunta alla conclusione che la spesa della Cassa avrebbe generato una domanda di beni di investimento e di consumo pari al 69% del suo ammontare; sarebbe avvenuta la localizzazione al Nord del 55% dei consumi, del 118% dei risparmi, del 51% dei tributi (indiceSud=100). L’incremento del reddito sarebbe stato più alto al Sud solo nel primo ciclo, mentre già al quinto ciclo sarebbe stato più alto al Nord”
Questa fase che ha determinato la creazione di un mercato di consumo nel Mezzogiorno il quale, unito alla emigrazione di massa, legata sostanzialmente allo spopolamento delle zone rurali, fece da traino al “miracolo economico verificatosi nel Centro - Nord nel decennio successivo. Le politiche della prima fase di intervento, infatti, furono collocate nell’ottica dell’urbanizzazione dell’area e dell’abbandono delle campagne al fine di colmare lo squilibrio esistente nel mercato del lavoro. E poco importava la totale assenza di industrie nei centri urbani. Il fine dell’intervento era il raggiungimento della piena occupazione, che si poteva realizzare in entrambe le aree che formavano l’economia dualistica attraverso l’emigrazione di massa. Pur non volendo enfatizzarne il ruolo si può affermare che il vero miracolo del Nord sia stato l’istituzione della Cassa.
Ma non è tutto. Le opere pubbliche, piccole o grandi che siano, devono essere realizzate da imprese private. E di certo le opere di preindustrializzazione del Mezzogiorno non erano realizzabili da imprese locali, semplicemente perché esse non esistevano.
Gli investimenti infrastrutturali nel Mezzogiorno, quindi, rappresentarono una ghiotta occasione di crescita per le imprese del Nord le quali, oltretutto, ebbero la possibilità di ottenere i finanziamenti senza gara d’appalto. L’eccesso di discrezionalità da parte della Pubblica Amministrazione, a queste condizioni, appare evidente. Esse avevano la possibilità di scegliere arbitrariamente l’importo da erogare, le imprese appaltatrici e la localizzazione delle infrastrutture. Ciò ha comportato la nascita di opere inutili, quando completate, a costi abnormi e localizzate in ragione di convenienza politica, utili solo alle imprese ed al tessuto economico del nord.
Il miracolo economico del secondo dopoguerra fu anche dovuto al contributo, interno ed esterno, dei lavoratori meridionali. Contributo interno: le industrie avevano bisogno di manodopera e tanta parte fu fornita dal Sud attraverso l’emigrazione interna. Primo contributo esterno: per funzionare, le industrie avevano bisogno di carbone e fu a tal riguardo decisivo il contributo dell’emigrazione in Belgio, in gran parte meridionale; infatti, fu stipulato un accordo tra Belgio e Italia: per ogni 1000 operai italiani che lavoravano nelle miniere, il Belgio si impegnava ad esportare in Italia 2500 tonnellate di carbone al mese. Secondo contributo esterno: il massiccio flusso migratorio in Europa alimentò con le rimesse in valuta il mercato meridionale, che svolse un ruolo decisivo per il decollo dell’industria settentrionale.
Per gli anni dal 1996 al 2009 le spese in conto capitale sono state contabilizzate dal Dipartimento del Tesoro per adempiere ad obblighi a livello europeo. Da esse risulta che la spesa per investimenti e incentivi è stata in media del 2,78% del PIL nel Centro - Nord e dell’1,13% del PIL nel Mezzogiorno. In proporzione la spesa è stata del 29% nel Mezzogiorno e del 71% nel Centro - Nord. Volendo mantenere le stesse proporzioni per il periodo dell’intervento straordinario, si può assumere che nel Centro - Nord la spesa sia stata in media del 2,5% del PIL.
La leggenda fiscale
l Mezzogiorno anche subito dopo l’unità veniva incolpato di tutto. Una leggenda corrente all’epoca riguardava il livello della tassazione. Il Sud, si diceva, paga poche tasse e vive alle spalle del Nord. Si diceva cosí, ma nessuno aveva chiesto il parere a carta e lapis (non c’era ancora la calcolatrice). Questo parere decise di chiederlo Nitti. Ed appurò, come anche altri, che le cose stavano alla rovescia. Il Sud, in proporzione alla sua ricchezza, pagava piú del Nord, non meno. La parte povera del paese era fiscalmente gravata piú della parte ricca ed in piú doveva sopportare la nomea dello scroccone di casa. Fortunato riconosceva non esserci piú “dubbio, dopo le sicure analisi e i minuti raffronti della grande indagine statistica, compiuta dal Nitti: il Mezzogiorno, comparativamente alla sua ricchezza, sopporta un onere tributario assai maggiore di quello che grava l’alta e la media Italia” . La sperequazione venne documentata e ribadita anche da Salvemini: “l’Alta Italia –diceva lo storico pugliese- possiede il 48% della ricchezza totale e paga meno del 40% del carico tributario; l’Italia media possiede il 25 % e paga il 28%; l’Italia meridionale possiede il 27% e paga il 32%. Nel dare, il Meridione è all’avanguardia, nel ricevere è alla retroguardia”
Agli storici è noto che dopo l’Unità la maggior parte delle tasse del Sud faceva un viaggio di sola andata, ossia non ritornava al Sud sotto forma di investimenti pubblici: lo Stato spendeva mediamente 50 lire per ogni cittadino del Nord e 15 lire per ognuno del Sud.
Tante volte si è quindi impropriamente potuto parlare di fiumi di denaro destinati al Sud: si trattava di denaro che il Sud in realtà non ha mai visto. Un fenomeno clamoroso, da questo punto di vista, è stata la spesa nominalmente straordinaria che diventava sostitutiva di quella ordinaria. A tale proposito l’economista Gianfranco Viesti mette bene in evidenza lo scarto tra cifre nominali e cifre effettivamente fruite dal Mezzogiorno quando afferma che spesso la “spesa ‘straordinaria’ sostituiva la spesa ordinaria: nelle regioni del Sud venivano realizzati, con l’ausilio delle risorse straordinarie della Cassa, strade e ferrovie, impianti elettrici e di telecomunicazioni, che l’ANAS, le Ferrovie dello Stato, l’ENEL e la SIP effettuavano nel resto del paese con le loro risorse ordinarie”. Il Sud, dunque, finiva spesso per avere somme “straordinarie” gonfiate di aria fritta.
Data la propaganda fatta sulle cifre “straordinarie”, però, “l’opinione pubblica del Nord si convince che colossali risorse sono utilizzate (e in gran parte sprecate) nel Mezzogiorno”. “Eppure – scrive De Rosa- l’intervento straordinario, come dimostrò lo stesso Saraceno, non era costato allo Stato italiano piú dello 0,50 % del reddi-to nazionale: quasi niente, rispetto a quanto erano costati all’Italia lo sviluppo e la preservazione dell’industria centro- settentrionale” (che ovviamente è interesse e patrimonio nazionale, come interesse e patrimonio nazionale dovrebbe essere lo sviluppo del Sud).
Un altro dato, non certamente marginale ai fini di un discorso di equità e di sviluppo: fino al 1961 (nazionalizzazione dell’energia elettrica) il Sud ha pagato tariffe elettriche “piú onerose” . Ma il Sud, come dice la vulgata dei nordici, non paga meno tasse del Nord? Per il passato, dati alla mano, Nitti ha dimostrato quanto fosse lontana dalla realtà questa convinzione. Ed oggi? Idem.
Oggi Bossi e sodali hanno forse ragione sulle tasse? Il Sud paga forse meno del Nord? Se cosí fosse, dato che è la parte meno sviluppata del paese, sarebbe normale. Ma i dati che si possono reperire tranquillamente, e doviziosamente forniti da Viesti, conducono alle stesse conclusioni a cui giunsero ieri Nitti ed altri studiosi. Il Mezzogiorno, in altri termini, dovrebbe in proporzione pagare di meno e invece paga di piú: “Fra il 1996 e il 2006 le entrate fiscali pro capite al Sud sono cresciute del 56,4% e nel Centro- Nord del 36,4%, pur in presenza di una crescita economica grosso modo simile fra le due aree”. Come si spiega? “Con meno risorse disponibili –dice Viesti- enti locali e Regioni del Sud hanno utilizzato la propria capacità di imposizione fiscale. L’addizionale IRPEF in media è dell’1,23% al Sud e dell’1,03 al Nord; la leva fiscale dei Comuni dell’81,1% al Sud e del 69,1% al Nord. [In definitiva] i cittadini delle regioni piú povere (e con meno servizi pubblici), a parità di reddito, pagano piú tasse”.
D’accordo, pagano piú tasse; però – si potrebbe pensare- introitano bastimenti di trasferimenti pubblici che derivano da tasse pagate da altre regioni.
“Nel 2006 le spese per investimenti pubblici sono ammontate a 58,3 miliardi di euro nel Centro-Nord (72% del totale) e a 16,3 miliardi di euro nel Mezzogiorno. Nella media 2000-2006 gli investimenti pubblici pro capite sono stati 680 euro al Sud e 946 euro al Centro-Nord, con uno scarto che si è significativamente ampliato nel tempo”
Per concludere, pur senza avere esaurito l’argomento, andiamo a verificare la spesa corrente. È almeno lí che il Sud ottiene di piú? “Il cittadino del Sud – riporta Viesti, riferendosi ai luoghi comuni- riceve troppo rispetto a quanto riceve un cittadino del Nord. Questa ipotesi, di senso comune in Italia e su cui moltissimi, indipendentemente dalla latitudine a cui vivono si sentirebbero di convenire, è perfettamente verificabile. Ma, sorpresa, è falsa. Nel 2006 la spesa pubblica pro capite è stata in Italia pari a 14.141 euro. Il valore sale a 15.719 euro nel Centro-Nord e scende a 11.253 nelle otto regioni del Mezzogiorno. Dunque, un cittadino del Sud, in media, beneficia di una spesa pubblica corrente del 28% inferiore rispetto a un cittadino del Centro-Nord. Tale scarto è rimasto costante nel corso degli anni: quello che vale per il 2006 vale anche per gli anni precedenti”. Questo quadro di dati smentisce la vulgata nordica circa la questione del Meridione e ribadisce il concetto del Mezzogiorno come questione nazionale.
A proposito, sapevate che l’espressione “miracolo economico” fu coniata da una giornalista di The Economist che trovò lo sviluppo del Centro - Nord inspiegabile?
Sergente Romano