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    Predefinito La formazione di Ugo La Malfa

    di Paolo Soddu – In C. Scibilia (a cura di), “Centenario della nascita di Ugo La Malfa. Apertura ufficiale delle celebrazioni. Palermo, 15-16 maggio 2003. Atti”, Roma 2003, pp. 143-157.


    La Sicilia degli anni giovanili

    Una “giovinezza difficile in un’isola deserta”, riscattata dall’ “evasione verso il Nord” per gli studi universitari, definì Ugo La Malfa, nel libro-intervista con Alberto Ronchey i suoi anni siciliani.
    Con Oriana Fallaci, proponeva una comparazione, che costituisce una significativa spia per comprendere i caratteri che nutrirono il suo impegno riformatore, tra la Sicilia e la Russia, entrambe “così depresse, così tristi”: “Mica la capiva il piemontese Togliatti, la Russia. La capivo io, siciliano”. Questa scettica visione della sua regione era in lui davvero molto radicata e illumina, a ben vedere, anche le modalità – così in contrasto con l’immagine di sé sapientemente e lungamente costruita – con le quali si articolò la sua presenza politica nell’Isola.
    La tradizionale visione del Sud e della Sicilia depressi e arretrati, tali da delineare una “Questione meridionale” che ha accompagnato l’Italia unita, è stata negli ultimi decenni criticamente rivisitata. Nella rielaborazione della memoria di La Malfa prevaleva però la Sicilia tradizionale, immobile e immodificabile, la cui arretratezza, frutto della sua decadenza, la poneva fuori dei tempi e degli eventi della modernità.
    In La Malfa il costante riferimento all’arretratezza meridionale era un richiamo ai limiti della democrazia italiana, alla fragilità della modernizzazione del Paese, sicché gli appariva sinistramente presente il rischio, avvertito negli ultimi anni della sua vita come incombente, di una fuoriuscita del nostro Paese dall’Occidente e dall’Europa. Come nessun altro uomo politico del secondo dopoguerra, La Malfa sentì – si potrebbe dire – il carattere di frontiera del nostro Paese, sospeso tra l’Occidente avanzato e il Mediterraneo levantino.
    Primo di tre figli, Ugo Giuseppe Filippo La Malfa nacque a Palermo, nella casa di via Brasa 24, all’una del 16 maggio 1903. Il padre Vincenzo, nato nel 1873, era originario di Piazza Armerina. In una regione in cui, nel 1901 oltre il 70% della popolazione era analfabeta, Vincenzo La Malfa aveva ottenuto la licenza tecnica. Agente prima, appuntato poi delle guardie di pubblica sicurezza, fu promosso maresciallo poco prima del collocamento a riposo. Non ebbe un grande peso nella sua educazione, soprattutto per la presenza predominante della madre, Filomena Imbornone. Ha osservato nel 1982 la nipote Luisa: “Mio padre è stato nelle sue origini un meridionale piuttosto povero, di quella povertà orgogliosa che scaturisce da una tradizione per metà di piccola nobiltà decaduta (la famiglia di mia nonna) e per metà di piccola borghesia con aspirazioni di ascesa sociale. La volontà, l’intelligenza incolta ma acutissima di mia nonna credo che abbiano avuto parte non piccola non soltanto nel suo retaggio genetico ma anche nella formazione di una personalità forte e volitiva”.
    “Con grande venerazione La Malfa ricordava la madre”, ha scritto Sergio Telmon, tanto che, rimasta vedova nel 1948, Filomena Imbornone andò a vivere con la famiglia del primogenito, trascorrendovi il resto della lunga esistenza, fino alla morte avvenuta nel 1970. Ci fu forse un solo campo nel quale dovette soccombere: religiosissima, tentò di inculcare al fede al figlio, ma dovette desistere. E nel distacco totale, che risale agli anni giovanili, dall’aspetto trascendente dell’esistenza risiedono le fondamenta anche del suo approccio, fatto di insofferenza, ma anche di incomprensione, almeno negli anni del Partito d’azione, nei riguardi degli aspetti religiosi che pure la politica contiene.
    Il fratello minore, Renato, ha definito quella della famiglia La Malfa “una vita modestissima, anche di rinunce, di rigore”, attenuata tuttavia da vestigia di un’educazione superiore, come le lezioni di pianoforte per i maschi e di danza per Olga, voluta da Filomena, perché “simbolo della condizione borghese che era stata degli Imbornone e doveva essere dei La Malfa”.
    La figura materna, con la severa, accanita ricerca di una rivincita del misero presente di contro a una condizione se non di floridezza, quantomeno, anche se verosimilmente mitizzata, di agiatezza perduta, non era soltanto un dato biografico destinato a segnare in modo indelebile il primogenito, ma assurse ai suoi occhi a completamento della metafora sul Mezzogiorno: l’arretratezza era solo un aspetto, il più visibile, ma essa era “espressione di una civiltà perduta e non di un paese sottosviluppato”.
    Poco dopo la nascita di Ugo, i La Malfa si trasferirono in via Francesco Perez, vicino al fiume Oreto, ove nacquero Renato, nel 1905, e Olga, nel 1908. Le ristrettezza economiche sognarono le scelte scolastiche di Ugo: dopo avere frequentato le scuole elementari di piazza Marmi, frequentò i tre anni della scuola tecnica al Cagini e in seguito passò alla sezione di ragioneria e commercio dell’istituto tecnico Filippo Parlatore. Furono studi regolari.
    Dopo il diploma, conseguito nel 1920, optò per l’iscrizione a giurisprudenza all’Università di Palermo e a tal fine studiò privatamente per un anno, conseguendo la maturità classica, indispensabile per accedere a quegli studi. In effetti, nell’autunno 1920 si iscrisse, ma mutò rapidamente progetti, dato che il 30 novembre era registrato a Ca’ Foscari.
    La scelta di Venezia fu una decisiva svolta nell’esistenza di La Malfa, e non solo perché poté operare un’importante esperienza formativa fuori dell’Isola. A Venezia, infatti, avvenne la sua maturazione politica. Fino a quel momento, egli aveva profuso il proprio impegno nello studio. Nella città degli anni universitari si confrontò immediatamente con il movimento dei fasci e scelse subito, con istinto, da che parte stare.

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    Predefinito Re: La formazione di Ugo La Malfa

    Gli studi universitari

    Il prestigio dell’università di Cà Foscari era nel dopoguerra indiscusso e si nutriva anche della peculiare specificità rispetto ad analoghe istituzioni. Si qualificava per la presenza di tre indirizzi, volti alla preparazione commerciale, all’insegnamento negli istituti tecnico-commerciali e alla carriera diplomatico-consolare. Era divenuto pertanto uno dei luoghi privilegiati dai giovani meridionali e da quelli siciliani, almeno fino al 1923, quando con la riforma Gentile mutò la natura degli istituti superiori di commercio, due dei quali di nuova istituzioni a Palermo e a Catania, mentre gli studi diplomatici trovarono sistemazione nelle scuole e poi facoltà di scienze politiche.
    La scelta di un giovane della piccola borghesia come La Malfa era per molti versi analoga a quella dell’aristocrazia siciliana, che affollò negli anni di Giolitti i ranghi della diplomazia. Ma se per quest’ultima la carriera diplomatica era uno strumento di salvaguardia del proprio status, un rifugio – ha osservato Giuseppe Barone – rispetto “ai meccanismi competitivi della rappresentanza parlamentare”, per La Malfa costituiva uno dei rari canali di ascesa sociale ed era insieme manifestazione delle ambizioni coltivate.
    Il preciso orientamento professionale fu però abbandonato fin dagli anni dell’università. Terminata nell’estate 1924 la frequentazione senza avere completato gli esami, seguì, grazie all’ottenimento di borse di studio, il corso libero di commercio italo-americano, organizzato dall’Associazione italo-americana e dall’Istituto superiore di scienze economiche e commerciali della capitale, e il corso dell’Università libera della cooperazione, del lavoro e della previdenza sociale, ottenendo i rispettivi diplomi.
    Rispetto alla tradizionale formazione umanistico-giuridica del politico intellettuale, la preparazione universitaria acquisita da La Malfa costituì un primo, sensibile elemento di differenziazione, destinato ad assumere un carattere che sempre più definì in termini singolari la sua personalità. Acutamente lo sottolineò Bruno Visentini: “La Malfa, diversamente da molti della sua generazione e della mia stessa generazione […] non ebbe una formazione idealistico-crociana”. Certo, non fu il solo: due dirigenti di rilievo del Pci, Girolamo Li Causi e Mauro Scoccimarro, compirono gli studi a Cà Foscari; Carlo Rosselli, prese la prima laurea al Cesare Alfieri di Firenze e, soltanto dopo, concluse gli studi in giurisprudenza.
    Anche La Malfa tentò di normalizzare il curriculum studii. Avvertì una crescente attrazione per gli studi giuridici, ove riportò le votazioni più brillanti e scelse di laurearsi con Francesco Carnelutti, sebbene i legami più intensi li avesse stretti con Silvio Trentin. Ma il giurista veneto era ormai indirizzato su una strada di non ritorno e non poteva offrirgli nulla, se non una testimonianza, così preziosa proprio perché terribilmente rara, del suo rigore, mentre l’affermato civilista friulano gli fece balenare allettanti opportunità professionali per l’immediato futuro. Se vi fu un’aspirazione sfumata in La Malfa, fi quella che Carnelutti gli aveva prospettato: dedicarsi agli studi. Qui aveva origine il profondo rispetto che caratterizzò il suo rapporto con gli intellettuali di professione.
    La tesi di La Malfa – Di alcune caratteristiche giuridiche del contratto della giurisdizione, dell’arbitrato, della conciliazione nei diritti intersindacale, interindividuale ed internazionale – mostrava una buona conoscenza sia delle elaborazioni della più recente scienza giuridica, sia dell’evoluzione degli istituti giuridici presi in esame nelle democrazie occidentali e, in particolare, di quelle derivate dal modello Westminster. Era costante, inoltre, il riferimento a molte delle impostazioni teoriche del “maestro”, impegnato in quel periodo nella Commissione reale per la riforma dei codici. Il lavoro conclusivo del suo iter universitario si collocava, quindi, all’interno del lavoro di affinamento condotto dal giurista friulano per la preparazione del progetto di codice, destinato, invero, sul piano legislativo al pieno successo.
    Dalla tesi di La Malfa emerge un’insofferenza rispetto a una concezione formale del diritto, che cioè prescindesse dalla storicità degli istituti giuridici, dal loro essere espressione delle trasformazioni delle società dai quali sono adottati. Il diritto era nella sua visione sempre correlato alla realtà viva della società. L’acuta sensibilità per il carattere storico dell’evoluzione del diritto, l’attenta analisi della legislazione di altri Paesi, europei ed extraeuropei, era certamente frutto dell’apprendistato intellettuale fatto a Cà Foscari, del fatto che il diritto fosse mediato dallo studio dell’economia e, ancor di più, dalla lezione storiografica di Gino Luzzatto.
    Nelle intenzioni di La Malfa, i mesi di elaborazione della tesi di laurea erano una prova generale degli intenti in quel momento coltivati, e cioè la prosecuzione degli studi giuridici, lo sbocco professionale con maggiore serietà preso in considerazione.
    Immediatamente dopo, infatti, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza di Padova, ove era titolare della cattedra il civilista friulano.
    E, tuttavia, non andò così e, anzi, nel suo ricordo l’incontro con Carnelutti sfumò sempre di più. Sergio Telmon ne derivò che la “tesi di laurea segnò la sublimazione e il crollo dell’infatuazione del giovani meridionale per la giurisprudenza come acrobazia e sottigliezza”. La Malfa si sentì offeso per il modo in cui Carnelutti avrebbe accolto il suo lavoro: “Filano caìgo (nebbia) i siciliani a furia di essere sottili”. La Malfa si era affidato a Carnelutti, definito apertamente “il mio Maestro”, ma nel contempo la sua tesi mostrava l’ambizione di autonomia intellettuale e critica. In effetti, La Malfa sembra distaccarsi su un punto fondamentale: la sua visione del conflitto giuridico si fondava sull’assunto che la sentenza ha contenuto formale e sostanziale, è “composizione giusta, manifestazione di volontà del giudice”, mentre Carnelutti poneva a fondamento del progetto di codice pubblicato in quell’anno, il concetto di lite come domanda anziché come azione, “fornendo – ha scritto Giovanni Tarello – così spazio maggiore alle abilità avvocatesche e frustrando le tendenze dei chiovendiani ad un sempre maggior dominio del giudice sul processo”.
    Ma ad accentuare il distacco vi era inoltre una ragione politica. Da un paio di anni La Malfa era ormai pienamente coinvolto non solo nell’opposizione alla dittatura in formazione, ma anche nella definizione dei contenuti programmatici, che dovevano rinnovare la prassi delle forze liberali e democratiche dopo il tentativo di Giovanni Amendola, morto a Cannes soltanto un mese prima la sua laurea. Del resto, ormai viveva a Roma ove si era trovato un lavoro: dal 15 marzo al 31 agosto 1926, quando iniziò il servizio militare, fu “impiegato di concetto” alla Camera di commercio. A segnare quell’inizio, ad agevolarne l’immersione piena nella lotta politica erano stati soprattutto i “due maestri” di Venezia, Gino Luzzatto e Silvio Trentin, che ricordò non solo “come insegnanti eccezionali, ma come esempio di grande e nobile impegno politico e civile”.
    La rivendicazione del ruolo centrale dei due maestri veneziani nella sua educazione intellettuale e civile poteva anche ascriversi alla necessità, nel momento in cui si apprestava ad assumere la guida del Pri – le parole citate, infatti, furono scritte nel 1964, in occasione della scomparsa di Luzzatto – di definire un ideale pantheon, che superasse i tradizionali riferimenti del partito di ascendenza mazziniana. Eppure, il debito nei confronti di Luzzatto e di Trentin era autentico sia sul piano etico e culturale sia riguardo l’approccio alla politica del giovane siciliano.
    Da Luzzatto La Malfa trasse un abito, apprese un alfabeto metodologico, che modellò in modo inconfondibile il suo approccio intellettuale e incise profondamente sul suo stile politico. Fu la lezione di Luzzatto a dotare La Malfa del suo peculiare “materialismo storico”, inteso come strumento di analisi e di comprensione delle tendenze strutturali della società. Di qui si alimentò l’attitudine ad attingere, nelle analisi e nella diagnosi, ai dati reali e alle dinamiche sociali, sforzandosi di coglierne il segno. In questo senso va intesa l’osservazione di Visentini sulla specificità della sua formazione universitaria, che lo preservò certo dalla tendenza all’astrattezza ideologica, ma non lo indirizzò a un concretismo subalterno alle cose, dato che la sua visione della società italiana si nutriva di un complesso valoriale assai ricco, che attingeva al pensiero democratico.
    Uno dei tratti più singolarmente caratteristici di La Malfa, raramente colto dai contemporanei, i quali, sulla base della vicinanza o lontananza, hanno posto l’accento su uno degli aspetti, escludendo l’altro, fu l’inestricabile intreccio tra passione e ragione, tra ideale e reale. Luzzatto offrì a La Malfa gli strumenti intellettuali per ordinare la ragione, per impedirle, insomma, di cadere prigioniera di astratti furori e, per contro, di farne strumento per cogliere il reale e innestarvi la propria azione. In questo senso, va innanzitutto colto il laicismo di La Malfa, nel fastidio per le geometriche costruzioni ideologiche e nella sincera inclinazione, indipendentemente dalla correttezza delle analisi, a cogliere ciò che effettivamente mutava nel Paese.
    Ma Gino Luzzatto, come del resto Trentin, testimoniava di quella che Eugenio Garin ha definito la “separazione impossibile” tra politica a cultura, dell’intellettuale come “artefice cosciente”, “savio” che conosce, “ma allo scopo di operare”. In altri termini, mostravano piena consapevolezza del nuovo rilievo, che nell’incipiente società di massa gli intellettuali assumevano. Entrambi pienamente immersi nelle vicende del proprio tempo, si preoccuparono della fedeltà intransigente al ruolo che si erano dati, sicché Trentin conobbe un esilio impoverente e distruttore di status; Luzzatto l’arresto e il carcere prima, la discriminazione e la persecuzione razziale poi.
    Fu Trentin a imprimere il segno della militanza politica di La Malfa, a nutrirne l’intensa passione nella fase di deperimento dello stato liberale. Trentin era allora uno degli esponenti di maggior rilievo della Democrazia sociale nella quale La Malfa, inscrittosi nel 1924, compì le prime esperienze politiche.
    La Malfa, secondo la testimonianza di un suo amico di gioventù, conobbe Trentin nel 1923. La Malfa rimase sempre fedele alla sua memoria: lo definì “il mio padre spirituale”. Fu il punto di riferimento del suo istintivo antifascismo, irrobustito dalla scuola veneziana e dalla concreta esperienza della sostanza reazionaria o, se si vuole, classista, che contrassegnava l’adesione dei suoi compagni di università al movimento dei fasci. “Molti di quei giovani fascisti – ricordava La Malfa negli ultimi anni della sua esistenza – provenivano dalla classe dei proprietari terrieri, dagli agrari, come si diceva allora”. Nel prendere forma dello schieramento impari dell’antifascismo giovanile veneziano, erano le premesse di una solidarietà di fondo. Era in definitiva la premessa della sola religione che La Malfa abbia professato, quella civile della democrazia repubblicana, arricchita, rispetto alla lezione dei maestri, dall’esperienza morale dell’antifascismo e della Resistenza. Fu questa una discriminante acutamente e inflessibilmente avvertita da La Malfa.
    Ma fu certo decisivo l’incontro con Giovanni Amendola. Presentato al dirigente dell’Aventino da Trentin, La Malfa ne condivise il disegno di realizzazione di una forza democratica fuori tempo massimo, quando cioè era ormai in corso il passaggio dallo Stato liberale al regime a vocazione totalitaria. Eppure, nonostante l’inanità di un simile impegno, Trentin e Amendola impressero in La Malfa un’impronta fondamentale col loro impegno totale a preservare uno spazio politico, angusto, fino quasi a scomparire nei decenni successivi, eppure ineliminabile e soprattutto fondamentale per realizzare quel progetto politico di inserimento pieno dell’Italia all’Occidente, perseguito con tenacia da La Malfa nel secondo dopoguerra.


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    Predefinito Re: La formazione di Ugo La Malfa

    Con Giovanni Amendola e l’Unione goliardica per la libertà

    Le prime esperienze politiche di La Malfa maturarono nell’Unione goliardica per la libertà, l’organismo antifascista studentesco fondato alla viglia delle elezioni del 1924. Era in compagnia di molti, ché l’Unione, diffusa tra gli studenti universitari e medi, specie dopo l’assassinio di Matteotti, funse da prima palestra per giovani segnati dall’incontro con l’antifascismo, fino a trovare la morte durante la Resistenza – come Pilo Albertelli, Eugenio Colorni e Gino Menconi – o a divenire classe dirigente nell’Italia repubblicana: tra i tanti, Giorgio Amendola, Sergio Fenoaltea, Leone Cattani, Mario Paone, Enzo Storoni, Edoardo Volterra a Roma; Corrado Bonfantini, Paolo Rossi a Firenze, Eugenio Reale a Napoli, Ridolfo Morandi, Lelio Basso ed Ezio Vanoni tra Milano e Pavia, Aristide Foà a Parma. L’Unione goliardica, al pari di altri movimenti – dal “Non mollare!” fiorentino all’ “Italia libera” – fu uno degli ultimi sussulti dell’opposizione e non sopravvisse al primo anno di esistenza. A un mese dal discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925, infatti, i prefetti emisero decreti di scioglimento sulla base dell’articolo 3 del Testo unico di pubblica sicurezza.
    La Malfa “promotore” dell’organizzazione dell’Unione goliardica a Cà Foscari, operò soprattutto nella capitale, nella quale trascorse il tempo della liquidazione dell’Italia liberale. Sebbene non fosse una direzione centrale, il gruppo romano funse da coordinamento della rete che i goliardi seppero estendere, abbastanza uniformemente, nelle città sedi universitarie, ma anche in centri minori.
    Dell’Unione goliardica si è sottolineato soprattutto il carattere contingente, legato al conflitto politico, che si aprì all’indomani del delitto Matteotti. È stato osservato da Gaetano Quagliariello che, pur rappresentando una politicizzazione della vita degli atenei, l’opposizione al fascismo non fu la sua ragione costitutiva: essa sarebbe divenuta prevalente soltanto dopo la scomparsa del deputato socialista, quando svanì la speranza precedentemente coltivata di ricondurre il fascismo al potere nell’alveo della dialettica democratica. I goliardi, quindi, si sarebbero prefissi il superamento del rapporto conflittuale in nome dell’unità superiore della cittadella universitaria. Una riprova, insomma, della solidarietà tra i dotti, che parrebbe, come ha scritto Angelo D’Orsi, in ogni temperie, prevalere e vincere su qualsivoglia altra divisione e certo sulle identità politiche. Solo l’assassinio di Matteotti avrebbe quindi prodotto un mutamento delle ragioni costitutive e avrebbe indotto l’ambiente nel quale gravitavano i goliardi a contestare la legittimazione stessa del governo presieduto da Mussolini.
    In verità, l’Unione goliardica si formò proprio in virtù della necessità di contendere al fascismo il primato conquistato “nella generazione giovanissima, degli adolescenti dai quindici ai venti anni che non parteciparono alla guerra”. Il richiamarsi, sin dalla scelta del nome, alla tradizione che viveva gli anni dell’università “come vacanza, come periodo di completa irresponsabilità” (Quagliariello), come spensieratezza voleva sottolineare, al contrario, il venire meno della cornice che aveva garantito quella condizione esistenziale. Pertanto, gli anni di completamento della giovinezza importavano, nelle condizioni effettive nelle quali essa si svolgeva, impegno, richiedevano presenza, imponevano un fondamento di serietà. Goliardia e libertà erano sotto questo profilo indissolubilmente legati.
    Gli statuti delle diverse sezioni cittadine dell’Unione ricalcavano uno schema generale, al centro del quale erano due obiettivi fondamentali: sul piano generale, “rivendicare il diritto alla libertà, sacro come diritto alla vita”, difeso “contro tutte le teoriche e i sistemi che tendano comunque ad annullarlo”; sotto il profilo della politica scolastica, pronunciarsi “contro qualsiasi riforma che voglia comunque limitare quelle garanzie che, per tradizione costante, hanno fatto degli Atenei libere palestre di discussione e di educazione intellettuale”, con l’ovvio riferimento alla riforma Gentile. Le autorità di polizia colsero immediatamente e comunque con mesi di anticipo sul delitto Matteotti la sostanza dell’Unione goliardica: “per quanto si dichiari apolitica è contraria al Governo Nazionale, e specialmente contro il riordinamento della scuola” – scrisse il questore di Roma nell’aprile 1924.
    Che la contrarietà rispetto alla forma assunta dall’Italia guidata dai fascisti fosse una delle ragioni fondanti il movimento studentesco svettava nella scelta simbolica della data di fondazione – il 23 marzo -, giorno in cui, cinque anni prima, a Milano, in piazza San Sepolcro, Mussolini aveva dato vita ai fasci di combattimento.
    Sin dalle origini, quindi, nel manifesto rivolto agli italiani, affermò che “l’Unione goliardica volle significare la rivolta degli studenti contro il tentativo fascista di monopolizzare la gioventù intellettuale”.
    Piero Gobetti e Giovanni Amendola furono i due punti di riferimento, anche per i nuclei romano e veneziano, nei quali gravitava La Malfa. Se l’ “intellettuale politico” torinese fornì un modello di intervento, un’analisi largamente condivisa e colmò di significato un approccio permeato di intransigenza, tanto più in quel decisivo 1924, che per il torinese costituì uno spartiacque tra il primigenio liberalismo etilista e l’approdo a un liberalismo democratico; il “politico filosofo” gettò, al di là dell’aspetto eroico, i primi mattoni dell’elaborazione sia di una nuova idea politica, tutta mondanamente orientata, sia di un ridefinito spazio politico democratico-liberale. Al di là dei dissensi tattici, il punto di unione tra Gobetti e Amendola, che rendeva possibile l’accostamento a entrambi, risiedeva nel loro operare in favore di un liberalismo che si faceva integralmente democratico. Proprio perché colsero entrambi la natura non contingente, anche se la considerarono, rispetto all’evoluzione delle società occidentali, effimera, della soluzione totalitaria, come Amendola, per primo, felicemente la definì, da essi dovevano necessariamente ripartire coloro che si sarebbero proposti di costruire una sorta di religione civile della democrazia repubblicana.
    “Semente rivoluzionaria”, “radicale rinnovamento”: le espressioni dei documenti dei goliardi riflettevano il lessico gobettiano, l’aspirazione a potere rappresentare essi la volontà di rigenerazione. In questo senso, i goliardi si collocarono quindi consapevolmente in quello spettro di forze animate, di fronte al fascismo, dalla volontà di rifondare integralmente culture e tradizioni politiche.
    La Malfa, nel suo primo scritto, un commento sul congresso dell’Unione nazionale, apparso sulla rivista del deputato amendoliano abruzzese Enrico Presutti, “Il Risveglio”, sosteneva la centralità di “un esame critico della situazione politica italiana, non soltanto quale essa si presenta attualmente, ma, soprattutto, quale essa si è presentata dai giorni dell’unificazione ad oggi; esame critico diretto a rilevare le manchevolezze del sistema di istituti giuridici e politici posti a base dello Stato italiano”.
    Dei temi gobettiani sono intrisi i manifestini che i goliardi stamparono per affiggerli, distribuirli nelle scuole, nelle università e nei cinema, nei luoghi di socializzazione dei loro coetanei. “Libertà e giovinezza sono sinonimi” – recitava il manifesto Ai giovani distribuiti a Bergamo. Scrissero nel loro manifesto costitutivo: gli studenti italiani, “giunti troppo tardi per partecipare alle gesta di Vittorio Veneto, […] saranno l’avanguardia del popolo che si ridesta e che ritrova, nella sua millenaria saggezza, la via sicura verso un più degno di avvenire”.
    È indubbio tuttavia che per i goliardi romani, che condivisero il progetto dell’Unione nazionale, il leader dell’Aventino incarnasse le ragioni di quell’impulso innanzitutto morale. Ma cosa significa in concreto? Nei documenti dei goliardi, così come negli interventi dell’ultimo Amendola, la democrazia è associata, ossessivamente direi, all’avvenire. Si potrebbe sostenere che una trasformazione in senso compiutamente democratico del sistema politico, per quanto avvertita come ineluttabile, come tendenza necessaria sul piano internazionale, non era però considerata all’ordine del giorno. Il fascismo costituiva la vittoria contingente, certo, anche se ne era imprevedibile la durata, del pensiero antidemocratico, cioè avverso alla piena esplicazione non solo dei soggetti politici e sociali, ma anche del conflitto da essi alimentato, che aveva accompagnato tutto il lungo XIX secolo, quando cioè si avviò la lenta, contrastata, ma costante affermazione dei principi democratici. Come nessun altro uomo politico, Amendola percepì con lucidità che la gravissima irrisolta questione del dopoguerra era stata la mancata riforma del sistema politico. Non saranno state originali le soluzioni proposte, ma mostravano comprensione proprio di questo fondamentale punto. La soluzione totalitaria aveva vinto per l’incapacità del sistema liberale di capire la rottura della Grande Guerra e di farsi compiutamente democratico. Come ha osservato Giampiero Carocci, Amendola avrebbe voluto fare in chiave democratica ciò che il fascismo stava facendo in chiave autoritaria: immettere nello Stato le masse popolari che avevano fatto la guerra. Ma ciò rimandava alla concezione politica di Amendola che, nell’epoca della sacralizzazione della politica, fece un’affermazione di piena secolarizzazione dell’agire politico, una proposta di integrale laicità, necessariamente proiettata in un futuro lontano e destinata a una posizione largamente minoritaria tra le culture politiche italiane lungo tutto il Novecento. Una posizione comunque di avanguardia, capace di cogliere una delle tendenze evolutive della modernità novecentesca, che era però fuori tempo rispetto alle condizioni di sviluppo effettivo della società italiana.


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    Predefinito Re: La formazione di Ugo La Malfa

    Quell’amara e sconfitta esperienza politica costituì per La Malfa un costante riferimento. A ragione, Pietro Amendola ha scritto che “il più giovane discepolo di mio padre sempre, finché visse, fu fedelissimo alla sua memoria”. Nelle diverse occasioni sia private sia pubbliche nelle quali La Malfa rifletté su Amendola, traspare come un filo unitario l’impronta che impresse alla sua formazione e, soprattutto, alla sua concezione della politica. Nel 1976 pronunziò il discorso più impegnativo, quando, nel cinquantenario della morte, lo commemorò nella cerimonia organizzata dal consiglio regionale della Campania.
    Amendola era per La Malfa il punto di congiunzione tra le radici dell’Italia moderna e la sua declinazione in senso democratico negli anni della Repubblica. Trasparivano gli aspetti di identificazione con il leader della liberaldemocrazia italiana, il senso della solitudine di quella battaglia politica, la fedeltà a essa. Era “a mezzo della nostra vicenda nazionale, fra i grandi del Risorgimento e gli uomini e le forze politiche che sono state impegnate nella Resistenza e poi nella battaglia per la costituzione repubblicana”. Individuava nell’approdo all’antigiolittismo uno dei percorsi qualificanti la sua formazione politica. Specificava, tuttavia, che l’avversione alla pratica politica del dominatore della vita politica italiana nel primo quindicennio del secolo era di per sé un contenitore indecifrabile, data l’eterogeneità della tradizioni politiche che vi erano rifluite. Amendola, specificava, discendeva dal “filone di pensiero liberale” […] che si riconduceva idealmente all’esperienza della Destra storica, non come volontà di continuazione di quella posizione politica, ma come esaltazione del suo costume politico”. Nel rifiuto di Amendola del disegno giolittiano vedeva incarnato un progetto politico alternativo, almeno nelle intenzioni, alla soluzione trasformista che era prevalsa, nella persuasione che “una società esprime il meglio di sé attraverso una dialettica netta, spoglia di compromessi tra le forze politiche, in un quadro ben saldo di libere istituzioni”. Aveva compreso, a differenza degli altri liberali, il carattere di rottura della Grande Guerra, l’esigenza ineliminabile da essa posta, di allargamento e di riforma del sistema politico. Contrario alla proporzionale, gli era tuttavia “ben presente l’urgenza di un ampliamento delle basi sociali e politiche dello Stato da cui solo può venire il consenso e lo sviluppo in senso democratico di esso”.
    Ma era la fase antifascista ad avere fatto di Giovanni Amendola la figura di riferimento per la sua generazione. L’opposizione “intransigente, tenace, ferma” al nascente regime era stato infatti il “più alto e drammatico momento” della sua vicenda. La sua “grandezza politica e morale” si manifestò nella secessione aventiniana, quando “tessé le fila di una solidarietà democratica mai prima d’allora sperimentata […] ridiede dignità morale e politica alle forze antifasciste […], ed era ciò di cui esse avevano bisogno”. La sua intelligenza politica aveva colto i limiti dello Stato liberale. Il disegno dell’Unione nazionale, che “voleva rappresentare il rispetto della grande tradizione risorgimentale, ma con l’attenzione rivolta alle nuove condizioni sociali emerse dalla guerra e dai problemi che la debolezza dello Stato liberale e l’avvento del fascismo andavano sollecitando”, ne era la riprova. Rivendicava il valore dell’intransigenza, impasto con cui costruire uno spazio politico democratico. Era una frattura non componibile non solo con il fascismo, ma con l’effettivo sviluppo dello Stato liberale. L’atteggiamento “impolitico”, come lo ha definito Alfredo Capone, assunto da Amendola dopo il 3 gennaio, era espressione della concezione della politica che era andata maturando: azione terrena, protesa alla città degli uomini, fondata sulla consapevolezza dell’ “abisso invalicabile” separante la “realtà mondana della politica e la realtà misteriosa e insondabile dell’operare divino”. “Vi era – osservò La Malfa – tra Giovanni Amendola e l’avventurismo fascista un tale abisso morale, che solo la soppressione fisica dell’uomo poteva dar soddisfazione a quell’avversione bestiale”. In altri termini, vi era una contrapposizione, una “rottura radicale proprio rispetto al ‘politico’ fascista”.
    Pochi mesi dopo la Liberazione, nel dare forma all’interpretazione di Amendola maturata nel ventennio della dittatura, sosteneva: “Il suo costume, la stessa figura fisica da pastore protestante, il suo essere nelle cose e lontano e distaccato dalla cose, ne fanno l’erede diretto di una grande tradizione. Il giolittismo si colloca fra lui e questa tradizione [della Destra storica] senza sfiorarlo, quasi che si sia costituita attraverso Amendola una continuità della storia italiana, al di fuori e al di sopra delle contingenze”.

    Si era nel 1945: la riduzione di gran parte della storia unitaria a mera parentesi, a contingenza, come se lo sviluppo concreto dell’Italia tardo ottocentesca e primo novecentesca fosse stata una deviazione rispetto alla strada principale della modernità, intrapresa al momento della formazione dello Stato unitario, da Amendola giudicato l’unico fatto rivoluzionario della nostra storia, dice molto sulle illusorie ambizioni coltivate dagli azionisti, ma anche su una lettura della modernità italiana, che da Amendola risaliva a Cattaneo e poi ancora più indietro, fino a ritrovare nell’illuminismo italiano le sue radici. Ma, soprattutto, manifestava la certezza dell’affermazione della nuova politica, della quale Amendola era stato l’eroico martire fondatore. Essa reinterpretava, guardando come a una felice occasione l’avvento della società di massa, il nucleo dei valori fondanti racchiuso nel Risorgimento e dispersosi nella gretta pratica dell’Italia liberale.
    Vi era un fondo di verità, che ha reso Amendola un incompreso per un lungo tratto dell’Italia repubblicana. Giudicato liberale conservatore, cresciuto nel medesimo brodo di coltura dal quale sorsero i nazionalisti, monarchico oltre ogni evidenza, legalitario condannato alla passività, attento solo alla funzione delle élites dirigenti, sospettoso nei confronti del moderno partito di massa, nella migliore delle ipotesi un moralista con la responsabilità del fallimento della protesta dell’Aventino per il fermo proposito di attestarlo sul piano della questione morale, Amendola comprese, invece, il bisogno di un “senso” nuovo della politica. La divaricava radicalmente dalle religioni secolari che hanno accompagnato l’industrializzazione novecentesca. Dal suo estremo tentativo, dal suo comportamento dopo il delitto Matteotti, trasse origine uno dei filoni che trovarono nel Partito d’azione la forma partito, giustamente, in questo senso, investito dallo sdegno di un cattolico integralista come Augusto Del Noce.
    Un politico intellettuale, Amendola, che giunse all’impegno pubblico dopo avere attraversato pienamente la “crisi dei valori tradizionali” del pensiero europeo, dopo avere preso coscienza pienamente delle aporie della cultura europea, che avevano investito anche le fondamenta del vivere associato. Una riflessione, la sua, che partendo dalla crisi della coscienza europea, realizzava una ricerca cosmopolita, gli consentiva di comprendere la modernità del fascismo e di proporre, rispetto al suo trionfo, una testimonianza della sua elaborazione filosofica imperniata sulla ricerca di una nuova etica.
    Quella definizione di “pastore protestante” che, proposta la prima volta nel 1945, La Malfa avrebbe più volte ripetuto, sintetizzava la funzione che egli ebbe per quel nucleo di giovani. Tentarono di salvaguardarne soprattutto la concezione della politica, tutta immersa in questo mondo, e, nel contempo, vivificata “con la spinta a una libertà per tutti”, dotata di “una ‘anima’ nuova e sconosciuta alla democrazia positivista” (Capone) e giolittiana. E per La Malfa, quell’anima necessaria della politica, che Amendola gli aveva fatto scorgere, nella democrazia repubblicana si era inverata nella Resistenza antifascista, interpretata come giacimento di energie morali. Anche se pure essa aveva poi deviato, nel senso che aveva visto disperdere, per proprie responsabilità, le forze che quelle energie avevano espresso.
    Ciò che attraeva un giovane come La Malfa, il cui apprendistato era avvenuto, come si è detto, in una realtà politicamente più avanzata, quella espressa dalla Democrazia sociale veneziana, consapevole del carattere decisivo di un rapporto col movimento operaio della famiglia socialista, era quindi la rifondazione rigeneratrice della politica, che rigettava nel contempo il trasformismo e le religioni politiche.
    È impressionante la concordanza che, nei decenni avvenire, i goliardi manifestarono sul senso della nuova politica di Amendola. Pietro Grifone, divenuto alla fine degli anni venti comunista e rimasto nel contempo in contatto con La Malfa e con Fenoaltea, sostenne che “Giovanni Amendola influì su di noi come esempio di vita morale; più che come esponente di un preciso orientamento politico. Era un uomo che per le sue idee si era impegnato sino alla morte. Da lui ho preso la caratteristica, la lezione di un impegno assoluto di carattere prima di tutto morale”. Nello Rosselli, anch’egli aderente all’Unione nazionale, scriveva alla madre il 15 luglio 1925: “Ecco […] la ragione per cui ammiro tanto Amendola: lo ingiuriano, lo aggrediscono e lui, leader dell’opposizione, riesce sempre a mantenere alla contesa un carattere elevato, ideale, che esula sempre dalle contingenze personali”.



    (...)
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    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

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    Predefinito Re: La formazione di Ugo La Malfa

    Era questa autonoma forza della politica, la dignità in sé e per sé e non derivante dall’esterno, la sua natura machiavelliana e non machiavellica, che essi, in una parola, definirono moralità, ad attrarre i giovani goliardi.
    Colsero la discontinuità operata da Amendola con l’Aventino e con l’Unione nazionale rispetto alla tradizione del radicalismo di ascendenza nittiana. La fase finale della sua vita colorò il loro antifascismo, li condusse, pur nelle diverse collocazioni, a misurarsi con il problema prioritario del governo di una società.
    Amendola fu, in un periodo in cui si affermava in Italia un tratto caratteristico del periodo fra le due guerre, la personalizzazione dello scontro politico, l’incarnazione dell’antimussolini, il simbolo, anche fisico, della serietà, di una visione della politica radicalmente alternativa, che trovava fondamento su un’intrinseca forza e guardava quindi con disprezzo alla violenza. In fin dei conti, una simile visione aveva un fondamentale limite, il suo elitismo aristocratico, non solo per le virtù che richiedeva, ma per il suo anacronismo rispetto agli sviluppi effettivi della società italiana.
    L’ulteriore passaggio dell’impegno politico di La Malfa fu l’adesione al disegno amendoliano dell’Unione nazionale democratica. Il momento più rilevante fu sotto questo profilo l’intervento che pronunciò, a nome dei giovani goliardi, al congresso costitutivo dell’Unione, nel giugno 1925. Fu ripreso da Amendola nel suo intervento finale, proprio perché, consapevole della sconfitta del suo disegno sotteso all’Aventino, certo della chiusura di una credibile prospettiva di un’alternativa democratica al regime fascista, rinviava a un futuro, sì ineluttabile, ma imprecisato nel suo effettivo svolgimento, la funzione che aveva assegnato al primo partito democratico: “Abbiamo sentito questa mattina con viva soddisfazione – e per conto mio dico con viva commozione – un giovane, il quale ci ha portato una delle prime voci che vengono da questo benefico al di là del dopoguerra. Sono le prime voci che ci giungono dai licei e dalle università, dai primi che si sono sottratti alla sfera di influenza del partito dominante; ma questo piccolo manipolo sarà domani un reggimento, un corpo d’armata, un esercito: non abbiamo che da lasciar tempo al tempo”.
    E il giovane soldato del reggimento antifascista acquisì i galloni: al termine del congresso, infatti, La Malfa, in rappresentanza dei giovani, venne eletto nel consiglio nazionale dell’Unione nazionale.
    Nell’articolo, che si è già richiamato, apparso sulla rivista di Presutti, emerge con nettezza il dato caratterizzante La Malfa, da cui discende il resto, e sintetizzato da Spadolini nell’affermazione che egli era “figlio del pensiero classico italiano, che assegna la priorità al politico e non al sociale”. Egli scorgeva in due elementi essenziali il “successo” del congresso.
    Da un lato, appunto, la consapevolezza che la nuova politica sorgeva ex contrario da un’attenta e approfondita riflessione sul percorso unitario, del quale il fascismo era soltanto l’ultima espressione.
    Dall’altro, la sua costruzione, proiettata in un temporalmente indefinito “avvenire”, nutrito di “un vero sentito spirito democratico” al quale si sarebbe informata “la vita costituzionale del nostro paese”, avveniva facendo tabula rasa dell’effettivo svolgimento della vicenda unitaria. Non era solo il fascismo a essere parentetico, ma anche ciò che lo aveva preceduto. In questo giovanile ottimismo erano le radici del suo maturo pessimismo. La “ricostruzione”, una letterale palingenesi che riallacciava nascita e battesimo – una “rivoluzione democratica”, insomma, che infondeva un’anima al Risorgimento – avrebbe cancellato, si illudeva, i “nuovi principi della cosiddetta rivoluzione (sic), come cose che non lasceranno nessuna traccia”.


    https://www.facebook.com/notes/ugo-l...1506478338341/
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