Di Fabio Falchi


E’ ancora incerto se per salvare l’Europa si dovrà salvare l’euro o se per salvare l’euro si distruggerà l’Europa. Quello che è invece è certo è che Eurolandia, sia giunta stazione dopo stazione, per così dire, al capolinea, benché non sia facile ammetterlo, dato che coloro che dovrebbero salvare l’Europa sono proprio quelli che hanno creato le condizioni perché il Vecchio Continente diventasse il bersaglio della speculazione internazionale, cioè di quei “mercati finanziari” e di quelle agenzie di rating il cui “centro” geopolitico è, e non può non essere, Oltreoceano. Perciò è naturale che si preferisca criticare solo la classe politica (certamente inetta e corrotta), in quanto incapace di adeguare la struttura sociale alla cosiddetta “globalizzazione” – quasi che quest’ultima fosse un processo automatico, senza alcun “soggetto politico”, mentre il “si” impersonale (“si” modernizza o “si” globalizza) di fatto designa l’agire di una volontà di potenza o di diverse volontà di potenza in conflitto tra di loro.
Se lo si dovesse riconoscere, verrebbe però meno quella concezione tecnocratica, apparentemente saggia, secondo cui la “buona politica” è essenzialmente buona amministrazione, giacché nulla è “assolutamente neutrale”, nemmeno l’innovazione tecnologica, essendo anch’essa incastonata, di necessità, in un preciso sistema di potere, in una totalità sociale che conferisce sempre un determinato senso e un determinato valore alle singoli parti (individui, gruppi, associazioni, istituzioni, tecniche, saperi e così via) di cui si compone. Ed è compito della funzione politica saper far valere una logica dell’intero tale da imporre ad una molteplicità di interessi in continuo conflitto tra di loro una particolare forma ed un particolare orientamento. In altri termini, contro i dogmi del liberismo, laddove sembra prevalere una logica di mercato, in realtà vi è “la mano invisibile” della politica che coordina, controlla, premia e punisce.
Questo non significa che sia necessariamente il sistema politico a “decidere”. Anzi, ormai sempre più determinante è il ruolo di attori non politici: enti e organizzazioni “sovranazionali”, gruppi finanziari, think-tank, organizzazioni non governative e così via.
Sono questi “soggetti” i veri strateghi del capitale. Tuttavia, nulla o ben poco potrebbero se non controllassero i gangli vitali dello Stato capitalistico dominante. E’ qui che “prende forma” la politica di potenza del capitalismo occidentale e che si disegnano gli scenari strategici del futuro. Senza gli apparati coercitivi e senza la proiezione di potenza a livello globale di uno Stato i cosiddetti “mercati” non sarebbero altro che tigri di carta. Non a caso gli Stati Uniti sono ancora il “centro regolatore” di quel sistema occidentale che una miriade di intellettuali europei – “convertitisi” alla ideologia liberista, dopo l’ubriacatura (pseudo)marxista degli anni Settanta – consideravano, fino a qualche anno fa, prossimo a trionfare in ogni angolo della terra e che invece oggi si trova ad affrontare una crisi strutturale, che esso stesso ha generato, vuoi sotto l’aspetto economico (e finanziario) vuoi sotto quello geopolitico.
Infatti, al fallimento, sul piano sociale ed economico, del turbocapitalismo si deve aggiungere quello dell’unipolarismo americano, anche per la comparsa sullo scacchiere internazionale di attori geopolitici quali i Brics o la Sco. Inoltre, è innegabile – ed è quello che qui ci preme evidenziare – che non vi sia nessuna geopolitica europea degna di questo nome, con un’Inghilterra e una Francia che pur di contare di più nel “club atlantista”, subito dopo aver promosso una guerra di aggressione contro la Libia, fomentano odio e discordia perfino in Siria, al fine di favorire gli interessi dei gruppi atlantisti, di Israele e delle petromonarchie del Golfo, in un’ottica neocolonialista così miope da penalizzare addirittura gli stessi europei. Ed è appunto la mancanza di una autentica strategia europea a far sì che non vi siano quelle condizioni che permetterebbero ai Paesi europei di trarre profitto dalla nascita di un nuovo paradigma geopolitico (senza lasciarsi ostacolare dagli Usa, che usano i “diritti umani” e le sanzioni come una grimaldello per “scardinare” quegli Stati che si contrappongono ai disegni di egemonia mondiale della talassocrazia statunitense o all’aberrante colonialismo di Israele).
Unica eccezione, sotto certi aspetti, la Germania, la cui forza economica è forse sopravvalutata, ma che ha saputo interpretare al meglio questa nuova fase storica, al punto che alcuni la definiscono – forzando, ma non molto – il sesto membro del gruppo dei BRICS. D’altra parte anche la Germania pare solo preoccupata di difendere la propria posizione geoeconomica, anziché rischiare di essere il motore di una vera politica continentale. Politica che oggi non potrebbe che essere a tutto vantaggio di quei popoli e quei Paesi che cercano di liberarsi dal giogo della globalizzazione made in Usa, non essendoci per l’Europa altro “spazio geopolitico” se non quello che può derivare da una alternativa multipolare fondata sul reciproco riconoscimento e sugli scambi (non solo economici) tra diversi “poli”, politici, economici e culturali.
Di conseguenza, non vi può essere alcuna “soluzione tecnica” della questione europea. E (purtroppo) la migliore conferma di ciò è la situazione del nostro Paese: l’Italia è con le spalle al muro e con un pugnale puntato alla gola. Rebus sic stantibus, uscire dall’euro – ammesso che sia possibile – non sembra (si badi, non “sembra”) essere una soluzione, poiché, fino a quando il sistema finanziario internazionale sarà imperniato sulla egemonia dei (petro)dollari, la finanza angloamericana potrà massacrare un Paese come l’Italia nel giro di qualche settimana. Questo è il nodo da sciogliere. E oggi nessun Paese che non abbia dimensioni continentali può essere in grado di resistere a “pressioni esterne” (cosa che vale pure per la Germania, figuriamoci per l’Italia!). Al tempo stesso è innegabile che Eurolandia (e “questa” Unione Europea) sia una camicia di Nesso, per buona parte degli europei.
Posto quindi che il vero problema sia quello non di salvare l’Europa dei tecnocrati o l’euro dei banchieri, bensì gli europei, occorrerebbe battersi per una sorta di indipendenza continentale, la quale però – anche se può apparire un paradosso – si potrebbe ottenere soltanto rafforzando l’indipendenza dei singoli Paesi, rispetto ai “mercati” e alla potenza d’Oltreoceano. Un obiettivo difficilissimo da raggiungere, ma non impossibile, tenendo presente che una delle principali ragioni della fragilità dell’Europa è la mancanza di una difesa europea nettamente distinta dalla Nato; ma soprattutto che il compito di una struttura sovranazionale europea dovrebbe essere essenzialmente quello di consentire a ciascun Paese europeo di poter esercitare la sovranità nazionale, secondo i limiti e le forme di una prospettiva condivisa (quindi non “dettata” dai “mercati” ma, al contrario, dalla necessità di difendersi da un “nemico” comune, ovvero dagli stessi “mercati”). Allora, considerando pure che esistono aree europee con caratteristiche peculiari (come, ad esempio, l’area mediterranea e quella baltica), probabilmente anche il problema dell’euro troverebbe soluzione(1).
Insomma, la vera sfida per l’Europa è quella che concerne la possibilità di svolgere una politica che si potrebbe correttamente designare come “sovranista”, sia a livello nazionale che a livello continentale (dato che è improbabile che si possa abbandonare definitivamente un progetto di “unione europea”). Essenziale è proprio la tutela delle singole identità nazionali (presupposto indispensabile per la difesa di qualsiasi altra comunità), onde impedire che vengano dissolte nel “mercato globale”. Il che, in sostanza, equivale ad opporre l’Europa delle nazioni contro l’Europa dei mercanti: la prima essendo (in potenza) un grande spazio geopolitico e la seconda nient’altro che uno “zombi geopolitico”, un organismo eterodiretto senza anima né vita (e ciò, al di là di ogni altra considerazione, mostra il limite della tecnologia sociale, la sua costitutiva incapacità di “rendere conto” della complessità culturale e sociale – o, se si preferisce, del “sostrato antropologico” – che è a fondamento dei conflitti politici).
In definitiva, è questa la “guerra” che si sta combattendo, anche se gli europei, tranne poche eccezioni, non ne sono consapevoli – una lotta politica il cui esito non è affatto scontato, come invece si potrebbe credere, sebbene si possa ritenere che “si deciderà” in Europa, ossia che gli europei saranno arbitri del proprio destino. E, benché il male americano sia esteso e profondamente radicato (e non solo in Europa), col passare del tempo la “presa” della storia del Novecento sulle nuove generazioni dovrebbe essere più debole, consentendo ai giovani meno ottusi e meno americanizzati non solo di capire meglio lo stesso Novecento alla luce delle sfide del secolo che è appena cominciato, ma (forse) anche di essere più liberi di esprimere la propria immaginazione politica e sociale.
Comunque sia, se ci si vuole realmente contrapporre alla volontà di potenza dei “mercati”, si dovrebbe evitare di cadere di nuovo nell’errore di pensare che l’unica via di uscita per gli europei consista nel “tecnicismo” o nell’economicismo e, piuttosto che fermarsi ad analizzare la grammatica di superficie della crisi che affligge Eurolandia (giacché è ovvio che “mercati” è termine che può anche denotare differenti e perfino opposti interessi), si dovrebbe cercare di comprenderne la struttura profonda. Vale a dire che sarebbe necessario prendere atto, indipendentemente dal degrado dell’attuale sistema politico (un degrado che, in primo luogo, concerne una politica “ridotta” a partitocrazia, a parlamentarismo e lobbismo), che solo il Politico (cioè la funzione politica) può conquistare quell’iniziativa strategica senza la quale si è destinati a subire, volenti o nolenti, la politica di prepotenza degli strateghi atlantisti del capitalismo finanziario.

Regolamento di conti: la questione europea e il male americano - Stato & Potenza