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    Predefinito BIBLIOTECA SOCIALISTA NAZIONALE

    Propongo un post sticky che c'è anche in altri gruppi PIR.

    Da un pò di anni sto curando questa biblioteca virtuale (cliccare sulle lettere)

    CENTRO STUDI "CURSUS HONORUM"

    Che ne direste di continuare anche qui ?

    Ovviamente postare soltanto solo PDF e solo libri fuori COPYRIGHT.
    (in ogni lingua).

    Lo scopo sarebbe quello di "salvare" libri rari.

  2. #2
    Roma caput mundi
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    Predefinito Re: BIBLIOTECA SOCIALISTA NAZIONALE

    Condivido il thread aperto da Etrusco e credo che meriti il rilievo (invito che rivolgo ai moderatori)

    Intanto comincio a inserire qualche libro utile.
    "Non discutere mai con un idiota: ti trascina al suo livello e ti batte con l'esperienza" (firma valida per tutte le stagioni)

  3. #3
    Roma caput mundi
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    Predefinito Re: BIBLIOTECA SOCIALISTA NAZIONALE





    Paolo Buchignani
    Fascisti Rossi. Da Salò al PCI, la storia sconosciuta di una migrazione politica. 1943 -1945
    Mondadori "Le scie", Milano 1998, pp. 316, lire 32.000



    (…) lucidissimo profeta di ciò che rappresenterà il MSI nella storia politica dell'Italia repubblicana, ovvero la ruota di scorta della DC e il serbatoio segreto del Ministero dell'Interno, delle Forze Armate e della CIA (…)



    Paolo Buchignani (cl. 1953), toscano, è uno storico il cui campo d'azione principale è la cultura italiana del ‘900. I Lettori forse già conosceranno le sue altre due opere importanti, ovvero “Un fascismo impossibile. L'eresia di Berto Ricci nella cultura del Ventennio” e “Marcello Gallian. La battaglia anti*borghese di un fascista anarchico”. Sono due opere a loro modo «coraggiose» in un panorama editoriale e «culturale» come quello italiano, dove sino a pochissimi anni or sono ‑ed in parte anche oggi‑ qualsiasi indagine storica relativa al ventennio fascista ed alla guerra civile che non fosse puramente e ferocemente denigratoria e calunniosa veniva osteggiata o, nel caso migliore, ignorata.

    Ricci e Gallian furono due fascisti anomali per l'immaginario collettivo della republichetta democratica italiota ma non certo per gli autentici nazionalrivoluzionari, che anzi vedono in loro ‑fra tanti altri, del resto‑ il volto più somigliante a quello che avrebbe dovuto avere il Fascismo autentico. E se con Ricci e Gallian il Buchignani esplora il terreno a lui più congeniale, ovvero quello delle avanguardie artistiche e degli ambienti intellettuali che negli anni tra le due guerre tentarono di fare del Fascismo uno strumento di rottura dell'asfittica società liberal-borghese che ancora prosperava, con questo suo terzo libro, anch'esso «coraggioso», illumina invece una «storia sconosciuta» (come recita il sottotitolo) dell'immediato dopoguerra, in una Italia ancora insanguinata e devastata; e questa volta si tratta di una vicenda squisitamente politica e tenuta pressochè segreta per cinquanta anni.

    Nel maggio 1947 fa la sua apparizione, a Roma, il primo numero della rivista “Il pensiero nazionale" diretta da tale Stanis Ruinas, pseudonimo di Giovanni De Rosas, nato nel 1899 ad Usini (SS) e morto nel 1984 a Roma, rivista che sopravviverà, sempre diretta da De Rosas-Ruinas, sino al luglio 1977. Di famiglia proletaria, Ruinas si trasferisce in gioventù a Roma ove aderisce al Fascismo ed inizia una spumeggiante attività di giornalista e pubblicista, scrivendo su vari giornali e riviste. Intransigentemente repubblicano, antiborghese ed anticapitalista, anticlericale (ma non comunque anticristiano) ed imbevuto, come era allora invalso, della «mistica» risorgimentale, laica, mazziniana e garibaldina, fu anche direttore di testate locali in Toscana ed Emilia senza perdere l'occasione di scontrarsi con le gerarchie del PNF (da cui fu espulso e poi reintegrato un paio di volte); fu anche corrispondente di guerra in Africa Orientale e in Spagna, poi in Nord Africa nel 1940 e successivamente a Berlino con incarichi di assistenza alla comunità italiana in Germania. Dopo l'onta dell'otto settembre aderì alla RSI e ricoprì anche, a Venezia, alti incarichi nella pubblica amministrazione. Con la fine della guerra, e dopo un breve periodo di detenzione, ritorna a Roma, in una Italia occupata dalle truppe americane e dove la reazione borghese si appresta a ridisegnare la mappa degli equilibri politici all'ombra degli USA. Ed è in questo preciso frangente storico che vede la luce "Il pensiero nazionale", nel quale si raggruppano, nelle povere stanze di una redazione di fortuna, tutta una teoria di personaggi reduci dalla RSI nella quale (ma ancor prima del ventennio) avevano incarnato l'istanza rivoluzionaria ed anticapitalistica del primo fascismo, combattenti che, fedeli innanzitutto alla più pura essenza politico‑sociale del pensiero mussoliniano, avevano dovuto combattere non soltanto contro i nemici esterni ma forse soprattutto contro quelli interni annidati nei centri di potere non solo del fascismo «savoiardo» ma anche di quello «erresseista», ovvero di quelle forze che trasformarono sin da subito il fascismo in una maschera di se stesso e che, nel tentativo di palingenesi della Repubblica Sociale lavorarono ancora «contro» (o almeno questa è la convinzione di Ruinas) isolando il Duce ormai impotente e ostaggio del «Granducato di Toscana» come Ruinas chiama ironicamente il gruppo dirigente della RSI, formato in maggioranza proprio da toscani.

    Saranno proprio questi personaggi che daranno vita, con "Il pensiero nazionale", a quel movimento che sia i simpatizzanti che gli avversari (ma prima di tutto loro stessi) definiranno con l'espressione «fascisti rossi» o, più prosaicamente, «fascisti di sinistra»; un grande movimento politico, culturale ed ideale che affonda le radici nei Fasci di Piazza S. Sepolcro, a Milano, nel 1919.

    Nel 1947, dunque, i sedicenti epigoni di quegli anni ormai lontani si ritrovano in una Italia che riparte dalle macerie sotto il tallone americano ma dove, anche, si sta velocemente riorganizzando quello che sarà il più potente partito comunista dell'Europa non sovietizzata, ovvero il PCI. Ed ecco che proprio in questi frangenti si delinea la «missione» di PN di concerto proprio con il PCI, o comunque con la segreteria del partito che appoggia pressochè totalmente la linea strategica tracciata da Togliatti stesso: recuperare, se non al comunismo, perlomeno al voto comunista ed allo schieramento che allora veniva definito dal PCI «democratico, popolare e progressista» centinaia di migliaia di ex-fascisti ed «erresseisti» che durante il Regime prima e (soprattutto) la Repubblica dopo si schierarono apertamente con la forte «corrente» socialista, anticapitalista ed antiplutocratica, più disposta alla guerra contro gli angloamericani che non contro l'URSS.

    È Togliatti stesso, ancora ministro della Giustizia, che si fa promotore di questo ambizioso disegno, spalleggiato da alcuni elementi della dirigenza del partito come ad esempio G. Pajetta, progetto peraltro malvisto da altri dirigenti (ad esempio P. Secchia, capo della fazione «insurrezionalista») nonchè dalla neonata ANPI. Togliatti però tira diritto, ma per poter abbattere il muro di diffidenza che logicamente separa il PCI dagli ex-fascisti ha bisogno in un intermediario che possa essere immediatamente identificato ‑da questi ultimi‑ come sodale ed «amico»: Ruinas, con altri giovani combattenti della RSI, provenienti in gran parte dalla Xª MAS, e la rivista PN sono esattamente ciò che occorre.

    Inizia così l'avventura di PN, che finirà per diventare una vera e propria cinghia di trasmissione del PCI, ricevendone anche dei finanziamenti, del resto mai dissimulati dal Ruinas anche se sempre piuttosto contenuti. PN non esiterà un attimo a fare da cassa di risonanza alla politica, sia interna che estera, del PCI mantenendo però sempre e comunque quella larga autonomia che doveva servire a rivendicare orgogliosamente il trascorso fascista della redazione, ma di un fascismo, come detto, movimentista e «sovversivista».

    La prima campagna di PN è mirata al tentativo di riavvicinamento fra quelli che verranno definiti i «partigiani combattenti a viso aperto» e gli ex-fascisti repubblicani; l'ambiente partigiano era infatti, comprensibilmente, piuttosto refrattario se non apertamente ostile alla politica togliattiana di «pacificazione nazionale». Per contro, specularmente, anche da parte fascista le resistenze erano fortissime; è in questo frangente che giocheranno un ruolo importantissimo gli ex-appartenenti alla Xª MAS, un reparto militare che pur combattendo ‑dopo l'8 settembre‑ per la Repubblica Sociale al fianco della Germania, manterrà sempre un alto grado di autonomia dalle direttive politiche della RSI stessa arrivando al punto ‑in nome di una visione romantica e sentimentale della guerra in generale e di «quella» guerra in particolare‑ di minacciare dei veri e propri ammutinamenti nel tentativo di evitare il combattimento contro «altri italiani» ovvero i partigiani. I reduci della «Decima» diventeranno dunque la punta di diamante di questa avanzata verso l'ex-avversario, che comunque non sortirà (c'era da immaginarlo ...) risultati di rilievo.

    Altra importantissima campagna di PN fu quella scatenata contro il neonato MSI con il corollario di giornali e di riviste fiancheggiatrici. La polemica è violentissima, e riflette il timore di Ruinas (e del PCI) che questo partito ‑definito senza mezzi termini come al servizio della DC, degli americani, del Vaticano e sopratutto dei capitalisti e dei borghesi che già avevano voltato le spalle al Fascismo quando era giunta l'ora dell'azione ed ora tentavano di utilizzarlo in funzione anticomunista‑ potesse attrarre larghe fasce di gioventù sinceramente rivoluzionaria da abbacinare con la retorica nazionale e patriottarda. PN badò comunque sempre a tenere distinto il giudizio nei confronti della dirigenza (bersagli preferiti Almirante e Michelini) dal dialogo con la base sopratutto giovanile e popolare con la quale il contatto era continuo, come lo era con la frazione di «sinistra» dello stesso MSI e che, in alcuni casi, portò nuovi collaboratori a PN. Sul fronte opposto (quello del PCI) si distingue poi un altro personaggio destinato a raggiungere i massimi vertici del partito, Enrico Berlinguer, allora segretario del Fronte della Gioventù (come allora si chiamava l'organizzazione giovanile del PCI, poi diventata FGCI) il quale fu tra i più convinti fautori del dialogo non soltanto con gli ex-fascisti (come si solevano definire i seguaci di PN) ma anche con i giovani neofascisti (come invece venivano definiti gli affiliati al MSI).

    Dopo alterne vicende, in cui PN sarà comunque sempre «organico» al PCI e lealmente suo alleato, la parabola di PN si esaurisce di fatto nel 1953, quando il compito storico della rivista ‑portare gli ex-fascisti di sinistra con la loro identità e senza abiure e rinnegamenti, dietro la barricata dello schieramento anticapitalista ed antidemocristiano il cui bastione principale, piacesse o meno, rimaneva il PCI‑ appare di fatto concluso. I giochi erano stati fatti, e quello che doveva succedere era successo; alcuni collaboratori di PN, addirittura aderiranno al PCI ed al marxismo mentre il progetto (o forse il sogno) di trasformare PN in un partito politico viene definitivamente abbandonato dopo alcune sporadiche partecipazioni elettorali a supporto del blocco delle sinistre.

    Quale giudizio dare, dunque, dalle nostre (di «Avanguardia» ...) posizioni su questa esperienza? Certamente non è possibile estrapolare il particolarissimo momento storico in cui venne giocata quella partita. Stanis Ruinas era sicuramente un camerata divorato da una bruciante passione politica e sociale, un uomo secondo il quale il Fascismo avrebbe dovuto essere semplicemente «una variante del comunismo applicata all'anima nazionale italiana». Fu un uomo che non abiurò mai il proprio passato fascista e non fece mai il «gran salto» nel marxismo; non rifuggì parimenti mai dall'inchiodare l'esperienza fascista italiana, compresa quella «erresseista», alle proprie responsabilità: la capitolazione al capitalismo ed alla finanza, agli interessi dei grandi agrari padani, al nido di vipere di casa Savoia, al Vaticano ... Successivamente, come abbiamo visto, sarà lucidissimo profeta di ciò che rappresenterà il MSI nella storia politica dell'Italia repubblicana, ovvero la ruota di scorta della DC e il serbatoio segreto del Ministero dell'Interno, delle Forze Armate e della CIA; vedrà nel PCI, giocoforza, la sola forza rivoluzionaria e «proletaria», e persino vedrà nell'URSS lo Stato guida per una insurrezione mondiale degli oppressi. Resterà però sempre intransigentemente fedele alla memoria del Duce e mal acconsentirà ad accomunare la sua figura alla sconfitta morale del Fascismo, nonostante le pressioni dei comunisti.

    Certamente dobbiamo del rispetto a quest'uomo onesto e pulito, ma non possiamo, a distanza di cinquant'anni da quelle esperienze, non manifestare critiche anche serrate. Possiamo esemplificare: Ruinas e PN non esitarono ad attaccare anche violentemente la Germania Nazionalsocialista; nei ricordi di guerra i giudizi sull'alleato tedesco furono sempre fortemente negativi e del resto la fortuna che quel movimento incontrò tra i reduci della Xª MAS ci deve fare riflettere (anche se PN successivamente sconfessò il comandante Borghese dandogli ciò che si meritava ...); l'idea sociale fu assolutamente predominante nella elaborazione politica e teorica e non venne compresa la FONDAMENTALE DIMENSIONE SPIRITUALE CHE È ESSENZA FONDANTE DI TUTTE LE ESPERIENZE AUTENTICAMENTE «FASCISTE»; furono espresse critiche non sempre giuste nei confronti delle Brigate Nere e di uomini di (crediamo ...) assoluto rispetto come Alessandro Pavolini; venne esaltata (ma erano segni dei tempi ...) l'esperienza del Risorgimento e di personaggi come Mazzini e Garibaldi, con le cui idee noi oggi «non dovremmo nemmeno bere un caffè»; di conseguenza, e come conseguenza di un laicismo esasperato, PN non disdegnò neppure la collaborazione, sia pure saltuaria, di elementi massonici, finalizzata alla costituzione di un «fronte laico nazionale» inviso persino ai comunisti; la questione ebraica non venne minimamente dibattuta (almeno da quanto consta dalla lettura del volume) seppure si può comprendere come dovesse essere materia «off limits» per un movimento contiguo ad un PCI fortemente ebraicizzato; infine l'ossessiva autodefinizione di ex-fascisti lascia forse intuire l'intimo convincimento che quella esperienza storico‑politica non fosse più proponibile.

    Alla luce di quei lontani avvenimenti possiamo trarre degli insegnamenti per l'oggi? Quanto i «fascisti rossi» di “Avanguardia” potrebbero trasporre nell'azione concreta all'interno del «lager» euro‑americano‑giudaico*massonico‑mondialista? Non da ieri Avanguardia si è posta, appunto (potenza del nome ...), al di là e al di sopra delle concrezioni ammuffite dello schema destra-sinistra. Il socialismo è e sarà per sempre componente predominante ed irrinunciabile della nostra visione del mondo, componente anzi senza la quale tutta la nostra azione politica affonderebbe nel nonsenso. Come già PN anche noi continueremo a cercare, ossessivamente, il dialogo con quel che resta della discarica dell'estrema destra; come PN, a maggior ragione, continueremo ossessivamente, ad appellarci a quelle forze dell'estrema sinistra realmente rivoluzionarie ed anticapitalistiche nella misura in cui si rendano conto, e ce ne diano atto, che L'AVANZATA FURIBONDA DEL NUOVO ORDINE MONDIALE È STATA PRECONIZZATA PIÙ DALLE NOSTRE ANALISI «VISIONARIE» E «DELIRANTI» che dalle loro tonnellate di carta di analisi «scientifiche».

    Noi riconosciamo, seppure a malincuore, che l'iniziativa antagonista non è oggi dalla parte che fu «nostra» (anni luce or sono) e che giunge a sventolare le bandiere a stelle e strisce nei raduni berlusconian‑finiani, ma di quella parte che, perlomeno, tali bandiere dà alle fiamme ...

    Graziano Dalla Torre





    Fascisti rossi
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  4. #4
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    Predefinito Re: BIBLIOTECA SOCIALISTA NAZIONALE





    Nicola Bombacci: un comunista a Salò



    Alla fine tragica della sua esistenza Benito Mussolini si ritrovò accanto il caparbio amico di sempre: Nicola Bombacci. Sì proprio lui, l’anziano socialcomunista che per una strana quanto perfida magia, sparirà dalla storia italiana per decenni e decenni. Nicola Bombacci la cui figlia Gea, in un documento personale del 17 luglio 1945, così scriveva: «Riteneva vero tradimento astenersi dalla lotta, in un momento così cruciale per la nostra Patria; eppure gli sarebbe stato non dico facile, ma possibile. Dopo il 25 luglio infatti era rimasto a Roma, tranquillo e sereno, e nessuno pensò a procurargli fastidi di sorta. Rimase a Roma anche dopo l’8 settembre fino al gennaio 1944, quando finalmente cedette alle insistenze giornaliere di alcuni suoi amici personali, uomini non fascisti i quali avendo seguito il governo in Alta Italia lo tempestarono di lettere, di telegrammi e di telefonate, ripetendogli ‘c’è bisogno di gente onesta, c’è bisogno di uomini che possano presentarsi al popolo guardandolo serenamente negli occhi’. E lui che in tutta la vita non aveva avuto che un ideale, migliorare le condizioni materiali, morali e spirituali del popolo, non seppe resistere a questi ripetuti appelli e nel gennaio 1944 si recò in Alta Italia. Io non l’ho visto, ma so perché lo sento, che quel cosiddetto tribunale del popolo che l’ha ucciso giustificando tale atto esecrando con la condanna di super-traditore ha dovuto fucilarlo nella schiena: è stato giusto perché nessuno di quegli uomini era degno, in un momento così supremo, di guardare negli occhi un super galantuomo quale era Nicola Bombacci, mio padre».
    Sì sempre lui, l’uomo che dalla copertina del volume Nicola Bombacci: un comunista a Salò (Mursia editore) ci contempla dal bianco e nero un po’ sbiadito di una foto dell’altro secolo ed ammicca tra l’ironico e lo smagliante irriverente, pensando già all’altrove dell’azione. A scrivere un nuovo libro sul rivoluzionario gentiluomo ci ha pensato Guglielmo Salotti [nella foto a sinistra], allievo e collaboratore del munifico storico Renzo De Felice. Specializzato sulla storia d’Italia del XX secolo tra le due guerre, dall’impresa fiumana di D’Annunzio al Ventennio fascista ed alla RSI, Salotti collabora a riviste di settore ed ha operato nell’ambito del Ministero degli Esteri. Sempre ed ancora Bombacci, dunque, con la cui folta barba “ci farem gli spazzolini/per lucidare le scarpe/ di Benito Mussolini”, come solevano cantare gli squadristi fascisti tra il 1921 ed il 1922. Bombacci, romagnolo fastidioso per i compagni e gli antagonisti. Traditore per i rossi, scomodo per gli eredi dei neri proprio per quel suo grido in punto di morte con il duce ed i suoi fedeli: “Viva il Socialismo”. Per oltre quarant’anni diede tutto alla causa dei lavoratori. Umile tra gli umili, atipico in tutta la sua splendente quanto gravosa dignità delle povere origini, vuolsi qui di lui ricordare come ben e quanto segue (21 dicembre 1944): «Socializzazione è altruismo, è dignità di lavoro, è benessere, è dirittura politica e morale del lavoratore, purché questi sia onestamente attivo, sollecito nel dovere verso la collettività, doveri consorziati al diritto acquisito, scevro da scorie borghesi di egoismi individuali…. Se sarete egoisti… sarete peggio dei vostri padroni». Il resto lo lasciamo narrare allo stesso autore che ringrazio, qui e di nuovo sentitamente, per la sua signorile disponibilità.


    Prima domanda ma che, in realtà, dovrebbe forse essere l’unica. Chi era Nicola Bombacci, uno dei personaggi più carismatici della storia del Novecento italiano? Ovvero il “social comunista, atipico, eretico, espulso”?



    Definire Nicola Bombacci uno dei personaggi più carismatici del Novecento italiano mi sembra decisamente eccessivo. Più realistico parlare di lui come di un esponente di primo piano del socialismo massimalista italiano, tra i fondatori, a Livorno, nel gennaio 1921, del Partito comunista d’Italia (anche se il suo nome è “stranamente” scomparso dalle cronache di quel Congresso), amico di Lenin, avvicinatosi lentamente, dagli inizi degli anni Trenta, prima ancora che al fascismo, al vecchio compagno e conterraneo Mussolini, fino al tragico epilogo del 28 aprile 1945 sul lungolago di Dongo. E quando dico esponente di primo piano, non mi riferisco certo a sue particolari doti di teorico e ideologo (doti che invero fecero difetto alla sinistra italiana del tempo, eccezion fatta per un Gramsci e, in parte, per un Bordiga), ma alla passione, sostenuta da una trascinante oratoria, che lo distinse nella sua azione all’interno del Psi prima e del Pcd’I poi. Con questo, e quasi a volerne riequilibrare l’immagine, Bombacci non fu semplicemente un passionale barricadiero romagnolo, ma mostrò anche insospettate doti diplomatiche (apprezzate anche da capi di Governo dell’Italia liberale, come Francesco Saverio Nitti), battendosi strenuamente per l’allaccio di rapporti diplomatici fra Italia e Unione Sovietica, in un misto di enfasi rivoluzionaria e di più ponderata attenzione agli interessi economici e commerciali di entrambi i Paesi. Forse mi sono dilungato troppo, ma se pensa che, per rispondere implicitamente alla Sua domanda, ho impiegato anni di ricerche e oltre 250 pagine di testo, potrà ben comprendere che dire di meno sarebbe stato impossibile”.





    Perché un libro su di lui?



    Sarebbe più esatto parlare di un mio secondo libro su Bombacci, perché quello uscito ora presso l’Editore Mursia costituisce una edizione rinnovata e ampliata del Nicola Bombacci da Mosca a Salò (da anni esaurito), pubblicato nel 1986 dall’Editore Bonacci di Roma nella Collana “I fatti della storia” diretta da Renzo De Felice. Perché questo mio interesse, reiterato interesse, per Bombacci? La prima molla, sul piano puramente storiografico, è stata dettata dalla damnatio memoriae abbattutasi nel secondo dopoguerra sul suo nome. Di lui non volevano parlare socialisti e comunisti, se non per rinnovare quell’infamante etichetta di “supertraditore” affibbiatagli sul documento attestante la sua esecuzione, a Dongo. Ma mostravano imbarazzo a parlarne anche gli eredi spirituali di coloro al cui fianco era caduto; molti (me lo confermò a suo tempo l’on. Pino Romualdi) non avevano mai cessato, durante e dopo il fascismo, di considerarlo un comunista. C’è però, me lo lasci dire, anche un risvolto umano. Si dice spesso che un biografo finisca prima o poi per innamorarsi del personaggio oggetto dei suoi studi. Io non credo (nonostante ben due libri su di lui) di essermi innamorato di Bombacci, ma forse non ho debitamente tenuta a freno la mia simpatia sia per l’”eretico” (spesso gli eretici, in senso religioso o politico, leggono meglio la storia di quanti rimangono sempre legati a un dogma), sia per la sua coerenza nei momenti estremi. Se è vero, infatti, che Bombacci ricevette molti aiuti economici da Mussolini, è altrettanto vero che non fu certo l’unico (tra gli oppositori politici o tra gli intellettuali) a usufruirne. Con la differenza che mentre molti, la maggior parte dei beneficiati, fecero carte false per ricrearsi una verginità politica, spacciandosi per antifascisti sin da quando… erano in fasce (la cosa grave è che siano stati presi sul serio), Bombacci rimase fedele a Mussolini sino all’ultimo. E, tra lo squallido opportunismo degli uni e la coerente fedeltà dell’altro, Lei può ben immaginare su chi possano cadere le mie simpatie.





    Compagni italiani e compagni rossi russi. Tutti effettivamente compagni? E così lo stesso per i Soviet, i rivoluzionari? Le classi operaie?



    Le vicende che portarono, nel 1927, alla definitiva espulsione di Bombacci dal Pcd’I sono uno specchio fedele non solo della confusione esistente all’interno del partito, ma anche, e soprattutto, delle divergenze fra comunisti italiani e sovietici. Per questi la priorità assoluta era quella di rompere una sorta di “cordone sanitario” creatosi intorno alla Russia rivoluzionaria dopo l’ottobre 1917, e qualsiasi crepa si fosse formata in quel “cordone” era vista in senso quantomai favorevole. Così era accaduto con la piena disponibilità dimostrata sin dall’inizio dal Governo Mussolini a mettere in disparte le differenze politiche e a trovare una soluzione definitiva sui rapporti fra i due Stati. Quella così chiara e autorevole apertura fece passare in secondo piano, per i dirigenti sovietici, qualsiasi velleità di appoggiare i comunisti italiani nella lotta contro il fascismo; e in quella stessa ottica deve porsi il discorso di Bombacci alla Camera il 30 novembre 1923. Un discorso “eretico”, l’ho definito nel libro, e che rappresentò l’inizio di tutta una serie di provvedimenti disciplinari da parte degli organi dirigenti del Pcd’I contro Bombacci; sotto accusa una frase soprattutto di quel discorso, quando l’oratore, rivolto ai banchi del Governo, sostenne che tra due rivoluzioni, quella sovietica e quella fascista, non dovessero in fondo esistere difficoltà a trovare un reciproco e fattivo riconoscimento fra i due Paesi. Apriti cielo! Non starò qui a elencare le reazioni polemiche a quelle parole; mi limiterò a ricordare qui che, a difesa di Bombacci (come minimo della sua buona fede) non mancarono prese di posizione di alcuni deputati, di non pochi lavoratori e, soprattutto, varie insistenze da parte dei dirigenti sovietici, che cercarono inutilmente di attenuare almeno la gravità delle misure adottate contro il deputato comunista.





    Bombacci e D’Annunzio?



    La Sua domanda mi riporta un po’ indietro negli anni, ai tempi della mia tesi di laurea e dei miei esordi storiografici incentrati sull’Impresa fiumana di D’Annunzio. Dubito fortemente che possano esserci stati incontri o rapporti diretti fra il Poeta e Bombacci, ma certo questi non nascose una certa simpatia per il movimento dannunziano, “perfettamente e profondamente rivoluzionario” così come lo stesso D’Annunzio, secondo quanto sostenuto da Lenin in persona. Non si limitò comunque alla simpatia, Bombacci, ma aderì in linea di massima, insieme all’anarchico Errico Malatesta, a un piano insurrezionale proposto dal capitano Giuseppe Giulietti, segretario della FILM (Federazione Italiana Lavoratori del Mare), per estendere, sotto la guida di D’Annunzio, il moto legionario da Fiume al resto dell’Italia. Non se ne fece nulla in concreto, anche per la netta opposizione al progetto da parte del leader socialista Giacinto Menotti Serrati; non a caso, però, proprio Bombacci fu tra i primi destinatari, nel gennaio 1921, di un volume di documenti sul “Natale di sangue”, con accenni polemici più o meno larvati all’immobilismo dei Fasci di Combattimento in quelle giornate («falsi rivoluzionari - scriverà Eugenio Coselschi nella lettera di accompagnamento - , più conservatori dei conservatori palesi». A distanza di qualche mese, in agosto, D’Annunzio provvide poi a versare al Comitato provinciale di Brescia del Pcd’I la somma di 2.000 lire a favore degli affamati della Russia sovietica, ricevendo nell’occasione una grata risposta anche da Bombacci.





    Bombacci e Mussolini? L’alter ego l’un dell’altro? Ma sempre perché per entrambi “l’Italia doveva bastare a se stessa”?



    Il rapporto fra Mussolini e Bombacci fu in realtà meno complesso e conflittuale di quanto a prima vista potrebbe apparire. A ben guardare, le convergenze superano le divergenze: a cominciare dalla comune provenienza romagnola, per proseguire con le basi culturali (entrambi maestri elementari prima di gettarsi nella lotta politica) e con le matrici ideologiche socialiste. E c’era poi una lunga e forte amicizia personale, non scalfita da contingenti contrapposizioni politiche; una amicizia per “Nicolino” (come a volte il Duce chiamava Bombacci) ricordata dallo stesso Mussolini in uno dei suoi colloqui con Yvon De Begnac: «Non si divide il pane della scienza per poi diventare l’uno all’altro Caino». Il lento e cauto riavvicinamento fu indubbiamente favorito (come accennato in precedenza) dagli aiuti economici fatti pervenire da Mussolini a Bombacci, alle prese con vari problemi famigliari meglio specificati nel libro; aiuti di cui il Duce si mostrò prodigo anche verso altri oppositori del Regime, e non sta a me (in verità, non dovrebbe stare a nessuno) sindacare su quanto essi fossero disinteressati o celassero intenti di “ammorbidimento”. Ci furono, quegli aiuti, e tanto basta, anche perché poi molti dei beneficiati antifascisti erano e antifascisti rimasero. Al riavvicinamento dettato da sentimenti di riconoscenza si affiancarono ben presto anche motivazioni di ordine più squisitamente politico, con cauti apprezzamenti al corporativismo e alle leggi sociali promulgate dal Regime. Anche in questo caso, tuttavia, Bombacci non fu solo nell’avvicinamento a Mussolini e agli esponenti della sinistra fascista (soprattutto Rossoni), nell’illusione, non solo sua, che il fascismo potesse ritornare verso le originarie posizioni rivoluzionarie. Un caso fra tutti, nel 1934, quello delle avances dell’ex sindaco socialista di Milano Enrico Caldara, portavoce di molti esponenti ex riformisti già condannati al confino, con l’offerta - fatta praticamente cadere da Mussolini, dopo una iniziale accettazione - per una leale collaborazione con il Regime e all’interno del fascismo in nome dei princìpi del Corporativismo.





    E sugli anni del silenzio di Bombacci (sino al 1943)?



    In effetti, se si esclude la pubblicazione de “La Verità”, su cui avrò modo di tornare, per un lungo periodo il nome di Bombacci scompare quasi del tutto dalle cronache politiche. Si tratta di un silenzio per certi versi obbligato, in quanto Mussolini non aveva interesse a rendere di pubblico dominio le profferte dell’ex esponente comunista, anche per non esacerbare le polemiche di quanti, all’interno del Regime, male avevano accolto gli accenni di apertura verso elementi antifascisti. Bastarono voci - poi rivelatesi infondate - circa la possibile nomina di Bombacci a curatore della propaganda della rinascita industriale del decennio fascista perché si assistesse a una decisa levata di scudi contro di lui; non si capiva, da parte dei vecchi fascisti intransigenti così come dei giovani, quali vantaggi sarebbero potuti venire al fascismo dal ritorno sulla scena, più o meno ufficiale, di elementi con cui la nuova Italia doveva avere di fatto chiuso tutti i conti. Non rimase comunque del tutto inattivo, Bombacci, pur consapevole del clima sfavorevole creatosi intorno a lui, e mantenne con Mussolini una lunga corrispondenza epistolare, di cui esiste ampia documentazione soprattutto presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma. Si tratta per lo più di lettere in cui Bombacci, oltre a esprimere i propri sentimenti di devozione e ammirazione per Mussolini e per le realizzazioni del fascismo, chiedeva di essere chiamato a svolgere i compiti che gli si fossero voluti affidare, intendendo uscire dall’inerzia in cui da tempo le circostanze lo avevano fatto piombare («Vi chiedo l’onore di entrare nella mischia» ebbe a scrivere); chiese più volte anche la tessera del Partito, ma la cosa cadde nel vuoto. Fra tutte le lettere, ce n’è una, del 6 luglio 1934, che riveste un particolare interesse, colto - pur senza enfatizzarne l’importanza reale - da Renzo De Felice in uno dei volumi della biografia di Mussolini. Nella lettera Bombacci delineava le direttrici di una politica economica nazionale, che avrebbe poi preso concretamente corpo nell’autarchia. Non è dato sapere quanto quel suggerimento avrebbe poi pesato sull’avvio di una politica autarchica, e sarebbe forse eccessivo fare di Bombacci l’antesignano di essa; certo è che Mussolini mostrò interesse per quel progetto, annotando con la solita matita blu in margine alla lettera «Prepararmi un piano dettagliato».





    Ci può parlare della rivista “La Verità”?



    Prima ancora di parlare della rivista in sé, credo sia opportuno accennare alle dure polemiche scatenatesi, ancor prima della sua uscita, sia all’interno dello schieramento antifascista, sia, soprattutto, tra i settori intransigenti del fascismo; e questo, nonostante il fatto che ad autorizzare la pubblicazione de “La Verità” ci fosse ovviamente Mussolini in persona, e che essa fosse stata caldeggiata da figure di primo piano del Regime, come Costanzo Ciano e Rossoni. L’ennesima levata di scudi contro Bombacci sembrò avere avuto la meglio con una lunga sospensione della pubblicazione della rivista (il primo numero uscì nell’aprile 1936, il secondo soltanto nel gennaio 1937); ma anche alla ripresa le voci contrarie non mancarono, e se ne fece interprete soprattutto il segretario del PNF Starace, che in una lunga lettera a Mussolini non usò mezzi termini per bollare come “rottami marginali” o “emerite carogne, capaci di tutto domani, come lo sono state ieri”, sia Bombacci che altri collaboratori della rivista. Detto delle polemiche, “La Verità” (solo un caso che si trattasse della traduzione italiana della “Pravda” moscovita?) uscì mensilmente (a parte la lunga sospensione già ricordata) quasi ininterrottamente sino al giugno 1943, spaziando dai temi di politica interna a quelli di politica estera, da frequenti attacchi alle degenerazioni del bolscevismo a considerazioni sulle ben diverse condizioni di vita e di lavoro delle classi operaie in Unione Sovietica e nell’Italia fascista. Con toni alquanto imbarazzati - comuni del resto a quasi tutta la stampa italiana - dopo la firma del Patto Ribbentrop-Molotov dell’agosto 1939, che costrinse i commentatori politici a veri e propri giochi di equilibrismo dialettico per spiegare una situazione così radicalmente e improvvisamente mutata. Da un punto di vista politico, la pubblicazione de “La Verità” può farsi rientrare in quel clima di disponibilità mostrato da alcuni settori antifascisti verso la metà degli anni Trenta a operare lealmente all’interno del Regime, in nome del socialismo e di una rivoluzione sociale che si sperava potesse nascere dal corporativismo. Una disponibilità che sembrò trovare un terreno favorevole nelle voci ricorrenti, in quello stesso periodo, di una conversione a sinistra del Regime, che vedeva in prima linea il ministro dell’Agricoltura Rossoni, e che fece paventare ad alcuni ambienti conservatori la possibile collusione tra fascismo di sinistra e bolscevismo.





    Ultimo capitolo: 1943-1945. RSI, socializzazione, operai. Cos’altro?



    Cos’altro? Tanto altro. Storiograficamente parlando, i mesi della RSI presentano un panorama quantomai confuso, con una vera e propria “babele” di posizioni, di programmi, di illusioni, con il ripresentarsi, e anzi l’acuirsi, dei contrasti insanabili tra le varie anime del fascismo, tenuti più o meno a freno durante il regime, pressoché incontrollabili nel periodo tra il settembre l943 e l’aprile 1945. Anche perché, bisogna ammetterlo, in quell’arco di tempo Mussolini non aveva più la forza, fisica e psicologica, né una adeguata volontà politica, per dominare una situazione sulla cui ineluttabilità era forse il primo a non crearsi illusioni. Le confesserò un mio sogno “nel cassetto”, quello di occuparmi proprio del periodo della RSI, dopo aver scritto qualche anno fa un libro sulla storia del fascismo; ma io per primo non mi nascondo le enormi difficoltà di affrontare i quasi venti mesi di vita della RSI dopo averlo fatto per i più di venti anni del regime mussoliniano. Non potendo qui, in sede di intervista, sintetizzare quei quasi venti mesi di storia italiana, di tragica storia italiana, mi limiterò a parlare del ruolo di Nicola Bombacci all’interno della RSI. Si può dire che, per certi versi, il silenzio di Bombacci si prolunghi anche in quei mesi: nessun incarico ufficiale, un ufficio presso il Ministero dell’Interno, a Maderno, dove occuparsi di un progetto di legge sulle abitazioni da assegnare ai lavoratori, un ruolo indefinito nella stesura dei 18 punti del Manifesto di Verona e del testo della legge sulla socializzazione delle imprese (anche se è più che probabile che il termine stesso di “socializzazione” fosse venuto da una sua proposta accettata da Mussolini), indagini, condotte negli ultimi mesi della RSI insieme al segretario particolare del Duce Luigi Gatti, sui reali responsabili e sui torbidi moventi affaristici del delitto Matteotti di vent’anni prima. Tutto più o meno nell’ombra, così come privi di ogni ufficialità sono i quasi quotidiani contatti di Bombacci con Mussolini; la porta dello studio del Duce sarà per lui sempre aperta, in quei mesi, senza bisogno di anticamere o di intermediari. Per questo, qualcuno ha definito il Bombacci della RSI “l’eminenza grigia di Salò”; io parlerei piuttosto di un ritrovato rapporto personale e politico con Mussolini, sulla scia della speranza, dell’illusione, che si stesse finalmente realizzando quella rivoluzione sociale tanto auspicata quanto troppe volte frenata.





    “Il canto del cigno: Viva il Socialismo!”. Questa fu dunque la fine?



    Le dico subito che l’immagine del “canto del cigno” non è farina del mio sacco, avendola ripresa da Alberto Giovannini a proposito del discorso tenuto da Bombacci il 15 marzo 1945 (si noti la data, poco più di un mese dalla fine), a Genova, in una affollatissima piazza De Ferrari. Già, perché nella risposta precedente ho omesso di parlare di una incessante attività oratoria di Bombacci, soprattutto negli ultimi mesi della RSI, del rinnovato rapporto del vecchio tribuno con il mondo del lavoro, fosse sulle piazze o nelle fabbriche socializzate. Di fronte al perdurante silenzio di Mussolini (sintomo secondo me della consapevolezza del Duce per l’ineluttabilità della situazione), eccezion fatta per il discorso del Lirico e per quelli alle truppe italiane addestrate in Germania, le uniche voci capaci di suscitare un certo interesse (oggi parleremmo di audience) furono quelle del cappellano militare Padre Eusebio e, appunto, di Bombacci. Nel suo caso dovette esserci, inutile nasconderlo, anche una certa curiosità per ascoltare le argomentazioni dell’ex esponente comunista schierato ora con la Repubblica mussoliniana; e Bombacci non deludeva i suoi ascoltatori, ricordando spesso e volentieri la propria milizia del Pcd’I e la propria amicizia con Lenin, le speranze riposte a suo tempo nel bolscevismo e la certezza che ora la rivoluzione potesse farla solo Mussolini. Soltanto un illuso, Bombacci, nelle sue speranze e certezze, prive di qualsiasi serio aggancio alla realtà? C’era indubbiamente in lui una forte componente passionale, ma è certo che anche nei suoi incontri con gli operai, nel sincero entusiasmo per l’attuazione (seppur lenta, contrastata e parziale) della socializzazione, non poteva sfuggire nemmeno a lui la realtà di un mondo del lavoro ormai quasi del tutto insensibile alle sirene sociali mussoliniane.



    Si sarebbe forse potuto salvare, Bombacci, se fosse rimasto a Gaino, il paesino dell’entroterra gardesano dove viveva con moglie, figlia e nipotina; alcuni abitanti del luogo, da me a suo tempo avvicinati, lo ricordavano con simpatia e rispetto, memori anche dei tanti suoi interventi a favore di giovani partigiani fatti prigionieri dalle “Brigate Nere” o dai tedeschi e quasi sempre rimessi in libertà dietro sue pressioni su Mussolini. Invece Bombacci seguì il Duce a Milano e molte testimonianze (non saprei quanto attendibili) lo ricordano salire in auto con lui nel cortile della Prefettura, prima di separarsene a Menaggio, della cattura ad opera dei partigiani, della fucilazione sul lungolago di Dongo.





    A chiusura alcune domande di più ampio respiro. La prima: Lei è stato allievo e collaboratore di Renzo De Felice. Un Suo ricordo del grande storico?



    Sono stato allievo di De Felice agli inizi degli anni Settanta, al tempo della preparazione della mia tesi di laurea sull’Impresa fiumana, Suo stretto collaboratore (soprattutto all’interno della rivista “Storia contemporanea” da Lui diretta) dall’inizio degli anni Ottanta sino alla Sua scomparsa, nel maggio 1996. Quello che voglio ricordare di questo lungo rapporto è lo spirito con cui si usciva dagli incontri con il Professore, arricchiti non solo di consigli e indicazioni, ma della voglia di tuffarsi nella ricerca, di non dare alcunché per scontato, di non fermarsi alle prime facili ma spesso errate conclusioni, di scavare nelle miniere degli archivi e nella polvere delle carte. E insieme al ricordo, il rimpianto per uno Studioso la cui scomparsa tanto ha pesato e pesa ancora oggi sulla vita culturale italiana.





    Si dipanerà mai e completamente scevra da luci e ombre la storia italiana del XX secolo?



    Indubbiamente molti singoli avvenimenti della storia italiana del XX secolo sono ancora avvolti da una nebbia fitta e difficilmente diradabile. Quello che sta cambiando, ed è secondo me destinato a mutare ulteriormente, è il tipo di approccio a temi e momenti fondamentali della storia italiana (mi riferisco ovviamente qui al fenomeno e al periodo fascista), sempre più libero da schematici luoghi comuni e da quei pregiudizi ideologici (rimasti ormai prerogativa di sempre più ristretti e sempre meno rilevanti settori della vita politica e culturale) che per tanto tempo ne hanno impedito una corretta lettura e comprensione. Un mutato approccio che, detto per inciso, potrebbe finire per riguardare la stessa figura di Nicola Bombacci, una volta liberata dalle etichette di “supertraditore” o di “comunista comunque e sempre”. Tutto bene, a patto, però, me lo lasci dire, che una seria opera di revisione storica (iniziata e propugnata proprio da Renzo De Felice e da Lui inculcata agli studiosi formatisi alla Sua “scuola”, in polemica con gli strenui difensori della “vulgata”) sia lasciata agli storici seri, e non diventi appannaggio di politici pasticcioni e poco credibili. In altri termini, ognuno faccia il proprio mestiere!.





    Lei dedica il presente volume alla memoria di Gea Bombacci, figlia di Nicola, ringrazia (fra gli altri) Rossella del Guerra e Sua moglie Patrizia, “cui va un ringraziamento tutto particolare”. Dunque è vero che dietro ogni grande uomo c’è sempre un’altrettanto grande donna?



    Almeno per l’ultima domanda, una risposta più breve che per le altre. La dedica del volume alla memoria della figlia di Bombacci, Gea, è come minimo doverosa, anche per il rapporto di stima e di amicizia venutosi a creare fra noi; così come doveroso il ringraziamento alla nipote di Bombacci, Rossella del Guerra, che ha voluto, con grande liberalità, cedere a me tutta la documentazione raccolta negli anni dalla Famiglia. Quanto a me, non credo sinceramente di essere un “grande uomo”, mentre senz’altro una “grande donna” è mia moglie Patrizia, che è stata sempre al mio fianco sia nella vita privata così come in questo e in altri lavori. Però, attenzione, non facciamoci sentire da lei: potrebbe montarsi la testa! Grazie.





    Grazie a Lei…

    a cura di Susanna Solci - tratto da Fondo Magazine di Miro Renzaglia
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    Otto Rahn: crociata contro gli ‘esoteristi’


    di Luca Leonello Rimbotti



    Il filone letterario che lega il Nazionalsocialismo all’esoterismo è tra i più fortunati degli ultimi tempi. Dai romanzi fantasy agli articoli e ai saggi parastorici e parascientifici che intasano edicole, librerie e special televisivi, l’argomento è di quelli che tirano. Fanno a chi la spara più grossa. Nel caos di Templari, Atlantidi, Agartha tibetane, archeosofie, Graal e massonerie ammassate a casaccio, i poveri nazisti rimangono travolti da un insolito destino. Il sensazionalismo legato alle occulte, torbide, misteriose vicende del Terzo Reich, evidentemente, smuove a fondo l’immaginario di innumerevoli “esperti” d’occasione e di una folla di lettori in cerca di vibrazioni da rotocalco. Così facendo, peraltro, si alza un nefando polverone su un argomento che ha i suoi fondamenti storici, ma che viene letteralmente sepolto da una massa di ciarpame divulgativo, in cui le sciocchezze più comprovate coabitano con spezzoni di verità, e l’invenzione di sana pianta diventa difficile distinguerla dal dato reale e documentato.

    Taluni apripista del settore – primo fra tutti il famigerato Il mattino dei maghi di Pauwels e Bergier, risalente agli anni sessanta del secolo scorso – hanno finito col creare un sotto-genere letterario, ponendosi come una vera “opera prima” che è stata fondatrice della sub-cultura nazi-esoterica ad alta diffusione. Alla quale si sono accodati nel tempo anche autori – come il politologo Giorgio Galli – che hanno messo a dura prova la loro buona fama scientifica, con libri come Hitler e il nazismo magico che, oltre alla grande tiratura, onestamente, e dispiace, non ci pare possa vantare molti altri meriti. Su questa scia si sono poi gettati nugoli di “specialisti” del settore, tra i quali brilla per approssimazione, scarsa conoscenza della lingua italiana e superficialità quel Mario Dolcetta che, con il suo fortunato Nazionalsocialismo esoterico, ha composto il più memorabile pastiche sull’argomento.

    Nazionalsocialismo ed esoterismo: il terreno è scivoloso, siamo sul confine tra verità storica e fantasia, tra realtà e ciarlataneria … il terreno privilegiato delle mistificazioni giornalistiche, la palude dove la ciurma degli impostori è in agguato. Tuttavia, chiunque sia stato al Wewelsburg – preferibilmente per suo conto, senza la “preparazione” di suggestioni approssimative -, cioè nel fin troppo famoso castello westfalico in cui le SS avevano stabilito uno dei loro maggiori centri di formazione ideologica, anche se digiuno di solide letture è in grado di comprendere per personale verifica che, effettivamente, esistevano ambienti interni a quel partito e a quel regime, in cui l’idea di un contatto tra forze destinali, energie cosmiche superiori e simbolismi iniziatici aveva un reale fondamento. Esisteva veramente una concezione “magica” dell’essere, strettamente connessa con la mistica razziale, che in taluni ambienti, soprattutto legati a Heinrich Himmler e alle SS, aveva la sostanza di una fede religiosa a tutti gli effetti. La stessa mentalità hitleriana, inoltre, così votata al misticismo carismatico e ad una interpretazione della storia legata a eventi e personalità fatali, così intrisa di richiami alle forze provvidenziali, presenta lati in forza dei quali non è sbagliato verificare approcci di tipo “esoterico” nel pur pragmatico Führer. Come scrisse Jean-Michel Angebert, parlando della convinzione di Otto Rahn che il catarismo fosse una rimanenza pagana sotto spoglie cristiane, una concezione di neo-manichesimo pareva ben attagliarsi all’impianto gerarchico dell’ideologia nazionalsocialista: “In effetti, nella cosmologia hitleriana si ritrova la classificazione in tre ordini tipica degli gnostici: i puri, gli iniziati e la massa”, secondo i tre ranghi della “casta dei signori”, dei membri del partito e del popolo.

    L’ultimo nato del minaccioso filone nazi-esoterico è Il mito che uccide. Dai Catari al Nazismo: l’avventura di Otto Rahn, l’uomo che cercava il Graal e incontrò Hitler (Longanesi) di Mario Baudino: ennesima occasione tutto sommato perduta per affrontare in modo almeno un po’ scientifico l’argomento, cui, ancora una volta, si preferisce la ruminazione di pettegolezzi e banalità trattati come fonti fededegne. Il taglio, manco a farlo apposta, è fortemente divulgativo, le divagazioni sulla regina Esclarmonda o sulle vicende della crociata albigese la fanno da padrone sull’analisi del personaggio Rahn. La cui personalità e le cui idee avrebbero meritato di essere indagati in modo più approfondito e al di là delle poche conoscenze acquisite. L’assenza di referenti documentali è sconcertante, l’appoggio sui testi noti, come quello di Bernadac sul “mistero” di Rahn, è scontata, come del pari inesorabile nella sua incongruità è la presenza del professor Cardini, evocato come immancabile nume tutelare.

    Nondimeno, ci sentiamo di consigliare la lettura del libro. Solo leggendo questo e molto altro è infatti possibile verificare la distanza che corre tra la conformazione storica del Nazionalsocialismo, la sua più profonda cultura ideologica, la sua più intima vocazione di religiosità popolare etnica e differenzialista, quale risultano dai testi dei suoi fondatori, promotori e seguaci, e invece il mare magnum delle elucubrazioni sensazionalistiche, affastellate a basso costo scientifico e a bassissimo spessore intellettuale. Dando vita a continue riedizioni di quel coacervo di misteriosofica confusione che fu tipica dei neo-spiritualisti, teosofi e imbonitori positivisti che intasò la sotto-cultura del tardo Ottocento.

    A sommesso parere di chi scrive, l’intera faccenda di un esoterismo nazionalsocialista non è disgiungibile dall’impianto di fondo di quella ideologia, che intendeva restaurare una moderna forma di paganesimo incardinato sulla mistica del sangue, in alternativa tanto ai contro-miti moderni dell’illuminismo e del razionalismo, quanto a quelli sottesi alla religione cristiana e al suo edificio teologico egualitaristico, cosmopolita e universalistico. Crediamo che sia in un contesto simile che debba essere compresa anche la figura di Otto Rahn, un mitografo di impostazione letteraria convinto del nesso tra cultura trovadorica, catarismo e paganità pre-cristiana. Rahn collaborò con Himmler, che ne apprezzava la ricerca di un’atavica religione della luce, e nel 1936 entrò nelle SS e nella Ahnenerbe, il centro nazionalsocialista di ricerca culturale più ideologizzato. La concezione di Rahn di ravvisare nella figura di Parsifal e nel simbolo del Graal i referenti di un paganesimo di cui i Catari sarebbero stati gli ultimi eredi, va collocata nel quadro di uno sforzo culturale a più vasto raggio, inteso a sostituire le proclamazioni del cristianesimo ideologico, all’opera da oltre un millennio, con le fonti primordiali della cultura europea autoctona. Che era legata all’immaginario della stirpe e al suo sentimento tradizionale del potere, della vita comunitaria e della persona umana, secondo le vie ancestrali e del tutto naturali del paganesimo che da sempre comprendono, accanto al normale corso del quotidiano, anche le presenze magiche e misteriche.

    * * *

    Nel ginepraio nazi-esoterico

    Forniamo di seguito alcuni titoli sull’argomento, ricordando che, a nostro parere, una delle fonti migliori di tutta la questione, paradossalmente, rimane il vecchio libretto dello storico cattolico Mario Bendiscioli Neopaganesimo razzista (Morcelliana, Brescia 1937), in cui si aveva chiaro che il nòcciolo del Nazionalsocialismo era un nuovo tipo di religiosità popolare del sangue: ciò che oggi è richiamato a sensazione come “esoterico”, era in realtà un aspetto della più vasta concezione völkisch. Diamo conto solo di alcuni tra quei pochi titoli che, a nostro giudizio, presentano una struttura di ricerca più scientifica e meno romanzata: J.-M. Angebert, Hitler et la Tradition cathare (Laffont, Paris 1971); R.J. Mund, Jörg Lanz von Liebenfels und die neue Templer Orden (Spieth Verlag, Stuttgart 1976); C. Bernadac, Le mystére Otto Rahn. Du catharisme au nazisme (Ed.France-Empire, Paris 1978); R. von Sebottendorff, Prima che Hitler venisse. Storia della Società Thule (Arktos, Torino 1987); R.Alleau, Le origini occulte del nazismo (Mediterranee, Roma 1989); J.Webb, Il sistema occulto (Sugarco, Milano 1989); L.L. Rimbotti, Il mito al potere. Le origini pagane del Nazionalsocialismo (Settimo Sigillo, Roma 1992); N. Goodrick-Clarke, Le radici occulte del nazismo (Sugarco, Carnago 1993); M.H. Kater, Das Ahnenerbe der SS (Oldenbourg Verlag, München 2001); R.Sünner, Schwarze Sonne. Der Mythen in Nationalsozialismus und rechter Esoterik (Herder Verlag, Freiburg i.B. 2001). A questi si può unire il sempre ottimo G.L. Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich (Il Saggiatore, Milano 1968). Di Otto Rahn sono disponibili in italiano i suoi due unici libri: Crociata contro il Graal (Barbarossa, Saluzzo 1979) e La Corte di Lucifero (Barbarossa, Saluzzo 1989).
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    Predefinito Re: BIBLIOTECA SOCIALISTA NAZIONALE

    A breve creeremo un 3d apposito in cui inserire ebook, sponsorizzare librerie virtuali (come quella postata da Etrvsco) e condividere le letture degli utenti.
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    Predefinito Re: BIBLIOTECA SOCIALISTA NAZIONALE





    11 settembre 2001. Colpo di Stato in USA
    a cura di Maurizio Blondet

    edizioni EFFEDIEFFE - capitolo uno PROLOGO A MOSCA E A WALL STREET

    "Benvenuti distruzione, eccidio, massacro! Io vedo, come su una carta, la fine di tutto". (Shakespeare, Riccardo III, 11,4)

    Il 29 giugno 2001 alcuni ospiti importanti - anche statunitensi - incontrano membri della Duma, il Parlamento russo. Visitatori e ospiti parlano della bolla finanziaria americana, l'astronomico rialzo azionario alla Borsa di Wall Street, e si trovano d'accordo su questo: presto o tardi la bolla scoppierà, provocando una crisi finanziaria globale. Ma come? Quando? Qualcuno, scettico, osserva che il rialzo azionario a New York continua da dieci anni. Per interromperlo, dice, ci vorrebbe una guerra, un evento bellico, missili lanciati da qualcuno... La signora Tatyana Koryagina, economista, ritenuta molto vicina al presidente russo Vladimir Putin, replica vivacemente: "Missili e bombe a parte, esistono altre armi, molto più distruttive". E prosegue: "Gli Usa sono stati scelti come oggetto di attacco finanziario perché il centro finanziario del pianeta è lì. L'effetto sarà massimo. Le onde d'urto della crisi economica si spanderanno nel mondo all'istante come l'onda d'urto di una bomba atomica". La Pravda citerà queste parole in un articolo di prima pagina del 12 luglio, dedicato appunto alla bolla speculativa americana. Mancano meno di tre mesi al fatale 11 settembre, all'attacco megaterroristico del World Trade Center a New York, a due passi da Wall Street. Alla luce dell'orribile evento, la frase della dottoressa Koryagina sembra più che una premonizione involontaria. Gli USA sono stati scelti: pare il lapsus di qualcuno che sa in anticipo. Lo è? Sapevano, i russi?

    Si guardi il lettore da correre alla più affrettata delle conclusioni, sospettando che i russi, "se sapevano", è perché "sono stati loro". Sapevano qualcosa, è certo. Il 20 agosto, meno di un mese prima dell'11 settembre, il presidente Putin ordinò ai servizi segreti russi di avvertire le loro controparti americane, "nei più forti termini possibili", di imminenti attacchi ad aeroporti ed edifici pubblici. Così almeno ha detto lo stesso Putin in un'intervista concessa alla rete televisiva americana MS-NBC (il 15 settembre, a tragedia avvenuta).

    Del resto, una strana quantità di persone sembra che sapessero. Persone di condizione assai diseguale. Il 12 agosto, nella prigione di Toronto in cui è detenuto per frodi, un certo Delmart "Mike" Vreeland mette per iscritto quel che deve avvenire a New York, chiude i foglio in una busta e la consegna alle autorità carcerarie, perché lo protocollino.

    Vreeland risulta tenente della Marina militare americana e sostiene di aver lavorato per l'intelligence della Us Navy. La sua lettera viene aperta il 14 settembre: Vreeland ha indicato in anticipo l'attacco alle Twin Towers e al Pentagono. Il curioso episodio è riportato sul Toronto Star del 23 ottobre 2001, che cita gli archivi della Toronto Superior Court dov'è traccia del fatto. La Marina americana nega che Vreeland sia mai stato addetto all'intelligence. Conferma che è stato arruolato negli anni '80, e dimesso per comportamento scorretto. A quale scopo Vreeland ha messo per iscritto in anticipo quel che sapeva, l'ha voluto far protocollare dalle autorità carcerarie perché ci fosse sul suo documento una data certa anteriore all'11 settembre, insomma ha voluto preconfezionare una prova da poter esibire in un tribunale? Perché Vreeland sta lottando per non farsi estradare negli Stati Uniti: sostiene, davanti ad ogni giudice canadese, che la CIA vuole ucciderlo. Uno strano tipo di complottista.

    Ma già un mese prima di "Mike" Vreeland, personaggi molto più importanti si erano comportati come se già sapessero. Anzi di più: come se già sapessero quel che il governo americano avrebbe fatto dopo l'attacco al WTC.

    Berlino, 11 luglio 2001. Tre alti funzionari statunitensi incontrano nella capitale tedesca membri dello spionaggio russo e britannico e li informano che gli Usa progettano un attacco militare contro l'Afghanistan. Quando? A ottobre. I tre alti personaggi sono Toni Simmons, ex ambasciatore Usa in Pakistan, Karl Inderfurth, già assistente segretario di Stato per gli affari dell'Asia meridionale, e Lee Coldren, che ha lavorato al Dipartimento di Stato come esperto del Sud Asia. Sappiamo i loro nomi e il genere d'informazione che hanno comunicato dal Guardian (22 settembre 2001), dalla BBC (18 settembre), e da Interpress Service (16 novembre).

    E' anche probabile che i tre abbiano riferito quel che negli ambienti internazionali qualificati poteva essere già un segreto di Pulcinella. Ancora il britannico Guardian, il 26 settembre 2001, a firma Felicity Lawrence, rende noto che fin dall'estate 2001 "secondo informazioni non confermate, truppe speciali uzbeche e tagike erano in addestramento in Alaska e in Montana [..], mentre gli US Rangers stavano addestrando truppe speciali in Kirghizistan". Aggiunge che " l'alto funzionario del Dipartimento Difesa Usa, dottor Jeffrey Starr ha visitato il Tagikistan in gennaio".

    C'era chi sapeva quel che stava per accadere con tale precisione, da puntarvi sopra denaro. Molto denaro. Fra il 6 e il 7 settembre 2001 (mancano quattro giorni all' attacco qualcuno, su mercato nanziano New York, acquista 4.744 opzioni "put" della United Airlines. Chi acquista opzioni "put" si impegna a vendere un determinato numero di azioni, a un prezzo convenuto, entro un termine stabilito; in pratica, scommette sul ribasso di quel titolo, per guadagnarci. Il 10 settembre, vengono parimenti acquistate 4.516 opzioni "put" della American Airlines. Ciò fa stranamente impennare i grafici delle compravendita giornaliere l'acquisto di opzioni "put" sulle due compagnie aeree in quei giorni è del 600 per cento superiore al normale. E nessun'altra compagnia aerea è oggetto di una simile speculazione al ribasso. Anche perché proprio il 10 settembre l'agenzia economica Reuters scrive che "si prevede un rialzo per le azioni delle compagnie di volo". Gli anonimi speculatori vanno sicuri contro la tendenza del mercato, perché sanno con certezza che solo la United e la American avranno i loro aerei dirottati e lanciati alla distruzione.

    Dopo la tragedia, il New York Times e il Wall Street Journal hanno abbondantemente parlato di questo caso di insider trading della morte; e l'FBI si è affrettata a indagarlo. Anche perché risalire agli ignoti e ben informati speculatori, significava arrivare molto vicino alle menti organizzatrici della strage; e la certezza di tutti gli inquirenti era che l'inchiesta avrebbe portato a scoprire la rete finanziaria del miliardario saudita Bin Laden e di AI-Qaeda, la sua formazione di terroristi globali. Non c'era dubbio che gli autori dell'attentato coincidessero con gli autori della speculazione. Invece non è stato così. L' inchiesta sulle opzioni put ha portato gli investigatori su tracce assai lontane da Bin Laden, anzi in una direzione diametralmente opposta. Ne riparleremo, perché questo caso (e il silenzio sulle indagini che ne è seguito, dopo l'apertura di certe porte sorprendenti) mette gli eventi dell'11 settembre in una prospettiva completamente diversa da quella promossa dalle versioni ufficiali. Per intanto tenetelo a mente.

    Noi dobbiamo correre, per darvi l'ultima notizia che annunciò il disastro in anticipo. 11 settembre: è l'alba a New York, solo due ore prima dell'evento. Negli uffici della Odigo, situati nelle immediate vicinanze delle Torri Gemelle, gli impiegati sono già al lavoro. La Odigo è un'azienda di "instant messages", Internet, posta elettronica, segnalazioni su cercapersone: si lavora 24 ore su 24 ai computer, al software, sui portali Internet. La Odigo è in rete con il mondo intero, e smista i messaggi elettronici che rimbalzano dai più lontani angoli del pianeta. A New York, la giornata si annuncia tersa, bellissima. Il primo sole comincia ad accendere le facciate a specchio dei grattacieli.

    Due impiegati della Odigo ricevono sul loro computers un "messaggio di testo" che li avverte dell'imminente attacco al World Trade Center. Presto, fra poche decine di minuti, dice il messaggio.

    Il testo completo del messaggio non ci è noto. Secondo il Washington Post - che pubblicò la notizia il 26 settembre 2001 - "l'azienda (Odigo) ha detto di non poter rivelare il contenuto del messaggio o l'identità chi lo ha spedito, dato che tutto è coperto da segreto istruttorio". Ciò che i giornalisti del Washington Post hanno potuto strappare al vicepresidente Alex Diamandis è che a ricevere il messaggio sono stati "due addetti dell'ufficio di ricerca e sviluppo e vendite internazionali" della Odigo, "che ha sede in Israele". Il messaggio è stato inviato da "un altro utente circa due ore prima del primo attacco".

    "Subito dopo gli eventi tragici a New York, i due addetti hanno avvertito la direzione del messaggio ricevuto e questa ha allertato i servizi segreti di Israele. A sua volta, l'FBI è stata informata".Si può risalire a chi ha spedito il messaggio? "Colui che l'ha inoltrato non è personalmente conosciuto dagli impiegati della Odigo", è la obliqua risposta d vicepresidente della ditta. Dietro insistenza, viene fuori però almeno questo: "La ditta in genere protegge la privacy dei suoi utenti. Però gli impiegati hanno registrato il protocollo dell'indirizzo Internet dell'inoltrante il messaggio". Inoltre: "I servizi della Odigo comprendono un software chiamato People Finder (il Trovagente) che consente agli utenti contattarne altri".

    Sembrerebbe un gioco da ragazzi risalire al bene informato. Specie per l'FBI e i servizi segreti israeliani. Ma se hanno scoperto qualcosa di concreto, non ne sappiamo nulla: anche su questa notizia è calato il silenzio. Un silenzio inspiegabile, a tanti mesi dalla tragedia. Che alimenta sospetti e lascia spazio alla disinformazione incontrollata, o a maligne leggende urbane.

    Fra queste, una ha fatto il giro del mondo: migliaia (la voce dice quattromila) operatori ebrei, il cui posto di lavoro erano le due Torri, quell'11 settembre hanno preso le ferie. Questa voce - che mira chiaramente ad agitare lo spettro del complotto ebraico - pare aver origine da notizie di stampa su giornali arabi (fonti ben meno credibili del Washington Post) e non è stata né ripresa né verificata negli Stati Uniti. La sola notizia certa riguarda la ZIM: una grossa ditta di trasporti e navigazione israeliana, che aveva i suoi uffici al piano 47 della Torre Uno (la prima colpita) e che aveva traslocato due settimane prima dell'11 settembre, trasferendo i suoi 200 impiegati alla nuova e più economica sede di Norfolk, Virginia. "Zim workers saved by costcutting", titolava con sollievo il Jerusalem Post del 13 settembre 2001: "I lavoratori della ZIM salvati dalla riduzione dei costi". Del resto, anche la britannica Barcklay's Bank aveva gli uffici nelle Torri, ed aveva traslocato da poco .Il Wordl Trade Center,il più vasto spazio per uffici del mondo, era un porto di mare; aziende che vengono e vanno, che pagano l'affitto per qualche mese e poi cambiano sede.

    Il sospetto va esercitato a mente fredda, senza paranoia e controllando bene la credibilità delle fonti. Come stiamo facendo in queste pagine. Tutto ciò che possiamo dire è questo: qualche decina di persone hanno mostrato di sapere "prima". E FBI, CIA, servizi israeliani hanno tutti i mezzi per scoprire chi sono, e come mai sapevano. Se ci fosse, s'intende, la volontà di far luce.
    "Non discutere mai con un idiota: ti trascina al suo livello e ti batte con l'esperienza" (firma valida per tutte le stagioni)

  8. #8
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    Predefinito Re: BIBLIOTECA SOCIALISTA NAZIONALE

    Citazione Originariamente Scritto da Majorana Visualizza Messaggio
    A breve creeremo un 3d apposito in cui inserire ebook, sponsorizzare librerie virtuali (come quella postata da Etrvsco) e condividere le letture degli utenti.

    Benissimo. Allora mi fermo per il momento in attesa del nuovo 3d.
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  9. #9
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    Predefinito Re: BIBLIOTECA SOCIALISTA NAZIONALE

    si, meglio i pdf...e cmq anche le recensioni non troppo lunghe...ottimo mettere le copertine invece...parere personale.

    avanti.

  10. #10
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    Predefinito Re: BIBLIOTECA SOCIALISTA NAZIONALE

    Io anni fa avevo aperto un topic dove segnalavo i libri di storia non conformi su nazifascismo, dove scrivevo le mie personali recensioni.
    Le posso benissimo recuperare e inserirle qua o in un eventuale nuovo topic. E continuo facendo le mie personali recensioni sui libri che ho letto.
    Voglio solo sapere se dobbiamo usare questo topic o un altro.

 

 
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