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    Predefinito Il nostro antiparlamentarismo

    tratto da Comunismo n.ro 1 - 1974

    Non in ossequio alla insignificante “attualità” del fradicio mondo borghese ancora una volta svergogniamo il feticcio democratico di borghesi ed opportunisti: elezioni, parlamento. Non sprechiamo tempo e spazio per parlare di congiure di corridoio, di effimere alleanze, di spartizioni ministeriali e di poltrone, disgustoso andazzo cui ci hanno abituati i corrotti politicanti di mestiere. Non ci interessano, come mai ci hanno interessato, evoluzioni, involuzioni, accordi, scodinzolamenti dei vari Andreotti, Berlinguer, Craxi, ché da sempre il loro fine, che li accomuna in un sol fronte compatto, è il rimbambimento e l’aggiogamento della classe operaia.

    È la ferrea consegna ricevuta da generazioni di rivoluzionari, in perfetta continuità di schieramento per la causa dell’emancipazione del proletariato, che ci spinge ancora una volta a ribattere i “vecchi chiodi”, i cardini della teoria e dell’azione rivoluzionaria.

    Dopo l’immane macello della prima guerra mondiale, e nonostante il tradimento dei partiti della Seconda Internazionale, lo scenario sociale della vecchia Europa si presentava quanto mai esplosivo. In Russia la classe operaia guidata dai bolscevichi di Lenin aveva conquistato il potere fondando il primo Stato Operaio della storia; nel resto del continente le ali sinistre, rivoluzionarie, dei vecchi partiti socialisti stavano prendendo influenza negli strati più combattivi del proletariato. La soluzione rivoluzionaria sembrava ogni giorno più vicina.

    In Italia, come negli altri paesi europei, si pose al movimento operaio il problema di come agire praticamente per raggiungere lo scopo della conquista del potere. Un gruppo avanzato dei socialisti italiani sostenne al congresso di Bologna del 1919 che ormai si era aperta una antitesi, una incompatibilità fra lotta per la rivoluzione ed attività elettorale. Prendere la via delle elezioni voleva dire chiudersi quella della rivoluzione.

    Le ragioni tattiche di questa posizione della Sinistra erano, e sono, chiare: essendo ormai storicamente dimostrato che attraverso il parlamento nessun potere è raggiungibile da parte della classe operaia, partecipare alle elezioni avrebbe solo significato dare credibilità ad una istituzione verso la quale il proletariato occidentale già cominciava a mostrare indifferenza, distogliendo su inutili pettegole vittorie schedaiole l’interesse che i proletari di tutto il mondo mostravano verso la vittoria sovietica e l’esempio che stava impartendo. Altra ragione, e non secondaria, era il dispendio di forze e di mezzi anche finanziari che una campagna elettorale richiedeva. La visione della Sinistra era semplice: tagliamo i ponti legalitari e democratici alle nostre spalle, e la classe operaia si troverà a dover indirizzare tutte le sue energie in avanti, verso l’insurrezione armata, a distruggere lo Stato con tutte le sue propaggini, delle quali il parlamento è certo la più fetida.

    La questione fu portata al Secondo Congresso dell’Internazionale Comunista, che si svolse a Mosca nel 1920. In quella storica assise si ritenne che i partiti comunisti dell’Internazionale potessero utilmente sfruttare l’azione parlamentare allo scopo, beninteso, della distruzione rivoluzionaria del parlamento stesso e dello Stato.

    Lenin, occupato a combattere le tendenze di destra e di estrema sinistra, entrambe egualmente pericolose e da noi al pari di Lenin condannate e combattute, non valutò a pieno la portata tattica dell’astensionismo propugnato dalla Sinistra, confondendolo con un timore purista di essere contaminati dalla borghesia una volta entrati in contatto con essa. In realtà l’osservatorio dal quale la Sinistra aveva tratto le logiche conseguenze tattiche era, per questo argomento, molto più favorevole di quello dei bolscevichi, che si erano sempre trovati a lavorare in uno Stato autoritario, feudale, nel quale il proletariato non aveva avuto il tempo di essere avvelenato dalla stolida prassi elezionistica, data la breve ed impopolare vita del governo borghese democratico di Kerensky.

    Ma ben altre questioni fondamentali dovettero essere messe in chiaro in quel fondamentale congresso, e tutte ci trovarono sullo stesso fronte di ortodossia marxista difeso da Lenin. Difficile era invece porre la questione dell’astensionismo troppo in generale, data l’esperienza maturata fino a quel momento dal movimento operaio, e i comunisti italiani si rimisero alla decisione del congresso essendo chiara la soluzione: in principio tutti contro il parlamentarismo; in tattica, non stabilire né la partecipazione sempre e ovunque, né il boicottaggio sempre e ovunque.

    Noi ci sottomettemmo anche perché eravamo certi che un eventuale assalto rivoluzionario, che quella Europa infuocata dalla lotta di classe faceva presentire imminente, avrebbe spazzato via per sempre i parlamenti ed i dubbi sul loro utilizzo. Ma eravamo anche coscienti che il pericolo sarebbe esistito se e quando l’ondata rivoluzionaria fosse rifluita, cioè il pericolo che la lotta parlamentare invischiasse il partito a tal punto da denaturarne le caratteristiche di classe, fino a ripetere il vecchio schema dei partiti socialdemocratici della Seconda Internazionale, nei quali le immense strutture di partito erano diventate delle macchine elettorali, e solo elettorali, sulle quali gravava il peso frenante dei gruppi parlamentari, che immancabilmente costituivano ovunque le ali più destre dei partiti stessi.

    La rivoluzione in Europa non fu, ed i nostri timori, sempre apertamente espressi, si rivelarono profezie. Dalla distruzione del parlamento e degli altri ingranaggi statali si passò alla utilizzazione del parlamento per accelerare l’insurrezione. Poi si ricadde all’utilizzazione del parlamento come mezzo per arrivare con la maggioranza dei voti al potere della classe operaia (poi del popolo). Ed infine, e siamo alla Resistenza ed al P.C.I firmatario della Costituzione repubblicana, si passò dal parlamento mezzo al parlamento fine. Si era così arrivati alla fine del ciclo: non più il parlamento per la causa proletaria, ma il proletariato per la causa del parlamento.

    Il parlamentarismo è la forma di rappresentanza politica propria del regime borghese. Creato dalla borghesia rivoluzionaria secoli addietro, è stato da questa sempre utilizzato per avallare lo sfruttamento capitalistico della classe operaia occidentale e la politica militaresca coloniale e post-coloniale di sfruttamento delle classi povere del Terzo Mondo. Questa funzione non è certo cambiata con la “conquista” di seggi da parte di rappresentanti del movimento operaio, iniziatasi già all’inizio di questo secolo. Al contrario, tale partecipazione ha reso più accettabili ai proletari le misure antioperaie che venivano prese da questo organo padronale. Già nel 1919 Lenin così lo descriveva, nella famosa “Lettera agli operai d’Europa e d’America”:

    «Il parlamento borghese, sia pure il più democratico nella repubblica più democratica, nella quale permanga la proprietà dei capitalisti e il loro potere, è la macchina di cui un pugno di sfruttatori si serve per schiacciare milioni di lavoratori. I socialisti, lottando per emancipare i lavoratori dallo sfruttamento, hanno dovuto utilizzare i parlamenti borghesi, come una tribuna, come una delle basi per la propaganda, per l’agitazione, per l’organizzazione, fino a che la nostra lotta è rimasta entro i limiti del regime borghese. Ma oggi la storia mondiale ha posto all’ordine del giorno il compito di distruggere tutto questo regime, di abbattere e schiacciare gli sfruttatori, di passare dal capitalismo al socialismo, oggi, limitarsi al parlamentarismo borghese, alla democrazia borghese, abbellire questa democrazia come “democrazia” in generale, celarne il carattere borghese, dimenticare che il suffragio universale, fino a che perdura la proprietà dei capitalisti, è solo una delle armi dello Stato borghese, significa tradire vergognosamente il proletariato, passare dalla parte del suo nemico di classe, dalla parte della borghesia, significa essere un traditore e un rinnegato».

    Così sessanta anni fa, quando ancora la partecipazione delle grandi masse lavoratrici alle elezioni era una novità ma della quale già a sufficienza si erano visti gli effetti, il grande Lenin bollava il meschino Berlinguer, che doveva ancora nascere, di traditore e rinnegato, a dimostrare quanto antiche e stantie siano le moderne “Terze vie”, i “Compromessi storici” in cui si cimentano gli odierni carognoni, inferiori ai Kautsky, Noske, Mac Donald e Stalin nella levatura individuale, ma non nella virulenza controrivoluzionaria.

    In realtà il parlamento mantenne il reale potere politico per breve tempo, presto esautorato dall’esecutivo, più facilmente manovrabile e influenzabile dai grandi capitalisti e dalle banche, in modo mascherato o palese. Nel secondo caso si ricordano le dittature di Cromwell, Napoleone III, Mussolini, Hitler, ecc. durante le quali la borghesia, rinunciando al paravento democratico, esercitava apertamente la sua dittatura politica ed economica. A questo campo da tempo il nostro movimento ha associato le dittature del capitalismo di Statale nei paesi cosiddetti socialisti.

    Preferita comunque dalla borghesia moderna è la prima forma, quella meno manifesta, di controllo del potere politico, alla quale ricorre tutte le volte che le è possibile. In essa, mentre periodicamente i cittadini vengono chiamati ad esercitare il sacro diritto-dovere del voto, la borghesia esercita il suo potere in modo altrettanto assoluto che nella forma fascista in quanto sa di avere in mano saldamente esercito, polizia, tribunali ed un’infinità di sottostrutture facilmente controllabili, cominciando dal clero per finire con scuola, enti assistenziali, mezzi d’informazione, ecc. Ma il sostegno più sicuro della borghesia è proprio quello strato di mantenuti che gli operai hanno ingenuamente mandato in parlamento con i loro voti, che il partito bollò come “opportunisti”.

    Chiunque sieda in parlamento, o sul seggio di ministro, sa che tali strutture statali o filo-statali sono costruite per funzionare in un solo modo, non le può modificare nella loro essenza né dominare, ma ne è invece dominato. Gli ordini vengono dai grandi trusts multinazionali, dalla Confindustria, dalle banche, dai proprietari terrieri, e governo e parlamento possono solo prenderne gli ordini e trarne le conseguenze legislative. Il parlamento in particolare vede sempre più ridotta la sua funzione alla ratifica dei vari decreti presidenziali, governativi e ministeriali, e questa tendenza non può certo essere rovesciata dalle imbelli strida di buffoni come Pannella e soci. In questo senso ben poco è rimasto del vecchio sistema parlamentare ottocentesco, avendo la moderna repubblica borghese recuperato ed utilizzato gli strumenti di dominio dittatoriale messi a punto dal quotidianamente esecrato fascismo.

    Mentre il potere borghese è sempre più dittatoriale nei fatti, nelle apparenze ostenta sempre più democrazia, tolleranza, aperture a “nuove vie”. Così in coincidenza con l’approfondirsi della nuova crisi mondiale le ubriacature elettorali si susseguono a ritmo frenetico; per limitarci all’Italia, negli ultimi anni si sono avute elezioni di tutti i tipi e ad ogni stormir di fronda: politiche, amministrative, referendum, per la scuola, per il quartiere, presto per la suprema buffonata, il parlamento europeo.

    Errata lezione trarrebbero coloro che da queste constatazioni storiche si proponessero di riportare il parlamento al suo antico ruolo, perché esso, come già detto, è sempre stato organo di oppressione borghese e nessuna funzione progressiva può ad esso essere oggi attribuita. Esso è ed è sempre stato il simbolo di un’era storica, quella del modo di produzione capitalistico, il quale è esso stesso superato, e sopravvive ormai a sé stesso in attesa che una possente spallata del proletariato rivoluzionario lo cancelli dalla faccia della terra. Tale sopravvivenza è stata resa possibile dal formarsi di organizzazioni opportunistiche che proprio grazie al mito elezionistico hanno inculcato nella classe operaia il miraggio di una conquista del potere indolore, graduale, che si sarebbe verificata il giorno in cui il numero di schede nelle urne fosse contato di una superiore a quelle del nemico. La storia ha ampiamente dimostrato, nei pochi casi in cui ciò è avvenuto, che la borghesia non esita a confutare col ferro e col fuoco la “volontà popolare” democraticamente espressa, e quindi coloro che difendono tale visione della lotta di classe sono solo da considerarsi traditori e rinnegati al soldo dei padroni.

    La storia ha al contrario dimostrato la classica visione rivoluzionaria propria di Marx, di Lenin e della Sinistra Comunista, secondo la quale unica via alla conquista del potere da parte della classe operaia è l’insurrezione armata, guidata dal Partito Comunista Internazionale, il più possibile estesa internazionalmente, cui segua un periodo di dittatura rivoluzionaria del proletariato, che distrugga tutte le strutture del potere borghese e vi sostituisca le sue proprie, le sole adatte a porre le basi della nuova società senza classi.

    Compito dei proletari non è quindi quello di “scegliere” il miglior partito o, peggio, la migliore persona che rappresenti le loro necessità in una assise che ogni giorno si ingegna a trovare mezzi sempre più raffinati di sfruttamento dei lavoratori, ma è di intensificare le loro lotte contro l’oppressione economica della borghesia con azioni sempre più dure, compatte, incuranti del bene della “economia nazionale”, denunciando apertamente opportunisti politici e sindacali che si frappongono fra loro ed il nemico diretto.

    Che gli operai si stringano intorno al loro partito politico di classe, il Partito Comunista Internazionale, e sostituiscano alla parola d’ordine “Preparazione elettorale” quella che la storia ci indica a chiare lettere, di “Preparazione rivoluzionaria” all’abbattimento violento del regime capitalistico.


    PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE
    Ultima modifica di Anticapitaslista; 21-08-12 alle 22:51

  2. #2
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    Predefinito Re: Il nostro antiparlamentarismo

    compagni dai campi da tennis e dalle officine di biciclette da corsa
    portate il laptop prendete lo smartphone...

    Insomma, dal numero del 1974, insomma, dai, avranno pur scritto qualcosa di più attuale

    Quello che penso io è che il comunismo è MORTO tra la gente perchè ha mitizzato e sacralizzato i vecchi maestri, a partire da marx in giù, senza aggiornarsi con i tempi nella comunicazione, nella moda, e anche nelle tematiche ma piuttosto andando incontro a braccia aperte a chiunque fosse CONTRO a prescindere, non importano i metodi, non importano i perchè o le battaglie, ma l'importante essere CONTRO.
    In tutto questo la sacralità dei grandi maestri non ha permesso un lavoro certosino di aggiornamento dell'idea, e quindi nell'anno del signore 2012 ci troviamo con i comunisti che parlano di classi sociali proletariati versus capitalisti, maddai. Ormai si è tutti borghesi, chi più, chi meno, non c'è più (se c'è mai stata) coscienza di classe e come sempre si vive l'un contro l'altro armati perchè questa è la natura dell'uomo.

    L'articolo non lo leggo perchè tra le tante cose che reputo negative della corrente comunista c'è sempre stata l'abitudine a parlare con costrutti sintattici che necessitano minimo un paio d'anni all'accademia della Crusca.
    SARAI PAGATO ANCHE SENZA DOVERE FINGERE DI CONTARE TOMBINI

  3. #3
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    Predefinito Re: Il nostro antiparlamentarismo

    Citazione Originariamente Scritto da Hieronimous Bosch Visualizza Messaggio
    L'articolo non lo leggo perchè tra le tante cose che reputo negative della corrente comunista c'è sempre stata l'abitudine a parlare con costrutti sintattici che necessitano minimo un paio d'anni all'accademia della Crusca.
    frutto di anni di duro lavoro in fabbrica
    The Age of Chivalry is gone; that of sophisters, economists and calculators has succeeded. E. Burke

  4. #4
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    Predefinito Re: Il nostro antiparlamentarismo

    Citazione Originariamente Scritto da Hieronimous Bosch Visualizza Messaggio
    L'articolo non lo leggo perchè tra le tante cose che reputo negative della corrente comunista c'è sempre stata l'abitudine a parlare con costrutti sintattici che necessitano minimo un paio d'anni all'accademia della Crusca.
    ma no in realtà ti assicuro che è una supercazzola. sono sempre le stesse parole e locuzioni ripetute in modo casuale.
    qualcuno dovrebbe divertirsi a programmare un generatore di testi comunisti

  5. #5
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    Predefinito Re: Il nostro antiparlamentarismo

    Citazione Originariamente Scritto da Hieronimous Bosch Visualizza Messaggio
    compagni dai campi da tennis e dalle officine di biciclette da corsa
    portate il laptop prendete lo smartphone...

    Insomma, dal numero del 1974, insomma, dai, avranno pur scritto qualcosa di più attuale
    più che altro c'è da chiedersi cosa hanno fatto dal 74 ad oggi...

  6. #6
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    Predefinito Re: Il nostro antiparlamentarismo

    Citazione Originariamente Scritto da Anticapitaslista Visualizza Messaggio
    tratto da Comunismo n.ro 1 - 1974

    Non in ossequio alla insignificante “attualità” del fradicio mondo borghese ancora una volta svergogniamo il feticcio democratico di borghesi ed opportunisti: elezioni, parlamento. Non sprechiamo tempo e spazio per parlare di congiure di corridoio, di effimere alleanze, di spartizioni ministeriali e di poltrone, disgustoso andazzo cui ci hanno abituati i corrotti politicanti di mestiere. Non ci interessano, come mai ci hanno interessato, evoluzioni, involuzioni, accordi, scodinzolamenti dei vari Andreotti, Berlinguer, Craxi, ché da sempre il loro fine, che li accomuna in un sol fronte compatto, è il rimbambimento e l’aggiogamento della classe operaia.

    È la ferrea consegna ricevuta da generazioni di rivoluzionari, in perfetta continuità di schieramento per la causa dell’emancipazione del proletariato, che ci spinge ancora una volta a ribattere i “vecchi chiodi”, i cardini della teoria e dell’azione rivoluzionaria.

    Dopo l’immane macello della prima guerra mondiale, e nonostante il tradimento dei partiti della Seconda Internazionale, lo scenario sociale della vecchia Europa si presentava quanto mai esplosivo. In Russia la classe operaia guidata dai bolscevichi di Lenin aveva conquistato il potere fondando il primo Stato Operaio della storia; nel resto del continente le ali sinistre, rivoluzionarie, dei vecchi partiti socialisti stavano prendendo influenza negli strati più combattivi del proletariato. La soluzione rivoluzionaria sembrava ogni giorno più vicina.

    In Italia, come negli altri paesi europei, si pose al movimento operaio il problema di come agire praticamente per raggiungere lo scopo della conquista del potere. Un gruppo avanzato dei socialisti italiani sostenne al congresso di Bologna del 1919 che ormai si era aperta una antitesi, una incompatibilità fra lotta per la rivoluzione ed attività elettorale. Prendere la via delle elezioni voleva dire chiudersi quella della rivoluzione.

    Le ragioni tattiche di questa posizione della Sinistra erano, e sono, chiare: essendo ormai storicamente dimostrato che attraverso il parlamento nessun potere è raggiungibile da parte della classe operaia, partecipare alle elezioni avrebbe solo significato dare credibilità ad una istituzione verso la quale il proletariato occidentale già cominciava a mostrare indifferenza, distogliendo su inutili pettegole vittorie schedaiole l’interesse che i proletari di tutto il mondo mostravano verso la vittoria sovietica e l’esempio che stava impartendo. Altra ragione, e non secondaria, era il dispendio di forze e di mezzi anche finanziari che una campagna elettorale richiedeva. La visione della Sinistra era semplice: tagliamo i ponti legalitari e democratici alle nostre spalle, e la classe operaia si troverà a dover indirizzare tutte le sue energie in avanti, verso l’insurrezione armata, a distruggere lo Stato con tutte le sue propaggini, delle quali il parlamento è certo la più fetida.

    La questione fu portata al Secondo Congresso dell’Internazionale Comunista, che si svolse a Mosca nel 1920. In quella storica assise si ritenne che i partiti comunisti dell’Internazionale potessero utilmente sfruttare l’azione parlamentare allo scopo, beninteso, della distruzione rivoluzionaria del parlamento stesso e dello Stato.

    Lenin, occupato a combattere le tendenze di destra e di estrema sinistra, entrambe egualmente pericolose e da noi al pari di Lenin condannate e combattute, non valutò a pieno la portata tattica dell’astensionismo propugnato dalla Sinistra, confondendolo con un timore purista di essere contaminati dalla borghesia una volta entrati in contatto con essa. In realtà l’osservatorio dal quale la Sinistra aveva tratto le logiche conseguenze tattiche era, per questo argomento, molto più favorevole di quello dei bolscevichi, che si erano sempre trovati a lavorare in uno Stato autoritario, feudale, nel quale il proletariato non aveva avuto il tempo di essere avvelenato dalla stolida prassi elezionistica, data la breve ed impopolare vita del governo borghese democratico di Kerensky.

    Ma ben altre questioni fondamentali dovettero essere messe in chiaro in quel fondamentale congresso, e tutte ci trovarono sullo stesso fronte di ortodossia marxista difeso da Lenin. Difficile era invece porre la questione dell’astensionismo troppo in generale, data l’esperienza maturata fino a quel momento dal movimento operaio, e i comunisti italiani si rimisero alla decisione del congresso essendo chiara la soluzione: in principio tutti contro il parlamentarismo; in tattica, non stabilire né la partecipazione sempre e ovunque, né il boicottaggio sempre e ovunque.

    Noi ci sottomettemmo anche perché eravamo certi che un eventuale assalto rivoluzionario, che quella Europa infuocata dalla lotta di classe faceva presentire imminente, avrebbe spazzato via per sempre i parlamenti ed i dubbi sul loro utilizzo. Ma eravamo anche coscienti che il pericolo sarebbe esistito se e quando l’ondata rivoluzionaria fosse rifluita, cioè il pericolo che la lotta parlamentare invischiasse il partito a tal punto da denaturarne le caratteristiche di classe, fino a ripetere il vecchio schema dei partiti socialdemocratici della Seconda Internazionale, nei quali le immense strutture di partito erano diventate delle macchine elettorali, e solo elettorali, sulle quali gravava il peso frenante dei gruppi parlamentari, che immancabilmente costituivano ovunque le ali più destre dei partiti stessi.

    La rivoluzione in Europa non fu, ed i nostri timori, sempre apertamente espressi, si rivelarono profezie. Dalla distruzione del parlamento e degli altri ingranaggi statali si passò alla utilizzazione del parlamento per accelerare l’insurrezione. Poi si ricadde all’utilizzazione del parlamento come mezzo per arrivare con la maggioranza dei voti al potere della classe operaia (poi del popolo). Ed infine, e siamo alla Resistenza ed al P.C.I firmatario della Costituzione repubblicana, si passò dal parlamento mezzo al parlamento fine. Si era così arrivati alla fine del ciclo: non più il parlamento per la causa proletaria, ma il proletariato per la causa del parlamento.

    Il parlamentarismo è la forma di rappresentanza politica propria del regime borghese. Creato dalla borghesia rivoluzionaria secoli addietro, è stato da questa sempre utilizzato per avallare lo sfruttamento capitalistico della classe operaia occidentale e la politica militaresca coloniale e post-coloniale di sfruttamento delle classi povere del Terzo Mondo. Questa funzione non è certo cambiata con la “conquista” di seggi da parte di rappresentanti del movimento operaio, iniziatasi già all’inizio di questo secolo. Al contrario, tale partecipazione ha reso più accettabili ai proletari le misure antioperaie che venivano prese da questo organo padronale. Già nel 1919 Lenin così lo descriveva, nella famosa “Lettera agli operai d’Europa e d’America”:

    «Il parlamento borghese, sia pure il più democratico nella repubblica più democratica, nella quale permanga la proprietà dei capitalisti e il loro potere, è la macchina di cui un pugno di sfruttatori si serve per schiacciare milioni di lavoratori. I socialisti, lottando per emancipare i lavoratori dallo sfruttamento, hanno dovuto utilizzare i parlamenti borghesi, come una tribuna, come una delle basi per la propaganda, per l’agitazione, per l’organizzazione, fino a che la nostra lotta è rimasta entro i limiti del regime borghese. Ma oggi la storia mondiale ha posto all’ordine del giorno il compito di distruggere tutto questo regime, di abbattere e schiacciare gli sfruttatori, di passare dal capitalismo al socialismo, oggi, limitarsi al parlamentarismo borghese, alla democrazia borghese, abbellire questa democrazia come “democrazia” in generale, celarne il carattere borghese, dimenticare che il suffragio universale, fino a che perdura la proprietà dei capitalisti, è solo una delle armi dello Stato borghese, significa tradire vergognosamente il proletariato, passare dalla parte del suo nemico di classe, dalla parte della borghesia, significa essere un traditore e un rinnegato».

    Così sessanta anni fa, quando ancora la partecipazione delle grandi masse lavoratrici alle elezioni era una novità ma della quale già a sufficienza si erano visti gli effetti, il grande Lenin bollava il meschino Berlinguer, che doveva ancora nascere, di traditore e rinnegato, a dimostrare quanto antiche e stantie siano le moderne “Terze vie”, i “Compromessi storici” in cui si cimentano gli odierni carognoni, inferiori ai Kautsky, Noske, Mac Donald e Stalin nella levatura individuale, ma non nella virulenza controrivoluzionaria.

    In realtà il parlamento mantenne il reale potere politico per breve tempo, presto esautorato dall’esecutivo, più facilmente manovrabile e influenzabile dai grandi capitalisti e dalle banche, in modo mascherato o palese. Nel secondo caso si ricordano le dittature di Cromwell, Napoleone III, Mussolini, Hitler, ecc. durante le quali la borghesia, rinunciando al paravento democratico, esercitava apertamente la sua dittatura politica ed economica. A questo campo da tempo il nostro movimento ha associato le dittature del capitalismo di Statale nei paesi cosiddetti socialisti.

    Preferita comunque dalla borghesia moderna è la prima forma, quella meno manifesta, di controllo del potere politico, alla quale ricorre tutte le volte che le è possibile. In essa, mentre periodicamente i cittadini vengono chiamati ad esercitare il sacro diritto-dovere del voto, la borghesia esercita il suo potere in modo altrettanto assoluto che nella forma fascista in quanto sa di avere in mano saldamente esercito, polizia, tribunali ed un’infinità di sottostrutture facilmente controllabili, cominciando dal clero per finire con scuola, enti assistenziali, mezzi d’informazione, ecc. Ma il sostegno più sicuro della borghesia è proprio quello strato di mantenuti che gli operai hanno ingenuamente mandato in parlamento con i loro voti, che il partito bollò come “opportunisti”.

    Chiunque sieda in parlamento, o sul seggio di ministro, sa che tali strutture statali o filo-statali sono costruite per funzionare in un solo modo, non le può modificare nella loro essenza né dominare, ma ne è invece dominato. Gli ordini vengono dai grandi trusts multinazionali, dalla Confindustria, dalle banche, dai proprietari terrieri, e governo e parlamento possono solo prenderne gli ordini e trarne le conseguenze legislative. Il parlamento in particolare vede sempre più ridotta la sua funzione alla ratifica dei vari decreti presidenziali, governativi e ministeriali, e questa tendenza non può certo essere rovesciata dalle imbelli strida di buffoni come Pannella e soci. In questo senso ben poco è rimasto del vecchio sistema parlamentare ottocentesco, avendo la moderna repubblica borghese recuperato ed utilizzato gli strumenti di dominio dittatoriale messi a punto dal quotidianamente esecrato fascismo.

    Mentre il potere borghese è sempre più dittatoriale nei fatti, nelle apparenze ostenta sempre più democrazia, tolleranza, aperture a “nuove vie”. Così in coincidenza con l’approfondirsi della nuova crisi mondiale le ubriacature elettorali si susseguono a ritmo frenetico; per limitarci all’Italia, negli ultimi anni si sono avute elezioni di tutti i tipi e ad ogni stormir di fronda: politiche, amministrative, referendum, per la scuola, per il quartiere, presto per la suprema buffonata, il parlamento europeo.

    Errata lezione trarrebbero coloro che da queste constatazioni storiche si proponessero di riportare il parlamento al suo antico ruolo, perché esso, come già detto, è sempre stato organo di oppressione borghese e nessuna funzione progressiva può ad esso essere oggi attribuita. Esso è ed è sempre stato il simbolo di un’era storica, quella del modo di produzione capitalistico, il quale è esso stesso superato, e sopravvive ormai a sé stesso in attesa che una possente spallata del proletariato rivoluzionario lo cancelli dalla faccia della terra. Tale sopravvivenza è stata resa possibile dal formarsi di organizzazioni opportunistiche che proprio grazie al mito elezionistico hanno inculcato nella classe operaia il miraggio di una conquista del potere indolore, graduale, che si sarebbe verificata il giorno in cui il numero di schede nelle urne fosse contato di una superiore a quelle del nemico. La storia ha ampiamente dimostrato, nei pochi casi in cui ciò è avvenuto, che la borghesia non esita a confutare col ferro e col fuoco la “volontà popolare” democraticamente espressa, e quindi coloro che difendono tale visione della lotta di classe sono solo da considerarsi traditori e rinnegati al soldo dei padroni.

    La storia ha al contrario dimostrato la classica visione rivoluzionaria propria di Marx, di Lenin e della Sinistra Comunista, secondo la quale unica via alla conquista del potere da parte della classe operaia è l’insurrezione armata, guidata dal Partito Comunista Internazionale, il più possibile estesa internazionalmente, cui segua un periodo di dittatura rivoluzionaria del proletariato, che distrugga tutte le strutture del potere borghese e vi sostituisca le sue proprie, le sole adatte a porre le basi della nuova società senza classi.

    Compito dei proletari non è quindi quello di “scegliere” il miglior partito o, peggio, la migliore persona che rappresenti le loro necessità in una assise che ogni giorno si ingegna a trovare mezzi sempre più raffinati di sfruttamento dei lavoratori, ma è di intensificare le loro lotte contro l’oppressione economica della borghesia con azioni sempre più dure, compatte, incuranti del bene della “economia nazionale”, denunciando apertamente opportunisti politici e sindacali che si frappongono fra loro ed il nemico diretto.

    Che gli operai si stringano intorno al loro partito politico di classe, il Partito Comunista Internazionale, e sostituiscano alla parola d’ordine “Preparazione elettorale” quella che la storia ci indica a chiare lettere, di “Preparazione rivoluzionaria” all’abbattimento violento del regime capitalistico.


    PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE
    BLABLABLABLABLABLABLABLABLA....STILE DON ABBONDIO COL CELEBERRIMO "LATINORUM" .............non è un caso se dopo lustri i lavoratori hanno capito e alle ultime tornate elettorali hanno conestrema chiarezza detto cosa ne pensano di questi personaggi .
    Ultima modifica di albertob; 22-08-12 alle 09:12

  7. #7
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    Predefinito Re: Il nostro antiparlamentarismo

    Citazione Originariamente Scritto da Anticapitaslista Visualizza Messaggio
    tratto da Comunismo n.ro 1 - 1974

    Non in ossequio alla insignificante “attualità” del fradicio mondo borghese ancora una volta svergogniamo il feticcio democratico di borghesi ed opportunisti: elezioni, parlamento. Non sprechiamo tempo e spazio per parlare di congiure di corridoio, di effimere alleanze, di spartizioni ministeriali e di poltrone, disgustoso andazzo cui ci hanno abituati i corrotti politicanti di mestiere. Non ci interessano, come mai ci hanno interessato, evoluzioni, involuzioni, accordi, scodinzolamenti dei vari Andreotti, Berlinguer, Craxi, ché da sempre il loro fine, che li accomuna in un sol fronte compatto, è il rimbambimento e l’aggiogamento della classe operaia.

    È la ferrea consegna ricevuta da generazioni di rivoluzionari, in perfetta continuità di schieramento per la causa dell’emancipazione del proletariato, che ci spinge ancora una volta a ribattere i “vecchi chiodi”, i cardini della teoria e dell’azione rivoluzionaria.

    Dopo l’immane macello della prima guerra mondiale, e nonostante il tradimento dei partiti della Seconda Internazionale, lo scenario sociale della vecchia Europa si presentava quanto mai esplosivo. In Russia la classe operaia guidata dai bolscevichi di Lenin aveva conquistato il potere fondando il primo Stato Operaio della storia; nel resto del continente le ali sinistre, rivoluzionarie, dei vecchi partiti socialisti stavano prendendo influenza negli strati più combattivi del proletariato. La soluzione rivoluzionaria sembrava ogni giorno più vicina.

    In Italia, come negli altri paesi europei, si pose al movimento operaio il problema di come agire praticamente per raggiungere lo scopo della conquista del potere. Un gruppo avanzato dei socialisti italiani sostenne al congresso di Bologna del 1919 che ormai si era aperta una antitesi, una incompatibilità fra lotta per la rivoluzione ed attività elettorale. Prendere la via delle elezioni voleva dire chiudersi quella della rivoluzione.

    Le ragioni tattiche di questa posizione della Sinistra erano, e sono, chiare: essendo ormai storicamente dimostrato che attraverso il parlamento nessun potere è raggiungibile da parte della classe operaia, partecipare alle elezioni avrebbe solo significato dare credibilità ad una istituzione verso la quale il proletariato occidentale già cominciava a mostrare indifferenza, distogliendo su inutili pettegole vittorie schedaiole l’interesse che i proletari di tutto il mondo mostravano verso la vittoria sovietica e l’esempio che stava impartendo. Altra ragione, e non secondaria, era il dispendio di forze e di mezzi anche finanziari che una campagna elettorale richiedeva. La visione della Sinistra era semplice: tagliamo i ponti legalitari e democratici alle nostre spalle, e la classe operaia si troverà a dover indirizzare tutte le sue energie in avanti, verso l’insurrezione armata, a distruggere lo Stato con tutte le sue propaggini, delle quali il parlamento è certo la più fetida.

    La questione fu portata al Secondo Congresso dell’Internazionale Comunista, che si svolse a Mosca nel 1920. In quella storica assise si ritenne che i partiti comunisti dell’Internazionale potessero utilmente sfruttare l’azione parlamentare allo scopo, beninteso, della distruzione rivoluzionaria del parlamento stesso e dello Stato.

    Lenin, occupato a combattere le tendenze di destra e di estrema sinistra, entrambe egualmente pericolose e da noi al pari di Lenin condannate e combattute, non valutò a pieno la portata tattica dell’astensionismo propugnato dalla Sinistra, confondendolo con un timore purista di essere contaminati dalla borghesia una volta entrati in contatto con essa. In realtà l’osservatorio dal quale la Sinistra aveva tratto le logiche conseguenze tattiche era, per questo argomento, molto più favorevole di quello dei bolscevichi, che si erano sempre trovati a lavorare in uno Stato autoritario, feudale, nel quale il proletariato non aveva avuto il tempo di essere avvelenato dalla stolida prassi elezionistica, data la breve ed impopolare vita del governo borghese democratico di Kerensky.

    Ma ben altre questioni fondamentali dovettero essere messe in chiaro in quel fondamentale congresso, e tutte ci trovarono sullo stesso fronte di ortodossia marxista difeso da Lenin. Difficile era invece porre la questione dell’astensionismo troppo in generale, data l’esperienza maturata fino a quel momento dal movimento operaio, e i comunisti italiani si rimisero alla decisione del congresso essendo chiara la soluzione: in principio tutti contro il parlamentarismo; in tattica, non stabilire né la partecipazione sempre e ovunque, né il boicottaggio sempre e ovunque.

    Noi ci sottomettemmo anche perché eravamo certi che un eventuale assalto rivoluzionario, che quella Europa infuocata dalla lotta di classe faceva presentire imminente, avrebbe spazzato via per sempre i parlamenti ed i dubbi sul loro utilizzo. Ma eravamo anche coscienti che il pericolo sarebbe esistito se e quando l’ondata rivoluzionaria fosse rifluita, cioè il pericolo che la lotta parlamentare invischiasse il partito a tal punto da denaturarne le caratteristiche di classe, fino a ripetere il vecchio schema dei partiti socialdemocratici della Seconda Internazionale, nei quali le immense strutture di partito erano diventate delle macchine elettorali, e solo elettorali, sulle quali gravava il peso frenante dei gruppi parlamentari, che immancabilmente costituivano ovunque le ali più destre dei partiti stessi.

    La rivoluzione in Europa non fu, ed i nostri timori, sempre apertamente espressi, si rivelarono profezie. Dalla distruzione del parlamento e degli altri ingranaggi statali si passò alla utilizzazione del parlamento per accelerare l’insurrezione. Poi si ricadde all’utilizzazione del parlamento come mezzo per arrivare con la maggioranza dei voti al potere della classe operaia (poi del popolo). Ed infine, e siamo alla Resistenza ed al P.C.I firmatario della Costituzione repubblicana, si passò dal parlamento mezzo al parlamento fine. Si era così arrivati alla fine del ciclo: non più il parlamento per la causa proletaria, ma il proletariato per la causa del parlamento.

    Il parlamentarismo è la forma di rappresentanza politica propria del regime borghese. Creato dalla borghesia rivoluzionaria secoli addietro, è stato da questa sempre utilizzato per avallare lo sfruttamento capitalistico della classe operaia occidentale e la politica militaresca coloniale e post-coloniale di sfruttamento delle classi povere del Terzo Mondo. Questa funzione non è certo cambiata con la “conquista” di seggi da parte di rappresentanti del movimento operaio, iniziatasi già all’inizio di questo secolo. Al contrario, tale partecipazione ha reso più accettabili ai proletari le misure antioperaie che venivano prese da questo organo padronale. Già nel 1919 Lenin così lo descriveva, nella famosa “Lettera agli operai d’Europa e d’America”:

    «Il parlamento borghese, sia pure il più democratico nella repubblica più democratica, nella quale permanga la proprietà dei capitalisti e il loro potere, è la macchina di cui un pugno di sfruttatori si serve per schiacciare milioni di lavoratori. I socialisti, lottando per emancipare i lavoratori dallo sfruttamento, hanno dovuto utilizzare i parlamenti borghesi, come una tribuna, come una delle basi per la propaganda, per l’agitazione, per l’organizzazione, fino a che la nostra lotta è rimasta entro i limiti del regime borghese. Ma oggi la storia mondiale ha posto all’ordine del giorno il compito di distruggere tutto questo regime, di abbattere e schiacciare gli sfruttatori, di passare dal capitalismo al socialismo, oggi, limitarsi al parlamentarismo borghese, alla democrazia borghese, abbellire questa democrazia come “democrazia” in generale, celarne il carattere borghese, dimenticare che il suffragio universale, fino a che perdura la proprietà dei capitalisti, è solo una delle armi dello Stato borghese, significa tradire vergognosamente il proletariato, passare dalla parte del suo nemico di classe, dalla parte della borghesia, significa essere un traditore e un rinnegato».

    Così sessanta anni fa, quando ancora la partecipazione delle grandi masse lavoratrici alle elezioni era una novità ma della quale già a sufficienza si erano visti gli effetti, il grande Lenin bollava il meschino Berlinguer, che doveva ancora nascere, di traditore e rinnegato, a dimostrare quanto antiche e stantie siano le moderne “Terze vie”, i “Compromessi storici” in cui si cimentano gli odierni carognoni, inferiori ai Kautsky, Noske, Mac Donald e Stalin nella levatura individuale, ma non nella virulenza controrivoluzionaria.

    In realtà il parlamento mantenne il reale potere politico per breve tempo, presto esautorato dall’esecutivo, più facilmente manovrabile e influenzabile dai grandi capitalisti e dalle banche, in modo mascherato o palese. Nel secondo caso si ricordano le dittature di Cromwell, Napoleone III, Mussolini, Hitler, ecc. durante le quali la borghesia, rinunciando al paravento democratico, esercitava apertamente la sua dittatura politica ed economica. A questo campo da tempo il nostro movimento ha associato le dittature del capitalismo di Statale nei paesi cosiddetti socialisti.

    Preferita comunque dalla borghesia moderna è la prima forma, quella meno manifesta, di controllo del potere politico, alla quale ricorre tutte le volte che le è possibile. In essa, mentre periodicamente i cittadini vengono chiamati ad esercitare il sacro diritto-dovere del voto, la borghesia esercita il suo potere in modo altrettanto assoluto che nella forma fascista in quanto sa di avere in mano saldamente esercito, polizia, tribunali ed un’infinità di sottostrutture facilmente controllabili, cominciando dal clero per finire con scuola, enti assistenziali, mezzi d’informazione, ecc. Ma il sostegno più sicuro della borghesia è proprio quello strato di mantenuti che gli operai hanno ingenuamente mandato in parlamento con i loro voti, che il partito bollò come “opportunisti”.

    Chiunque sieda in parlamento, o sul seggio di ministro, sa che tali strutture statali o filo-statali sono costruite per funzionare in un solo modo, non le può modificare nella loro essenza né dominare, ma ne è invece dominato. Gli ordini vengono dai grandi trusts multinazionali, dalla Confindustria, dalle banche, dai proprietari terrieri, e governo e parlamento possono solo prenderne gli ordini e trarne le conseguenze legislative. Il parlamento in particolare vede sempre più ridotta la sua funzione alla ratifica dei vari decreti presidenziali, governativi e ministeriali, e questa tendenza non può certo essere rovesciata dalle imbelli strida di buffoni come Pannella e soci. In questo senso ben poco è rimasto del vecchio sistema parlamentare ottocentesco, avendo la moderna repubblica borghese recuperato ed utilizzato gli strumenti di dominio dittatoriale messi a punto dal quotidianamente esecrato fascismo.

    Mentre il potere borghese è sempre più dittatoriale nei fatti, nelle apparenze ostenta sempre più democrazia, tolleranza, aperture a “nuove vie”. Così in coincidenza con l’approfondirsi della nuova crisi mondiale le ubriacature elettorali si susseguono a ritmo frenetico; per limitarci all’Italia, negli ultimi anni si sono avute elezioni di tutti i tipi e ad ogni stormir di fronda: politiche, amministrative, referendum, per la scuola, per il quartiere, presto per la suprema buffonata, il parlamento europeo.

    Errata lezione trarrebbero coloro che da queste constatazioni storiche si proponessero di riportare il parlamento al suo antico ruolo, perché esso, come già detto, è sempre stato organo di oppressione borghese e nessuna funzione progressiva può ad esso essere oggi attribuita. Esso è ed è sempre stato il simbolo di un’era storica, quella del modo di produzione capitalistico, il quale è esso stesso superato, e sopravvive ormai a sé stesso in attesa che una possente spallata del proletariato rivoluzionario lo cancelli dalla faccia della terra. Tale sopravvivenza è stata resa possibile dal formarsi di organizzazioni opportunistiche che proprio grazie al mito elezionistico hanno inculcato nella classe operaia il miraggio di una conquista del potere indolore, graduale, che si sarebbe verificata il giorno in cui il numero di schede nelle urne fosse contato di una superiore a quelle del nemico. La storia ha ampiamente dimostrato, nei pochi casi in cui ciò è avvenuto, che la borghesia non esita a confutare col ferro e col fuoco la “volontà popolare” democraticamente espressa, e quindi coloro che difendono tale visione della lotta di classe sono solo da considerarsi traditori e rinnegati al soldo dei padroni.

    La storia ha al contrario dimostrato la classica visione rivoluzionaria propria di Marx, di Lenin e della Sinistra Comunista, secondo la quale unica via alla conquista del potere da parte della classe operaia è l’insurrezione armata, guidata dal Partito Comunista Internazionale, il più possibile estesa internazionalmente, cui segua un periodo di dittatura rivoluzionaria del proletariato, che distrugga tutte le strutture del potere borghese e vi sostituisca le sue proprie, le sole adatte a porre le basi della nuova società senza classi.

    Compito dei proletari non è quindi quello di “scegliere” il miglior partito o, peggio, la migliore persona che rappresenti le loro necessità in una assise che ogni giorno si ingegna a trovare mezzi sempre più raffinati di sfruttamento dei lavoratori, ma è di intensificare le loro lotte contro l’oppressione economica della borghesia con azioni sempre più dure, compatte, incuranti del bene della “economia nazionale”, denunciando apertamente opportunisti politici e sindacali che si frappongono fra loro ed il nemico diretto.

    Che gli operai si stringano intorno al loro partito politico di classe, il Partito Comunista Internazionale, e sostituiscano alla parola d’ordine “Preparazione elettorale” quella che la storia ci indica a chiare lettere, di “Preparazione rivoluzionaria” all’abbattimento violento del regime capitalistico.


    PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE
    Ma siete gli stessi che dicono che quello in Russia non fu vero comunismo e che il vero comunismo s'ha ancora da fare?? L'articolo me lo son letto tutto e voi siete per la russia sovietica, per Lenin, per la rivoluzione violenta. Insomma, quindi è lecito prendervi a fucilate se vediamo un pomodoro tropo grosso.....
    Tu ne cede malis, sed contra audentior ito, quam tua te Fortuna sinet.


  8. #8
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    Predefinito Re: Il nostro antiparlamentarismo

    Citazione Originariamente Scritto da Hieronimous Bosch Visualizza Messaggio
    compagni dai campi da tennis e dalle officine di biciclette da corsa
    portate il laptop prendete lo smartphone...

    Insomma, dal numero del 1974, insomma, dai, avranno pur scritto qualcosa di più attuale

    Quello che penso io è che il comunismo è MORTO tra la gente perchè ha mitizzato e sacralizzato i vecchi maestri, a partire da marx in giù, senza aggiornarsi con i tempi nella comunicazione, nella moda, e anche nelle tematiche ma piuttosto andando incontro a braccia aperte a chiunque fosse CONTRO a prescindere, non importano i metodi, non importano i perchè o le battaglie, ma l'importante essere CONTRO.
    In tutto questo la sacralità dei grandi maestri non ha permesso un lavoro certosino di aggiornamento dell'idea, e quindi nell'anno del signore 2012 ci troviamo con i comunisti che parlano di classi sociali proletariati versus capitalisti, maddai. Ormai si è tutti borghesi, chi più, chi meno, non c'è più (se c'è mai stata) coscienza di classe e come sempre si vive l'un contro l'altro armati perchè questa è la natura dell'uomo.

    L'articolo non lo leggo perchè tra le tante cose che reputo negative della corrente comunista c'è sempre stata l'abitudine a parlare con costrutti sintattici che necessitano minimo un paio d'anni all'accademia della Crusca.


    Al contrario non mi sembra uno scritto così elaborato....sembra scritto da uno studente delle medie invasato e plagiato dal solito professore di lettere comunista......scritto male e molto poco elegantemente....una cagata depressiva e sempliciotta...rivoluzione...Craxi....lotta operaia....poveracci.
    Tu ne cede malis, sed contra audentior ito, quam tua te Fortuna sinet.


  9. #9
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    Predefinito Re: Il nostro antiparlamentarismo

    Perle ai porci.

    Sino a quando non si demoliscono le sedi del pd si esiliano i dirigenti a tutti i livelli, non si potrà avere una sinistra in italia, figurarsi un partito comunista.

    OLTRE ALLE MERDE LIBERISTE, DOBBIAMO LOTTARE ANCHE CONTRO I PIDDINI.

    Siamo nella merda.
    I'm not a robot without emotions, I'm not what you see
    I've come to help you with your problems, so we can be free
    I'm not a hero, I'm not a savior, forget what you know
    I'm just a man whose circumstances went beyond his control
    Beyond my control

  10. #10
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    Predefinito Re: Il nostro antiparlamentarismo

    Nel frattempo...
    tratto dalla nostra rivista COMUNISMO n.ro 72 - 2012 -

    La crisi in Europa, i ciarlatani borghesi e noi comunisti
    Ora che, nella fase attuale, la crisi generale del capitalismo pare concentrarsi con maggiore violenza nella zona dell’euro, dopo che soltanto in apparenza ha allentato la presa nella centrale imperialista americana da cui è partita, ci si può divertire a considerare la quantità di ricette salva-nazioni o salva-finanze che di continuo vengono propinate ai piccolo borghesi terrorizzati di perdere i propri beni.

    Ogni scuola ha le sue diagnosi e cure, teorici e professori universitari si sono messi di impegno a proporre ipotesi di soluzione, e nel contempo litigare tra loro, ciascuno vantando la bontà ed efficacia delle sue proposte, contrapposte alle altrui, che provocherebbero soltanto nuove difficoltà e sconvolgimenti.

    Anche nei mezzi di diffusione si assiste alla medesima altalena. Alle fosche previsioni di tracollo – a scopo anche intimidatorio contro i proletari – segue il moderato ottimismo dei resoconti ufficiali, delle dichiarazioni finali negli incontri ad alto livello, prontamente diffusi dalla stampa di regime che sparge ora ottimismo, ora grave senso di responsabilità. Fa, del resto, il suo mestiere.

    Questa crisi profonda, che il mondo intero si ostina a definire finanziaria, si è mostrata con la mendace faccia dell’insostenibile carico degli interessi sulle obbligazioni statali dei famigerati PIGS, Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna, la cui debolezza finanziaria avrebbe innescato, altra oscena bugia, un intollerabile debito pubblico. Di seguito le solite infami teorizzazioni antiproletarie: scarsa produttività del lavoro, Stato spendaccione e burocratizzato, non più tollerabile “vivere al di sopra delle proprie possibilità”.

    Per i lavoratori greci – che “lavoravano in media 44,3 ore alla settimana, laddove la media dell’Unione Europea è di 41,7” (rilevazioni Eurostat), che “hanno un livello salariale medio pari al 73% della zona euro mentre un quarto dei lavoratori greci guadagna meno di 750 euro al mese”, che hanno “pensioni d’oro” in una media di 617 euro al mese, il 55% della media della zona euro, e il tutto in costante peggioramento – la beffa di essere additati tra i responsabili della catastrofe.

    Tra alterne vicende, serie, drammatiche o di pura facciata, si è avuto il momento più critico – per ora – nel teatrino delle vicende di Grecia, recenti elezioni-farsa incluse, su cui si è alla fine concentrata tutta la schiuma dei fautori di quelle argomentazioni demagogiche e fallaci.

    Ma, di volta in volta, le criticità e i fronti di turbolenza si allargano e sui mezzi di informazione i sintomi messi in primo piano cambiano rapidamente. La criticità della Grecia, alla quale, alla fine, era imputabile un debito tutto sommato non enorme, benché lo erano e lo sono gli interessi da pagare in relazione alle possibilità produttive del paese, è in un momento diventata secondaria rispetto al ben più grave e sostanziale problema del sistema bancario spagnolo. Questo è strangolato non dai debiti, come ciancia la vulgata corrente, ma da crediti in quantità enorme e non più esigibili, cartaccia che non solo non produce più interessi, ma neppure può rappresentare un titolo su alcunché.

    È un continuo aprirsi di fronti, di cedimenti in una struttura intrinsecamente instabile, politicamente contraddittoria e finanziariamente non più sostenibile, una volta che la pressione della crisi reale, quella nel campo della produzione, si rafforza e si estende.

    Tutte le risorse della BCE si spostano su nuove ma ampiamente previste tempeste che scuotono la Unione Monetaria Europea – Spagna, Portogallo, Italia... – con la solita ricetta borghese: spostare sul “pubblico”, sugli Stati e sulla BCE, il debito che nasce essenzialmente “privato”, dalle imprese e dalle banche. Domani chissà quali saranno le “decisioni” della BCE, di fronte ad un sistema bancario “troppo grande per essere salvato, troppo grande per fallire”.

    Per i grandi borghesi da tempo è iniziata una salvifica dislocazione degli “asset”, delle disponibilità finanziarie, su piazze ove potranno rendere forse un po’ meno, ma non correranno – almeno sperano – il rischio di svanire nel collasso del sistema finanziario europeo; anche i borghesi piccoli, i piccolo borghesi e molti dei lavoratori già occupati si affannano nella ricerca di una qualche sistemazione ai loro risparmiucci, che ne eviti la perdita nel paventato blocco del sistema bancario.

    Debito pubblico, debito privato, monete, svalutazione ed inflazione, tassi, obbligazioni, sono parole martellate di continuo, in tutti gli accenti, in combinazioni differenti e a contorno di differenti analisi, secondo la scuola economica da cui provengono o il carrozzone a cui è legato il commentatore di turno.

    Non possiamo entrare in merito a queste ardenti diatribe sul nulla, dei rimedi alla follia del capitalismo, proposte e cure che si sprecano anche da parte di tutti i sedicenti sinistri, servi ignobili della borghesia. Rimedi tutti che poco ci riguardano e, quando proprio avessero della efficacia, ne saremmo avversari assoluti. Quello del disastro del campo finanziario è un tema che dobbiamo affrontare specificamente all’interno delle linee generali del marxismo, e secondo la nostra ottica rivoluzionaria della teoria del crollo. Non vogliamo competere con i professionisti delle teorie del capitalismo-al-meno-peggio, che però, a quanto pare, non trovano di grandi soluzioni!

    Su una cosa sola, ma fondamentale, gli economisti sono in totale accordo, uniti in un solo palpito appassionato: il capitalismo non deve sparire. Anche se, come oggi, si dimostra che non può essere migliorato, riformato, “umanizzato” o moralizzato deve mantenersi, sempiterno, insieme all’infernale sodale, il mercato, che tutto vede, regola, definisce e spiega.

    Noi stiamo da un’altra parte. Tutte le contorsioni ideologiche, le teorizzazioni su come migliorare, correggere, rendere sopportabile questo stato di cose sono contro la nostra visione del mondo, la nostra scienza.

    Di salvare l’euro e la Comunità Europea, di risolvere il problema del debito e, prima di tutto, del destino dei loro Stati e delle loro casse vuote, non ce ne importa nulla. Siamo avversi e ci auguriamo fallisca ogni ricette per salvare il salvabile, ridare ossigeno ai mercati, edificare una “nuova” società fondata non su Stati nazionali contrapposti ma sulla “comunità dei popoli”, pacifici e commercianti, razionalmente controllare i mercati, equi, senza speculazione e ingiustizie, e via di questo passo. Nostra visione unica e totalizzante il Comunismo, la rivolta dei reietti di questa società, che distrugga gli Stati borghesi e sopprima per sempre i rapporti di produzione fondati sul capitale, il salariato ed il mercato.

    PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE

 

 
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