tratto da Comunismo n.ro 1 - 1974
Non in ossequio alla insignificante “attualità” del fradicio mondo borghese ancora una volta svergogniamo il feticcio democratico di borghesi ed opportunisti: elezioni, parlamento. Non sprechiamo tempo e spazio per parlare di congiure di corridoio, di effimere alleanze, di spartizioni ministeriali e di poltrone, disgustoso andazzo cui ci hanno abituati i corrotti politicanti di mestiere. Non ci interessano, come mai ci hanno interessato, evoluzioni, involuzioni, accordi, scodinzolamenti dei vari Andreotti, Berlinguer, Craxi, ché da sempre il loro fine, che li accomuna in un sol fronte compatto, è il rimbambimento e l’aggiogamento della classe operaia.
È la ferrea consegna ricevuta da generazioni di rivoluzionari, in perfetta continuità di schieramento per la causa dell’emancipazione del proletariato, che ci spinge ancora una volta a ribattere i “vecchi chiodi”, i cardini della teoria e dell’azione rivoluzionaria.
Dopo l’immane macello della prima guerra mondiale, e nonostante il tradimento dei partiti della Seconda Internazionale, lo scenario sociale della vecchia Europa si presentava quanto mai esplosivo. In Russia la classe operaia guidata dai bolscevichi di Lenin aveva conquistato il potere fondando il primo Stato Operaio della storia; nel resto del continente le ali sinistre, rivoluzionarie, dei vecchi partiti socialisti stavano prendendo influenza negli strati più combattivi del proletariato. La soluzione rivoluzionaria sembrava ogni giorno più vicina.
In Italia, come negli altri paesi europei, si pose al movimento operaio il problema di come agire praticamente per raggiungere lo scopo della conquista del potere. Un gruppo avanzato dei socialisti italiani sostenne al congresso di Bologna del 1919 che ormai si era aperta una antitesi, una incompatibilità fra lotta per la rivoluzione ed attività elettorale. Prendere la via delle elezioni voleva dire chiudersi quella della rivoluzione.
Le ragioni tattiche di questa posizione della Sinistra erano, e sono, chiare: essendo ormai storicamente dimostrato che attraverso il parlamento nessun potere è raggiungibile da parte della classe operaia, partecipare alle elezioni avrebbe solo significato dare credibilità ad una istituzione verso la quale il proletariato occidentale già cominciava a mostrare indifferenza, distogliendo su inutili pettegole vittorie schedaiole l’interesse che i proletari di tutto il mondo mostravano verso la vittoria sovietica e l’esempio che stava impartendo. Altra ragione, e non secondaria, era il dispendio di forze e di mezzi anche finanziari che una campagna elettorale richiedeva. La visione della Sinistra era semplice: tagliamo i ponti legalitari e democratici alle nostre spalle, e la classe operaia si troverà a dover indirizzare tutte le sue energie in avanti, verso l’insurrezione armata, a distruggere lo Stato con tutte le sue propaggini, delle quali il parlamento è certo la più fetida.
La questione fu portata al Secondo Congresso dell’Internazionale Comunista, che si svolse a Mosca nel 1920. In quella storica assise si ritenne che i partiti comunisti dell’Internazionale potessero utilmente sfruttare l’azione parlamentare allo scopo, beninteso, della distruzione rivoluzionaria del parlamento stesso e dello Stato.
Lenin, occupato a combattere le tendenze di destra e di estrema sinistra, entrambe egualmente pericolose e da noi al pari di Lenin condannate e combattute, non valutò a pieno la portata tattica dell’astensionismo propugnato dalla Sinistra, confondendolo con un timore purista di essere contaminati dalla borghesia una volta entrati in contatto con essa. In realtà l’osservatorio dal quale la Sinistra aveva tratto le logiche conseguenze tattiche era, per questo argomento, molto più favorevole di quello dei bolscevichi, che si erano sempre trovati a lavorare in uno Stato autoritario, feudale, nel quale il proletariato non aveva avuto il tempo di essere avvelenato dalla stolida prassi elezionistica, data la breve ed impopolare vita del governo borghese democratico di Kerensky.
Ma ben altre questioni fondamentali dovettero essere messe in chiaro in quel fondamentale congresso, e tutte ci trovarono sullo stesso fronte di ortodossia marxista difeso da Lenin. Difficile era invece porre la questione dell’astensionismo troppo in generale, data l’esperienza maturata fino a quel momento dal movimento operaio, e i comunisti italiani si rimisero alla decisione del congresso essendo chiara la soluzione: in principio tutti contro il parlamentarismo; in tattica, non stabilire né la partecipazione sempre e ovunque, né il boicottaggio sempre e ovunque.
Noi ci sottomettemmo anche perché eravamo certi che un eventuale assalto rivoluzionario, che quella Europa infuocata dalla lotta di classe faceva presentire imminente, avrebbe spazzato via per sempre i parlamenti ed i dubbi sul loro utilizzo. Ma eravamo anche coscienti che il pericolo sarebbe esistito se e quando l’ondata rivoluzionaria fosse rifluita, cioè il pericolo che la lotta parlamentare invischiasse il partito a tal punto da denaturarne le caratteristiche di classe, fino a ripetere il vecchio schema dei partiti socialdemocratici della Seconda Internazionale, nei quali le immense strutture di partito erano diventate delle macchine elettorali, e solo elettorali, sulle quali gravava il peso frenante dei gruppi parlamentari, che immancabilmente costituivano ovunque le ali più destre dei partiti stessi.
La rivoluzione in Europa non fu, ed i nostri timori, sempre apertamente espressi, si rivelarono profezie. Dalla distruzione del parlamento e degli altri ingranaggi statali si passò alla utilizzazione del parlamento per accelerare l’insurrezione. Poi si ricadde all’utilizzazione del parlamento come mezzo per arrivare con la maggioranza dei voti al potere della classe operaia (poi del popolo). Ed infine, e siamo alla Resistenza ed al P.C.I firmatario della Costituzione repubblicana, si passò dal parlamento mezzo al parlamento fine. Si era così arrivati alla fine del ciclo: non più il parlamento per la causa proletaria, ma il proletariato per la causa del parlamento.
Il parlamentarismo è la forma di rappresentanza politica propria del regime borghese. Creato dalla borghesia rivoluzionaria secoli addietro, è stato da questa sempre utilizzato per avallare lo sfruttamento capitalistico della classe operaia occidentale e la politica militaresca coloniale e post-coloniale di sfruttamento delle classi povere del Terzo Mondo. Questa funzione non è certo cambiata con la “conquista” di seggi da parte di rappresentanti del movimento operaio, iniziatasi già all’inizio di questo secolo. Al contrario, tale partecipazione ha reso più accettabili ai proletari le misure antioperaie che venivano prese da questo organo padronale. Già nel 1919 Lenin così lo descriveva, nella famosa “Lettera agli operai d’Europa e d’America”:
«Il parlamento borghese, sia pure il più democratico nella repubblica più democratica, nella quale permanga la proprietà dei capitalisti e il loro potere, è la macchina di cui un pugno di sfruttatori si serve per schiacciare milioni di lavoratori. I socialisti, lottando per emancipare i lavoratori dallo sfruttamento, hanno dovuto utilizzare i parlamenti borghesi, come una tribuna, come una delle basi per la propaganda, per l’agitazione, per l’organizzazione, fino a che la nostra lotta è rimasta entro i limiti del regime borghese. Ma oggi la storia mondiale ha posto all’ordine del giorno il compito di distruggere tutto questo regime, di abbattere e schiacciare gli sfruttatori, di passare dal capitalismo al socialismo, oggi, limitarsi al parlamentarismo borghese, alla democrazia borghese, abbellire questa democrazia come “democrazia” in generale, celarne il carattere borghese, dimenticare che il suffragio universale, fino a che perdura la proprietà dei capitalisti, è solo una delle armi dello Stato borghese, significa tradire vergognosamente il proletariato, passare dalla parte del suo nemico di classe, dalla parte della borghesia, significa essere un traditore e un rinnegato».
Così sessanta anni fa, quando ancora la partecipazione delle grandi masse lavoratrici alle elezioni era una novità ma della quale già a sufficienza si erano visti gli effetti, il grande Lenin bollava il meschino Berlinguer, che doveva ancora nascere, di traditore e rinnegato, a dimostrare quanto antiche e stantie siano le moderne “Terze vie”, i “Compromessi storici” in cui si cimentano gli odierni carognoni, inferiori ai Kautsky, Noske, Mac Donald e Stalin nella levatura individuale, ma non nella virulenza controrivoluzionaria.
In realtà il parlamento mantenne il reale potere politico per breve tempo, presto esautorato dall’esecutivo, più facilmente manovrabile e influenzabile dai grandi capitalisti e dalle banche, in modo mascherato o palese. Nel secondo caso si ricordano le dittature di Cromwell, Napoleone III, Mussolini, Hitler, ecc. durante le quali la borghesia, rinunciando al paravento democratico, esercitava apertamente la sua dittatura politica ed economica. A questo campo da tempo il nostro movimento ha associato le dittature del capitalismo di Statale nei paesi cosiddetti socialisti.
Preferita comunque dalla borghesia moderna è la prima forma, quella meno manifesta, di controllo del potere politico, alla quale ricorre tutte le volte che le è possibile. In essa, mentre periodicamente i cittadini vengono chiamati ad esercitare il sacro diritto-dovere del voto, la borghesia esercita il suo potere in modo altrettanto assoluto che nella forma fascista in quanto sa di avere in mano saldamente esercito, polizia, tribunali ed un’infinità di sottostrutture facilmente controllabili, cominciando dal clero per finire con scuola, enti assistenziali, mezzi d’informazione, ecc. Ma il sostegno più sicuro della borghesia è proprio quello strato di mantenuti che gli operai hanno ingenuamente mandato in parlamento con i loro voti, che il partito bollò come “opportunisti”.
Chiunque sieda in parlamento, o sul seggio di ministro, sa che tali strutture statali o filo-statali sono costruite per funzionare in un solo modo, non le può modificare nella loro essenza né dominare, ma ne è invece dominato. Gli ordini vengono dai grandi trusts multinazionali, dalla Confindustria, dalle banche, dai proprietari terrieri, e governo e parlamento possono solo prenderne gli ordini e trarne le conseguenze legislative. Il parlamento in particolare vede sempre più ridotta la sua funzione alla ratifica dei vari decreti presidenziali, governativi e ministeriali, e questa tendenza non può certo essere rovesciata dalle imbelli strida di buffoni come Pannella e soci. In questo senso ben poco è rimasto del vecchio sistema parlamentare ottocentesco, avendo la moderna repubblica borghese recuperato ed utilizzato gli strumenti di dominio dittatoriale messi a punto dal quotidianamente esecrato fascismo.
Mentre il potere borghese è sempre più dittatoriale nei fatti, nelle apparenze ostenta sempre più democrazia, tolleranza, aperture a “nuove vie”. Così in coincidenza con l’approfondirsi della nuova crisi mondiale le ubriacature elettorali si susseguono a ritmo frenetico; per limitarci all’Italia, negli ultimi anni si sono avute elezioni di tutti i tipi e ad ogni stormir di fronda: politiche, amministrative, referendum, per la scuola, per il quartiere, presto per la suprema buffonata, il parlamento europeo.
Errata lezione trarrebbero coloro che da queste constatazioni storiche si proponessero di riportare il parlamento al suo antico ruolo, perché esso, come già detto, è sempre stato organo di oppressione borghese e nessuna funzione progressiva può ad esso essere oggi attribuita. Esso è ed è sempre stato il simbolo di un’era storica, quella del modo di produzione capitalistico, il quale è esso stesso superato, e sopravvive ormai a sé stesso in attesa che una possente spallata del proletariato rivoluzionario lo cancelli dalla faccia della terra. Tale sopravvivenza è stata resa possibile dal formarsi di organizzazioni opportunistiche che proprio grazie al mito elezionistico hanno inculcato nella classe operaia il miraggio di una conquista del potere indolore, graduale, che si sarebbe verificata il giorno in cui il numero di schede nelle urne fosse contato di una superiore a quelle del nemico. La storia ha ampiamente dimostrato, nei pochi casi in cui ciò è avvenuto, che la borghesia non esita a confutare col ferro e col fuoco la “volontà popolare” democraticamente espressa, e quindi coloro che difendono tale visione della lotta di classe sono solo da considerarsi traditori e rinnegati al soldo dei padroni.
La storia ha al contrario dimostrato la classica visione rivoluzionaria propria di Marx, di Lenin e della Sinistra Comunista, secondo la quale unica via alla conquista del potere da parte della classe operaia è l’insurrezione armata, guidata dal Partito Comunista Internazionale, il più possibile estesa internazionalmente, cui segua un periodo di dittatura rivoluzionaria del proletariato, che distrugga tutte le strutture del potere borghese e vi sostituisca le sue proprie, le sole adatte a porre le basi della nuova società senza classi.
Compito dei proletari non è quindi quello di “scegliere” il miglior partito o, peggio, la migliore persona che rappresenti le loro necessità in una assise che ogni giorno si ingegna a trovare mezzi sempre più raffinati di sfruttamento dei lavoratori, ma è di intensificare le loro lotte contro l’oppressione economica della borghesia con azioni sempre più dure, compatte, incuranti del bene della “economia nazionale”, denunciando apertamente opportunisti politici e sindacali che si frappongono fra loro ed il nemico diretto.
Che gli operai si stringano intorno al loro partito politico di classe, il Partito Comunista Internazionale, e sostituiscano alla parola d’ordine “Preparazione elettorale” quella che la storia ci indica a chiare lettere, di “Preparazione rivoluzionaria” all’abbattimento violento del regime capitalistico.
PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE