È lecito ad un cristiano partecipare attivamente a riti non cattolici, come ad es., la c.d. pasqua ebraica?
SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. Aspetti biblici. - 3. Il pensiero di S. Tommaso. 4. Le determinazioni del Magistero. – 5. La fede in Cristo è necessaria alla salvezza? – 6. Può essere ammessa una partecipazione per ragioni “pastorali” o “ecumeniche”?. Conclusioni.
1. In questi ultimi tempi, a causa di una malintesa ricerca delle radici cristiane ovvero del diffondersi di quello che il Venerabile Pio XII chiamava insano «archeologismo liturgico» o anche di un altrettanto malinteso spirito ecumenista, si è diffuso in molte comunità cattoliche, guidate talora da liturgisti progressisti o da cattolici à la page, l’uso di “celebrare” (si fa per dire) riti pasquali alla maniera ebraica, secondo la ritualità di quella confessione religiosa. Per questo, per un cattolico sembra logico domandarsi se la partecipazione attiva ovvero la cooperazione a questo rito ed ad altri similari (come, ad es., la circoncisione o la festa di purim, ecc.), pure d’altre fedi (come ad es., il ramadan islamico), sia lecito da un punto di vista morale.
La risposta che deve darsi a quest’interrogativo sembra essere negativa, nel senso che non è lecito per un cattolico prendere parte attiva ovvero cooperare a questi riti, pena la commissione di un peccato (d’apostasia).
Quanto ai riti rivolti ad idoli, sembra indubbio che abbia valore precettivo ancor oggi quanto statuisce l’Apostolo delle Genti, che comandava di astenersi dal prendere parte a sacrifici ad idoli e persino dal consumare le carni offerte in quelle oblazioni, quantomeno per evitare gli scandali per i più deboli.
Lo stesso prelato commenta, durante la festa di Sabbath in Sinagoga, le “influenze”delle tradizioni ebraiche sulla fede cattolica [sic!]
Paolo, infatti, si appellava al buon giudizio dei suoi lettori: prendere parte ad un pasto sacrificale pagano era (ed è) incompatibile con l’essere cristiano. Il banchetto sacro stabilisce in ogni caso una «comunione» con la divinità. Ciò valeva per il culto ebraico : chi si cibava della vittima sacrificata entrava in comunione con Dio (rappresentato dall’altare). Ancor più ciò avviene nell’Eucaristia: mangiando il pane spezzato e bevendo del calice sul quale è stata pronunciata la benedizione, il credente comunica al corpo e al sangue di Cristo. La comunione all’unico pane che è Cristo opera a sua volta l’unità dei credenti. In un certo senso lo stesso accadeva nei sacrifici offerti alle divinità pagane: anche se all’idolo non corrispondeva nella realtà alcun essere divino e benché cibarsi degli idolotiti fosse per sé cosa indifferente, dal momento che gli dèi delle genti sono demoni, chi partecipava al banchetto sacrificale del culto pagano entrava in relazione con le potenze malvagie (non certo nel senso di vera «comunione», giacché si sottometteva alla loro tirannia e al loro influsso). Dunque, «non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demoni».
2. Più complessa è la questione circa la legittimità della partecipazione attiva o la cooperazione ai riti ebraici, come la pasqua. È lecito?
La risposta è negativa. Non è lecito celebrare un rito - per i cristiani - ormai abolito e privo d’utilità spirituale (anzi, spiritualmente dannoso, anche qualora fosse compiuto per “amicizia”). La ragione di ciò è che, laddove compiuti, sebbene senza riporre in loro alcuna speranza di salvezza, questi manifestano una fede contraria a quella di Cristo. In altre parole quel rito (ed altri analoghi) al quale s’intendesse partecipare implica necessariamente, attraverso le parole ed i gesti, dimostrano una credenza che è diametralmente opposta a quella professata nella fede cristiana: logico corollario è che s’incorre nell’apostasia.
La fede giudaica, infatti, nega a Gesù il ruolo di Messia ed unico Salvatore. Per gli ebrei, il Messia-salvatore sarebbe ancora da venire.
Nel suo libro Hilkoth Melakhim (IX, 4), ad es., Maimonide – definito da taluno come il S. Tommaso d’Aquino dell’ebraismo – tenta di dimostrare quanto i cristiani sbaglino nell’adorare Gesù:
«Se tutte le cose che egli fece fossero prosperate, se avesse ricostruito il Santuario al suo posto, e se avesse raccolto insieme le tribù disperse di Israele, allora egli sarebbe certamente il Messia.... Ma se non l’ha ancora fatto e se fu ucciso, allora è chiaro che non era il Messia che la Legge ci dice di attendere».
Se questa è la credenza ebraica, appare chiaro che se quel rito pasquale, per i cristiani, è stato sostituito con la celebrazione eucaristica, che, mistericamente ed in forma incruenta, rinnova il sacrificio della Croce, dove il Figlio di Dio, vero agnello pasquale, fu immolato per la nostra salvezza, se ne deve dedurre che, da parte di un cristiano, celebrare il rito ebraico – perché per lui l’antica alleanza non ha più valore (salvifico) essendo stata soppiantata da quella nuova – significa, in segno, affermare che quel sacrificio della Croce non è mai avvenuto o che è privo di valore redentivo. È un anti-segno della fede cristiana. Ciò senza contare che, odiernamente, i cibi consumati nel seder pasquale ebraico assumono valore rituale e cultuale contrari alla fede: ad es., le uova sode esprimono il dolore per la distruzione del Tempio di Gerusalemme da parte di Tito nel 70 d.C.; distruzione già profetata da Gesù e segno inequivocabile della riprovazione, da parte di Dio, del popolo giudaico.
Il pasto di Pesach. Nel vassoio al centro del tavolo c’è l’azzima (matzàh), a ricordo del pane non lievitato nella fretta della partenza; c’è l’erba amara (maror), a ricordo dell’amarezza della schiavitù; e l’impasto di frutta (charòset) che simboleggerebbe il fango con cui gli schiavi ebrei erano obbligati a fabbricare mattoni, ma pure il sangue. C’è la zampa d’agnello, a ricordo del sacrificio dell’agnello in quella drammatica notte; e c’è l’uovo sodo, solitamente consumato in periodi di lutto, simboleggerebbe i cambiamenti della sorte umana e l’eternità della vita (a causa della sua forma vagamente tondeggiante); nella cena pasquale esprime il lutto per il distrutto Tempio di Gerusalemme.
Non solo. Ma nella tradizione rabbinica successiva alla distruzione del Tempio, la celebrazione memoriale di Pesach ha assunto dei precisi connotati anti-cristiani e superstiziosi.
Così, ad es., il vino nel Seder pasquale (lett. ordine, cioè il rigido rituale pasquale ebraico) viene a simboleggiare il sangue dell’agnello pasquale e della circoncisione: non a caso il Talmud palestinese associa i quattro bicchieri di vino che vanno bevuti obbligatoriamente durante il rito alle quattro fasi della redenzione ebraica. Ancora, il charoset, cioè la conserva di frutta impastata col vino, che doveva ricordare nell’aspetto l’argilla e la malta, usate dagli ebrei costretti ai lavori forzati durante la cattività in terra egizia, assume il significato di «memoriale del sangue». Nella lettura tradizionale dell’Haggadah (cioè il racconto liturgico delle storie di Pesach e su Pesach), che viene compiuta ad alta voce, inoltre, le maledizioni nei confronti degli egiziani si trasformano, in talune tradizioni ebraiche, in invettive contro le nazioni ed i nemici odiati d’Israele, con esplicito riferimento ai cristiani. Sempre in quelle tradizioni, l’aspersione sulla mensa del vino, surrogato simbolico del sangue dei persecutori d’Israele, contemporanea alla recitazione delle piaghe d’Egitto, si richiama alla punizione crudele che sarebbe venuta dalla «spada vendicatrice» di Dio.
Pure a voler “purificare” il rito pasquale ebraico da queste incrostazioni rabbiniche, va notato, in ogni caso, che quella pasqua (ebraica) così come gli altri riti giudaici, a ben vedere, prefiguravano e manifestavano la fede in un Messia (Cristo) venturo e nel suo sacrificio redentivo.
Elena Flerova, Seder, XIX sec.
Leone XIII notava:
«Già molto tempo prima che Cristo nascesse, i sacrifici usati nell’Antico Testamento preannunciavano il sacrificio compiuto sulla croce».
Erano, come diceva S. Paolo, «ombra delle cose future», perché essi, spiegava S. Agostino,
«allora significavano ciò che si sarebbe rivelato e che noi recepiamo come già rivelato affinché, tolta l’ombra, fruiamo della loro pura luce».
In senso più ampio, per il santo vescovo d’Ippona,
«di quegli uomini [cioè del popolo d’Israele dell’Antico Testamento, ndr.] fu profetica non solo la lingua, ma anche la vita, e che l’intero regno del popolo ebraico fu in qualche modo un grande profeta, in quanto profetizzò qualcuno di grande. … bisogna cercare la profezia di Cristo che stava per venire e della Chiesa non solo in ciò che dicevano, ma anche in ciò che facevano; riguardo invece agli altri e ai componenti di quel popolo presi nell’insieme, essa va cercata nei fatti che per volere di Dio accadevano fra loro o rispetto a loro. Tutte quelle cose, infatti, come dice l’Apostolo, avvennero come figure per noi (1 Cor 10, 6)».
Pertanto, per i cristiani, ripetere gli antichi gesti rituali sopra ricordati (o anche suggerire di ripeterli) significherebbe apostatare, giacché non si proclamerebbe più la verità che Cristo è venuto ed ha abolito, nel sacrificio della Croce, i sacrifici antichi e, per conseguenza, ci ha redenti. È una negazione della redenzione e del ruolo di Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo. Sarebbe un vero e proprio «controsegno».
La Divina Rivelazione, a tal proposito, insegna:
«parlando di un nuovo patto, [Cristo] ha reso antico quello di prima: e ciò che si è fatto antico ed è invecchiato, è vicino a scomparire».
L’ultima Pasqua mosaica fu celebrata da Gesù, infatti, la sera del Giovedì Santo, in quanto dal giorno dopo avremmo avuto il Vero Agnello, quello che toglie i peccati dal mondo, immolato sulla Croce, Gesù stesso, appunto.
Indicativo è che, non a caso, S. Giovanni Battista, quando intravide Gesù sulle rive del Giordano, lo additasse come l’«Agnello di Dio». Ciò lo disse alla presenza d’alcuni suoi discepoli, tra cui Giovanni di Zebedeo (l’evangelista) ed Andrea, i quali erano uomini che cercavano sinceramente Dio e che da allora decisero, ascoltando le parole del Battista, dopo un giorno passato in colloquio con Gesù, di seguirlo. Anzi andarono dai rispettivi fratelli, Giacomo (il maggiore) e Simon Pietro, annunciando loro entusiasti «Abbiamo trovato il Messia».
L’espressione «Agnello di Dio», ripetuta in ogni Messa in quell’“Ecce Agnus Dei”, rimanda direttamente alla Pasqua, perché? Isaia nei suoi vaticini sul “Servo di Jahvé” preannunciava che il Messia sarebbe stato come un «come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori» ed invocava: «Manda, o Signore, l’Agnello dominatore della terra». Ancor prima, però, vi era Mosè. Quando, infatti, gli Ebrei dovevano uscire dal Paese d’Egitto (simbolo della morte, della schiavitù, del peccato) per raggiungere la Terra promessa (simbolo del regno di Dio, della vita eterna), attraverso il Mar Rosso (simbolo del battesimo nella Passione di Cristo), nutrendosi della manna (simbolo dell’Eucaristia) ed abbeverandosi all’acqua dalla roccia (simbolo del Sangue di Cristo, vera bevanda), Dio chiese a Mosè, per evitare l’ultima piaga, l’ultimo castigo divino, che dava la morte ai primogeniti – giacché la morte (spirituale e fisica) è il salario del peccato –, che gli ebrei immolassero gli agnelli maschi e ponessero il loro sangue sugli stipiti delle porte in segno di croce o di tau e ne mangiassero le carni arrostite. Pertanto, quando Giovanni indicò Gesù come l’Agnello di Dio, tutti i presenti capirono che era lui quest’agnello misterioso prefigurato dall’Esodo. Come poteva, in effetti, il sangue di un animale preservare dalla morte? Come poteva la carne di un’animale dare la vita? Com’era possibile che l’immolazione di un animale potesse essere gradita Dio (quasi avesse bisogno di odorare la carne animale) e rendere gradita una persona a Lui ? Ciò era impossibile a meno che quell’animale fosse un simbolo, un’immagine, una prefigurazione della realtà: la realtà era, appunto, Gesù. Se è così, allora è il preziosissimo Sangue di Gesù che preserva dalla morte e dal peccato; è la sua SS. Carne e Sangue che danno la vita eterna; è il suo Sacrificio che ci rende graditi a Dio.
L’Agnello pasquale
Lattanzio scriveva a tal proposito:
«Quando i primogeniti degli egiziani in una notte perirono, i soli ebrei restarono incolumi nel segno del sangue. Non perché il sangue di un animale avesse in se tanta virtù, da dare la salute agli uomini, ma perché era immagine delle cose future. L’agnello candido e senza macchia era infatti Cristo, innocente, giusto e santo, il quale immolato dai giudei, è divenuto salute a quanti segnano la loro fronte col segno del sangue, col segno della croce, strumento del suo martirio».
S. Leone Magno nota:
«Noi siamo stati redenti, in quanto che, dal nostro ovile, fu tolta la vittima che s’immolò sul Calvario; in quanto che, la carne immacolata partorita da Maria Vergine, è veramente e propriamente la nostra carne, la quale fu crocifissa dai giudei. Perciò Gesù Cristo ha trattato, nella sua passione e morte, la nostra causa, perché tutti noi eravamo riuniti e rappresentati in lui stesso, nella sua natura umana senza colpa».
E l’insegne teologo, l’abate benedettino Ruperto di Deutz (1075-1129), nella prima metà del XII sec., esclamava:
«L’agnello, che in figura di te (o Gesù) fu ucciso in Egitto, redense nel suo sangue quel popolo... o meglio, tu, o Signore, agnello dominatore, lo redimesti con redenzione figurativa, mediante l’immolazione dell’agnello; tu che ora hai redento noi a Dio, da te stesso nel tuo proprio sangue, ed in modo che il tuo sangue, sparso per noi, preso dal sacramento del battesimo, s’imprima in forma dì croce sulle nostre fronti».
Per questo motivo già s’intravede, in filigrana, nelle parole del Battista, il mistero di Gesù Crocifisso e Risorto, che l’evangelista Giovanni, nell’Apocalisse, presenterà costantemente come l’Agnello sgozzato (immolato in sacrificio per noi) ma ritto in piedi (in quanto risorto), che domina la storia ed il creato, in quanto Re dei re e Signore dei signori.
Non desta alcuna meraviglia, pertanto, se S. Francesco, non perché “animalista” ante litteram, si commuovesse quando vedeva gli agnelli, perché vi scorgeva in essi un’immagine di Gesù, il suo Redentore. Per questo non esitava a riscattarli, con il dono del suo mantello, al fine di impedirne la vendita e l’uccisione, in quanto quelle bestiole condotte al macello gli rammentavano Gesù condotto sul Golgota. Arrivò persino a presentarsi - dopo aver acquistato un agnello destinato al macello - al vescovo di Osimo, nella Marca di Ancona!
Pascha nostrum immolatus est Christus, esclamava S. Paolo. La nostra Pasqua è Cristo immolato.
È quanto la Chiesa cattolica latina, nella sua liturgia, canta, durante la solenne veglia di Pasqua, nel Preconio pasquale o Solenne annuncio di Pasqua o inno dell’Exsultet:
«Haec sunt enim festa paschalia, in quibus verus ille Agnus occiditur, cuius sanguine postes fidelium consecrantur»;
«Questa è la vera Pasqua, in cui è ucciso il vero Agnello, che con il suo sangue consacra le case dei fedeli».
Francisco de Zurbarán, Agnus Dei, 1635-40, Museo del Prado, Madrid
S. Agostino esclamava:
«Cristo è la nostra Pasqua, e il nostro azzimo è la sincerità della verità che non ha il lievito vecchio [Cfr. 1 Cor 5, 7-8], e se vi sono alcune altre cose su cui ora non vi è necessità di soffermarsi, prefigurate nei segni antichi, esse hanno il loro compimento in colui il regno del quale non avrà fine. Occorreva infatti che tutto giungesse a compimento in colui che non venne ad abolire la Legge e i Profeti, ma a portarli a compimento [Cfr. Mt 5, 17]».
È finita per sempre la Pasqua dell’Antico Testamento, dopo il Sacrificio di Cristo; quell’agnello non ha avuto più senso, in quanto l’Agnello vero è presente dal Venerdì Santo ed è Gesù. «Prendete e mangiate tutti, … prendete e bevetene tutti …»: questa è la nostra Pasqua che è offerta sugli altari ogni giorno.
Per bocca, pertanto, del luminoso vescovo e martire S. Ignazio d’Antiochia, la venerabile Tradizione afferma lapidariamente:
«Gettate via il cattivo fermento, vecchio e inacidito, e trasformatevi nel nuovo che è Gesù Cristo»
e che
«è assurdo confessare Gesù Cristo e vivere da Giudei».
Il celebre Dottore della Chiesa, S. Tommaso d’Aquino (Beato Angelico, Vergine con Bambino tra i SS. Domenico e Tommaso d’Aquino, partic., 1424-30, Hermitage, San Pietroburgo)
3. S. Tommaso, il maggiore dei teologi della Chiesa, nella sua Summa Theologica, nel trattato “Sulla legge” s’interroga «se le cerimonie dell’antica legge siano cessate con la venuta di Cristo».
Si pone quest’interrogativo, giacché sembrerebbe, secondo la Scrittura, che i precetti legali divini siano eterni.
L’Angelico Dottore, da fine teologo qual era, puntualizza innanzitutto che
«tutti i precetti cerimoniali della legge antica sono ordinati al culto di Dio».
Chiarisce, quindi, che:
«nello stato dei beati non ci sarà niente di figurativo in ciò che riguarda il culto divino, ma soltanto “azione di grazia e voce di lode” (Is. 51, 3). Perciò, a proposito della città dei beati, si dice nell’Apocalisse (21, 22): “Non vidi alcun tempio in essa perché il Signore Dio, l’Onnipotente e l’Agnello sono il suo tempio”. Dunque per lo stesso motivo, dovettero cessare le cerimonie del primo stato [cioè quelli dell’Antico Testamento, ndr.], attraverso le quali veniva prefigurato sia il secondo sia il terzo stato [secondo stato = venuta di Cristo, mentre il terzo stato è la condizione di beati post mortem, ndr.], con la venuta del secondo stato; e si dovettero introdurre altre cerimonie che fossero appropriate allo stato del culto divino di quel tempo, nel quale i beni celesti rimangono futuri, ma i benefici di Dio attraverso i quali siamo introdotti ai beni celesti, sono già presenti».
S. Tommaso riprende quindi l’episodio evangelico, verificatosi il Venerdì Santo, dello squarcio del velo del Tempio, che rappresentò in modo visibile che l’Antica Alleanza era cessata con la Passione e Morte di Gesù. Quello fu il segno tangibile che Dio uscì dalla sua dimora, conservata nel Sancta Sanctorum del Tempio. Con la dipartita di Dio, l’Antica Legge ed i relativi precetti legali cessarono, divenendo non già fonte di grazia, ma di dannazione eterna. Spiega l’Aquinate:
«il mistero della redenzione del genere umano giunse a compimento nella passione di Cristo; infatti il Signore disse allora: “Tutto è compiuto” (Gv. 19, 30). Ecco perché da allora dovevano cessare tutte le norme legali, essendo ormai presente la verità il cui compimento esse annunziavano. E di ciò si ebbe un segno nella passione di Cristo, quando il velo del tempio si squarciò (Mt. 27, 51). Quindi prima della passione di Cristo, quando lui li predicava e faceva miracoli, erano in vigore insieme la legge e il Vangelo, poiché il mistero di Cristo era già iniziato, ma non ancora compiuto. E per questo il Signore, prima della sua passione, comandò al lebbroso di osservare le cerimonie legali».
Nell’articolo successivo, S. Tommaso s’interroga su una questione di capitale importanza: se cioè, dopo la Passione di Cristo, le cerimonie legali si possano osservare senza incorrere in un peccato mortale. È il caso proprio dei giudei moderni che, accecati, si ostinano a considerare validi i precetti veterotestamentari, ma anche di quei sedicenti cattolici detti giudaicizzati, che, per un frainteso “spirito di fratellanza”, si adeguano anch’essi a celebrare quei riti.
Subito, il padre dei teologi precisa che
«di contro vi è quello che dice l’Apostolo nella Lettera ai Galati (5, 2): “Se vi farete circonciderete, Cristo non vi gioverà a nulla” [questione assai dibattuta nel primo Concilio di Gerusalemme, ndr.]. Ma niente esclude dal frutto di Cristo, se non il peccato mortale. Dunque essere circoncisi e osservare altre cerimonie, dopo la passione di Cristo è peccato mortale».
Se già ciò non fosse eloquente, S. Tommaso puntualizza ancora che
«tutte le cerimonie sono modalità di professare la fede, nella quale consiste il culto interiore di Dio».
Aggiunge che
« … le cerimonie della legge antica indicavano il Cristo che doveva ancora nascere e patire. I nostri sacramenti invece indicano il Cristo già nato e immolato. Perciò, come peccherebbe mortalmente chi ora, professando la sua fede, dicesse che Cristo deve nascere, cosa che gli antichi in maniera pia e veritiera dicevano, allo stesso modo anche peccherebbe mortalmente, colui che ora osservasse le cerimonie che gli antichi osservavano con pietà e con fede».
Il Doctor Angelicus è chiarissimo: pecca mortalmente chiunque oggi, professando la fede di Cristo, osservasse le cerimonie antiche. E ciò a prescindere dalle sue intenzioni: la cerimonia, il rito, infatti, costituisce di per sé professione di una fede. Il compimento di un rito – di là dalle intenzioni – che manifesta una fede in un Cristo venturo, quando, invece, Egli è già venuto, rappresenta un atto d’apostasia e, quindi, un peccato mortale contro la fede.
A ragione, per tale motivo, scriveva Tertulliano nel De idolatria:
«Lo Spirito Santo condanna i giorni festivi dei giudei: è detto: (Is 1, 13-15) l’anima mia ha in odio i vostri Sabati, la ricorrenza del novilunio e le cerimonie in uso presso di voi; e d’altra parte noi a cui sono estranei i Sabati giudaici, i noviluni e i giorni festivi, pure una volta cari a Dio, frequenteremo poi i Saturnali, le feste alle Calende di Gennaio, all’inizio dell’inverno e le Matronali?».
Aggiungeva, sebbene alludendo ai pagani (ma il discorso può essere esteso agli ebrei):
«per quanto i pagani conoscano queste nostre feste, non si unirebbero con noi né nelle Domeniche né nella Pentecoste: essi temerebbero di essere scambiati per cristiani e noi invece non temiamo d’esser presi per pagani».
Ciò che dice è ovvio: la partecipazione attiva a riti pagani o anche ebraici implica la partecipazione pure alla loro incredulità, così come ricordava S. Paolo.
Anzi, quella allusa dall’apologeta cristiano può dirsi sia la “prova del nove”. Basterà chiedere ad uno qualsiasi degli appartenenti ad un’altra fede (ad es., un ebreo o un musulmano) di partecipare all’Eucaristia cattolica, che egli n’aborrirà solo l’idea, giacché – giustamente – dal suo punto di vista ravviserà in tale atto – quand’anche dettato da ragioni di cortesia – un chiaro segno d’apostasia dalla propria credenza religiosa.
Dal punto di vista cattolico, perciò, non desta meraviglia se si sia sempre rimarcato questo profilo, perfino distinguendo nettamente le festività in giorni diversi. Così, a titolo esemplificativo, S. Pio I, proprio al fine di distinguere la Pasqua cristiana da quella ebraica, la portò la domenica successiva il plenilunio di primavera, stigmatizzando così la pratica del c.d. quartodecimanismo, che voleva che si celebrasse la Pasqua il 14° giorno del mese di Nisan indipendentemente dal giorno della settimana in cui capitava e non la domenica successiva.
Qui sorge, tuttavia, una difficoltà. I primi Apostoli, pur dopo la Pentecoste, frequentavano il Tempio. Gli Atti attestano che «ogni giorno tutti insieme frequentavano il Tempio». Così facendo essi si sottoponevano ancora ai precetti della legge antica.
Per risolvere la questione, S. Tommaso esamina qui il pensiero di due “colossi” della fede: S. Girolamo e S. Agostino. Per il primo, si trattava di “simulazioni”, di finzioni compiute al fine di non scandalizzare i giudei e favorirne la conversione. Essi, pertanto, secondo S. Girolamo, compivano quei riti non quali prescrizioni legali.
Diverso era il pensiero di S. Agostino, a cui l’Aquinate aderisce,
«sembrando … poco conveniente che gli apostoli nascondessero, per paura di creare scandalo, le cose riguardanti la verità della vita e della dottrina e che simulassero su cose riguardanti la salvezza dei fedeli».
In effetti,
«in maniera più appropriata S. Agostino distinse tre tempi. Il primo, precedente alla passione di Cristo, in cui le cerimonie legali non erano né mortifere e né morte. Un altro, posteriore alla divulgazione del Vangelo, in cui le cerimonie legali sono sia mortifere sia morte. Il terzo poi è un tempo intermedio, che va dalla passione di Cristo alla divulgazione del Vangelo, nel quale le cerimonie legali erano morte, poiché non avevano più alcuna forza e nessuno era tenuto ad osservarle, ma tuttavia non erano mortifere, poiché quelli che si erano convertiti alla fede in Cristo dal giudaismo potevano osservarle in maniera lecita, purché non riponessero in esse la loro speranza, credendo che esse fossero necessarie alla salvezza, quasi come se senza tali precetti, la fede in Cristo non potesse giustificare. Per quelli poi che si convertivano dal paganesimo non c’era nessun motivo di osservarle. Ecco perché Paolo circoncise Timoteo, che era nato da madre ebrea; mentre non volle circoncidere Tito, che era nato da genitori pagani.
Lo Spirito Santo non volle, in tal modo, che fosse proibito subito l’osservanza delle cerimonie legali a coloro che si convertivano dal giudaismo, come invece era proibito a coloro che si convertivano dal paganesimo, continuare a svolgere i loro riti, in modo da mostrare la differenza esistente tra i riti del giudaismo e quelli del paganesimo. Infatti i riti pagani venivano ripudiati come assolutamente illeciti e sempre proibiti da Dio; invece i riti della legge antica, istituiti da Dio per prefigurare il Cristo, cessavano perché adempiuti nella passione di Cristo».
Dopo l’annuncio evangelico, compiuto dai primi apostoli, perciò, quelle prescrizioni legali sono morte e mortifere per i cristiani che avessero in animo di seguirle. Pure oggi.
Precisa il Dottore Angelico:
«i precetti cerimoniali sono abrogati al punto da essere non solo morti ma anche mortiferi per chi li osserva dopo la venuta di Cristo e, soprattutto, dopo l’annunzio del Vangelo»,
in quanto
«i precetti cerimoniali sono figurativi primariamente e per se stessi, perché istituiti principalmente per rappresentare i misteri di Cristo come futuri. Perciò la loro stessa osservanza pregiudica la verità della fede, secondo la quale confessiamo che codesti ministeri sono già compiuti».
La legge antica, come attesta S. Paolo, è stata «pedagogo» che doveva condurre a Cristo. Ma appena giunto a noi Cristo, «non siamo più sotto un pedagogo».
Dopo Cristo (e salvo il periodo intermedio, come segnalato), quindi, gli antichi precetti non hanno più alcuna valenza. Dell’Antica Alleanza cosa resta?
Essenzialmente il Decalogo, in quanto «i precetti del decalogo differiscono dagli altri precetti della legge per il fatto che i primi furono dati al popolo da Dio stesso, gli altri invece furono dati al popolo per mezzo di Mosè».
Per questo,
«i precetti del decalogo contengono l’intenzione stessa del legislatore, cioè di Dio. …. perciò dall’osservanza di essi non si può in nessun modo essere dispensati».