Un comune sciolto per mafia nel 2011, Bordighera, e uno nel 2012, Ventimiglia, ci tranquillizzano sul fatto che la Liguria, nonostante le dichiarazioni ufficiali – è del 2009 la memorabile affermazione del ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri, all’epoca prefetto di Genova: “Emergenza mafia? Non ci risulta. Non abbiamo nessuna denuncia né dati che ci spingano a ipotizzare l’esistenza di infiltrazioni mafiose serie a Genova” – non sia esattamente libera dalla mafia.
Ma facciamo un passo indietro.
In principio fu Salvatore Fiandaca, spedito nel 1979 nel capoluogo ligure dal tribunale di Caltanissetta. Tempo un paio d’anni e Genova già aveva la sua prima ‘decina’, agli ordini di Piddu Madonia, Salvatore Riggio e Angelo Stuppia, che avrebbero dato vita alla ‘stidda’, una scheggia impazzita di Cosa nostra. Poi arrivò la famiglia di Vallelunga, con Di Giovanni e Lo Iacono, e quella dei ‘gelesi’, con Aglietti, Morso, Monachella e soprattutto gli Emmanuello, ultimi a sbarcare in terra ligure nel 1989. Mafia siciliana, dunque, ma non tardò ad arrivare anche la ‘ndrangheta.
In Liguria c’erano fiori e cantieri, con le nuove opere di costruzione, in primis l’autostrada, portate all’espansione dal boom economico del dopoguerra; settori certamente ricchi di possibilità per contatti politici, infiltrazioni e guadagni, ma per la criminalità organizzata il valore aggiunto della regione è sempre stato il suo territorio frontaliero, il facile accesso alla Costa Azzurra, dove dagli anni Settanta i clan hanno intessuto articolate reti logistiche per gli affari e la gestione di importanti latitanze, sfruttando anche i rapporti amichevoli con la storica criminalità marsigliese.
È in Francia, infatti, a Cap d’Antibes, che nei primi anni Ottanta viene arrestato il boss reggino Paolo di Stefano, poi seguito dal boss Luigi Facchineri, preso a Nizza nel 2002, da Rosmini, Antonio Mollica e Carmelo Gullace, solo per citarne alcuni. Paolo di Stefano è colui che negli anni Settanta portò la ‘ndrangheta al cambiamento, spingendo l’organizzazione a evolversi entrando nel giro degli appalti e dei rapporti politico-finanziari e scatenando una guerra contro i boss ‘tradizionalisti’ Macrì e Tripodo.
Un nuovo modo di ‘fare mafia’ che in Liguria ha trovato il suo territorio ideale. La relazione della Direzione nazionale antimafia (Dna) del 2006 lo conferma: le mafie in Liguria sono “orientate, più che a ottenere un diretto e immediato controllo del territorio, piuttosto alla conquista di mercati e riferimenti logistico-strategici per la gestione dei traffici illeciti”.
Una terra ricca, porti importanti, Genova, Savona, La Spezia, punti di collegamento tra nord e sud Italia e l’estero, un rinomato casinò e una fiorente industria del turismo che spesso e volentieri è legata allo scempio della costruzione selvaggia di abitazioni e hotel che l’alluvione dello scorso ottobre ha portato in primo piano, sono gli ingredienti di una torta golosa che le organizzazioni mafiose si spartiscono in base alle loro peculiarità criminali.
La camorra, radicata soprattutto a La Spezia e Massa – nella vicina Toscana – si occupa di traffico di droga, prostituzione di immigrate irregolari, ha in mano il racket delle estorsioni, ma soprattutto controlla il gioco d’azzardo all’interno delle bische clandestine e gestisce il business lucrosissimo della distribuzione delle apparecchiature video-poker. Risale al 2003 la maxi retata di 35 persone che detenevano il monopolio di queste macchinette, e a capo delle quali c’era il pregiudicato di Torre del Greco Vincenzo Di Donna. Affiliato alla Nuova Camorra Organizzata del boss Raffaele Cutolo, era diventato coi suoi tre figli un referente per la Toscana e la Liguria. Attivi nel commercio troviamo gli Angiollieri, legati al clan napoletano Gionta. A Sanremo e Ventimiglia, infatti, la camorra detiene il monopolio dei mercati della merce contraffatta, sfruttando la manodopera extracomunitaria soprattutto senegalese. Forte è anche la sua presenza nella zona portuale di Genova, dove si dedica al traffico di auto verso i Paesi extracomunitari.
Cosa nostra opera principalmente nel capoluogo e a Imperia: narcotraffico e totonero sono i suoi affari preferiti, ma anche usura, estorsione e un giro di prostituzione nei salotti buoni genovesi. “In Liguria”, sottolinea la Direzione investigativa antimafia (Dia) nella relazione del primo semestre 2011, “è stata accertata la presenza di un’associazione di tipo mafioso di diretta emanazione della fazione di Cosa nostra riferibile al noto Giuseppe Piddu Madonia” di Caltanisetta e alle famiglie Emanuello, Monachello e Fiandaca: le stesse risalenti al soggiorno obbligato.
Ma a farla da padrone, in Liguria, è la ‘ndrangheta. Genova, Lavagna, Ventimiglia, Sarzana e Busalla sono le sue terre di riferimento dalle quali, vista la posizione strategica, coordina anche l’attività con Mentone, Marsiglia, Nizza e Tolosa, svolgendo di fatto un ruolo di supporto logistico alla casa madre nel sud. Si conosce l’esistenza di una vera e propria ‘camera di compensazione’ a Ventimiglia, sul confine: una struttura di collegamento tra i due territori, rigida e compartimentata, atta a fornire una base di appoggio per i latitanti e a gestire, spesso in accordo con le famiglie operanti in Piemonte, il traffico degli stupefacenti, le attività di usura correlate con le case da gioco, i video-poker e il riciclaggio di denaro.
Tra le presenze delle ‘ndrine si segnalano alcune tra le cosche storiche calabresi: i Romeo di Roghudi, i Nucera di Condofuri, i Rosmini di Reggio Calabria, i Mamone della piana di Gioia Tauro, i Mammoliti di Oppido Mamertina, i Raso-Gullace-Albanese di Cittanova e i Fameli, collegati ai Piromalli.
Le indagini della magistratura evidenziano che la ‘ndrangheta ha il monopolio incontrastato del traffico di stupefacenti curandone l’acquisto, il trasporto e la distribuzione in Europa tramite una fitta rete di contatti con i cartelli colombiani. Proprio Genova, nel ’94, è stata infatti il porto di smercio del più grande carico di cocaina, 5.000 chili, importato da un cartello federato colombiano-siculo-calabrese e sequestrato durante la famosa operazione Cartagine condotta dalla Dia.
Accanto al core business delle attività illecite la ‘ndrangheta cura, organizza, gestisce, si infiltra nel tessuto economico legale, non solo attraverso il paravento offerto dal Casinò di Sanremo (quale migliore lavatrice per il denaro sporco?) ma soprattutto grazie alla commistione con ambienti imprenditoriali e finanziari. E con un occhio sempre attento alla politica.
Emblematico il caso di Arenzano. Scrive il quotidiano Terra nell’agosto 2010: “Se si fa caso soltanto alla geografia, Arenzano è un paesotto in provincia di Genova con incantevoli scorci sul mar Ligure. Ma se invece si considera il radicamento e il condizionamento sulla pubblica amministrazione che la ‘ndrangheta ha in questo posto, potrebbe venire il dubbio che Arenzano si trovi nella Locride o in qualsiasi altro territorio ad alta densità mafiosa. Da diversi mesi, infatti, la giunta comunale di centrosinistra guidata dall’ex Ds Luigi Gambino è sotto la lente della magistratura e della prefettura”.
Luigi Gambino avrebbe aiutato Gino Mamone, proprietario della Eco.Ge, società leader in Liguria nel settore della bonifica e dello smaltimento dei rifiuti, a ottenere l’appalto per la bonifica di un’area tra Arenzano e Cogoleto dove è stata riscontrata una concentrazione di cromo esavalente fino a 64mila volte oltre i limiti stabiliti per legge.
I giochi sono chiari: appalti e concessioni in cambio di voti.
Accanto al settore dei rifiuti impera quello dell’edilizia, e non è una novità: nel 1983 viene arrestato e condannato Alberto Teardo, iscritto alla P2, allora presidente della regione Liguria e capo dei socialisti di Savona. Insieme ad altre 16 persone, ex sindaci e pubblici amministratori, fu accusato di aver costituito un’associazione a delinquere e di avere imposto un vero e proprio sistema di racket e di tangenti a commercianti e imprenditori della provincia ligure. Fu lui che inaugurò quel periodo di cementificazione selvaggia del Ponente ligure che non si è mai concluso.
Secondo il rapporto Mare Monstrum 2011 di Legambiente, in un’ipotetica classifica sull’abusivismo edilizio nelle aree di pubblico demanio la Liguria è al settimo posto, subito dopo Sicilia, Calabria, Campania, Puglia, Sardegna e Lazio.
In regione solo il 16% dei 135 chilometri di costa si salva dalla cementificazione selvaggia. La commissione prefettizia, concentrando la propria attenzione su alcuni appalti, in particolare legati al ripristino delle spiagge e agli interventi successivi all’alluvione che ha devastato le coste liguri nel 2006, ha scoperto che i lavori erano stati assegnati a imprese facenti capo alla famiglia calabrese dei Pellegrino, un clan al quale nel maggio 2011 la Dia ha sequestrato beni per 9 milioni di euro. Chissà a chi toccheranno i nuovi appalti dopo l’alluvione dello scorso ottobre...
I Pellegrino, appunto, insieme ad altre famiglie di origine calabrese – i Valente, i De Marte e i Barilaro – sono i protagonisti della vicenda che ha portato allo scioglimento del comune di Bordighera, il 10 marzo 2011. Ancora voti al posto di favori e appalti, la solita moneta di scambio da far girare con le buone o con le cattive. Dalle indagini svolte dai carabinieri del comando provinciale di Imperia sono emerse pressioni sul sindaco e su alcuni assessori per ottenere l’apertura di una sala giochi.
Non diversa la situazione a Ventimiglia, comune sciolto per mafia il 3 febbraio scorso, dove la ‘locale’ premeva per far sì che la giunta affidasse alle ditte indicate dai mafiosi i lavori di movimento terra e scavo per la costruzione di un nuovo porto. Una di queste sarebbe stata la Marvon di Giuseppe Marcianò.
Sono risultati inequivocabili gli atti intimidatori ai danni di importanti imprenditori locali: nel marzo 2009 viene crivellata di colpi l’auto di Marco Prestileo, commercialista del sindaco di Ventimiglia, e direttore generale della Civitas, società municipalizzata che gestisce gli appalti pubblici; nel novembre 2010, 14 colpi di fucile vengono sparati contro l’auto di Piergiorgio Parodi,
imprenditore locale che non aveva rispettato gli accordi assunti.
E accanto agli atti intimidatori crescono anche le segnalazioni per corruzione, che la Dia (relazione del primo semestre 2011) collega a una zona sempre più ampia di penetrazione mafiosa all’interno del tessuto politico-amministrativo: nove denunce nel secondo semestre 2010 contro trenta registrate nei primi sei mesi del 2011.
Insomma, sembra proprio che in Liguria si sia scoperchiato un vaso di Pandora destinato senz’altro a regalare altre sorprese.
Fonte: La mafia in Lombardia, Piemonte, Liguria, Emilia Romagna e Veneto - PaginaUno