È certamente colpa mia, ma non ho capito perché, alle prossime elezioni politiche, Silvio Berlusconi si ricandidi capo del governo; a diciotto anni dalla prima discesa in campo e dopo aver occupato a lungo la scena politica promettendo riforme che poi non ha fatto.
La sua candidatura, priva anche solo della parvenza di un programma politico, mi pare, piuttosto, paradigmatica della condizione in cui versa il Paese. Un
governo tecnico che va avanti per forza d'inerzia (indotta dalla Germania). Quando il presidente del Consiglio parla - mai coi toni del leader; sempre con quello (freddo e burocratico) di una relazione a un convegno di accademici - pare persino, dietro gli accenti pedagogici e le promesse incoraggianti, di avvertirne l'eco: «Protocollo n. 465...». I
due partiti maggiori, il Popolo della libertà e il Partito democratico, allo sbando: privi di identità culturale, oltre che politica e organizzativa; terrorizzati di andare alle elezioni e tentati di rinviarle a tempo indeterminato; appiattiti sul governo tecnico e prosternati al presidente della Repubblica, vero capo dell'esecutivo, condannato a recitare un ruolo di supplenza politica a dispetto delle sue stesse prerogative costituzionali. I partiti minori - un'Armata Brancaleone, capeggiata da personaggi d'uno squallore pari solo al ridicolo delle loro comparsate televisive - preoccupati unicamente di cogliere i sintomi del populismo crescente in un'opinione pubblica incolta e frastornata che, fino a novembre dell'anno scorso (nascita del governo Monti), si riteneva la più democratica del mondo e, ora, teme che le elezioni le vincano «gli altri», nella convinzione che la democrazia ci sia (solo) quando le vincono «i nostri», o governano i tecnici che sollevano elettori e eletti dalla responsabilità di scegliere. Media incapaci di assolvere alla propria funzione in una democrazia liberale - legittimare l'Ordinamento esistente; fornire contemporaneamente al cittadino gli strumenti critici per cambiare la politica corrente - subalterni allo status quo, restii a esercitare il benché minimo stimolo culturale, prima che politico, nei confronti del governo e dei partiti. È in questo clima che il Cavaliere si ripresenta. Per fare che cosa? Si direbbe per ricompattare il suo partito (il Pdl), secondo lo schema classico del «capo carismatico» - il solo che, del resto, lui conosca: il «rapporto d'impresa» fra dipendenti e direzione nella (confusa) realizzazione di un (generico) obiettivo individuato dal leader - che, con la sua presenza, assicura unità di intenti e successo. Diciamo, allora, che Berlusconi si propone, innanzi tutto, di ricostituire e (ri)mobilitare un gruppo disperso e, in secondo luogo, di infondere energia ai singoli membri del gruppo stesso proponendo nuovi obiettivi o riaccendendo in loro l'attaccamento ai valori tradizionali (Paolo Martelli: «Analisi delle istituzioni politiche», Giappichelli editore, Torino).
È un'operazione di marketing alla quale, ahimè, manca il prodotto da lanciare e il mercato sul quale venderlo. È pur vero che, almeno a suo dire, a incoraggiarlo sarebbero i sondaggi favorevoli.
Ma pesano sull'impresa sia una «unità di intenti» del gruppo tutta da verificare, sia la vacuità dei valori tradizionali, logorati dalla loro passata, e sterile, ripetitività, nonché dei nuovi, e indefiniti, obiettivi. La verità è che Berlusconi - concentrato su se stesso e sui propri interessi - non è riuscito, in diciotto anni, a fornire una rappresentanza al ceto medio; che la sinistra non è ideologicamente in grado di tutelare, anche se in forme politiche diverse, come accade, nell'alternanza al potere con la destra, nei Paesi di più matura democrazia. Raccoglierà certamente i consensi di un elettorato di bocca buona e che farà di necessità virtù (battere la sinistra), ma altrettanto certamente pare, ancora una volta, incapace di costruire quel modello di «società aperta» che il compromesso costituzionale e la cultura egemone ignorano, una parte del Paese attende dalla nascita della Repubblica e si era illuso di vedere realizzato con la sua discesa in campo.
In definitiva, (anche) come «capo carismatico», Berlusconi ha fatto il suo tempo e - dopo aver disperso un patrimonio di consensi e aver persino smentito, da politico, la propria fama di imprenditore intelligente e capace - è francamente poco credibile. Non gli mancano né l'inventiva e l'immaginazione per trovare (sempre) nuove formule, peraltro più da proporre per sparigliare le carte degli altri che da concretare, poi, in proprio; né la volontà e la determinazione nel far fronte alle avversità; ma non è stato l'uomo politico, nell'accezione riformista con la quale si era proposto nel '94, né è quello del quale ci sarebbe bisogno nell'attuale, difficile, situazione del Paese.
Il reduce da una guerra persa. È un uomo dei tempi televisivi: dell'apparire, non dell'essere; un «venditore» di miti elettorali, non di contenuti politici; una contrapposizione di maniera, e persino di comodo, a una sinistra vecchia e reazionaria.
Dubito riesca a realizzare anche solo i (modesti) propositi che si attribuisce, ammesso, e non concesso, siano tali. Non suggerisco di non votarlo - ciascuno fa ciò che crede - ma consiglierei di non concedergli troppo credito e di non farsi troppe illusioni. Una volta va bene, due anche, tre volte il troppo stroppia.
Piero Ostellino