Di Andrea Fais
Il via all’utilizzo da parte della NATO dello scalo aereo di Uljanovsk, una popolosa città della Russia meridionale, era stato confermato già nel giugno scorso dal governo federale con un documento ufficiale. Il presidente Vladimir Putin, giunto al suo terzo mandato dopo la riconferma elettorale di marzo, aveva così accordato all’Alleanza Atlantica l’usufrutto temporaneo dell’aeroporto militare della città russa sulle rive del Volga. Un tempo nota col nome di Simbirsk, cambiò nome alla fine degli anni Venti per omaggiare Vladimir Uljanov, ovvero Lenin, a cui diede i natali nel 1870. Anche per un motivo simbolico, dunque, diversi gruppi comunisti di opposizione avevano levato la loro protesta sin dai primi mesi successivi alla rielezione di Putin al Cremlino.
Per tutta la scorsa estate, così, Uljanovsk è diventata un caso politico molto controverso ed un punto di ritrovo per il Partito Comunista di Zjuganov e per alcuni gruppi nazionalisti, nel duplice tentativo di sollevare una polemica politica di proporzioni nazionali e di invitare la popolazione ad una sollevazione di massa contro la possibilità che l’importante scalo aereo della città diventasse un corridoio strategico per gli interventi che la Coalizione sta operando in Afghanistan e in Pakistan. Dal punto di vista dei comunisti russi, le dichiarazioni dello scorso agosto di Putin avevano dello sconcertante: «Nel paese non ci sarà pace fino a quando non sarà ristabilita la calma alle frontiere. L’attuale governo, ha dichiarato Putin, continua ad avere molti problemi nel gestire la situazione. Gli stati membri della Nato sono presenti sul territorio, e stanno svolgendo, tutti, i loro compiti. Ecco perché è necessario sostenerli e non il contrario. Devono restare sul posto e continuare a lottare»(1).
Che il problema relativo al compito di stabilizzazione politica in Afghanistan sia nei primi posti dell’agenda internazionale non è in discussione. E tanto meno può dirsi in dubbio il fatto che il territorio afghano costituisce ancor oggi una fonte di gravi problemi per la sicurezza collettiva che, sul piano geopolitico, preoccupano molto più da vicino la Russia, l’India e la Cina piuttosto che gli Stati Uniti o l’Europa. Tuttavia, Putin avrebbe senz’altro potuto e dovuto sottolineare il fatto che dopo più di dieci anni di presenza nel Paese, la missione ISAF ha fallito quasi tutti gli obiettivi che si era data: il narcotraffico è aumentato spaventosamente (solo nel 2008 l’ONU stabiliva che il 92% della produzione mondiale di eroina era stanziata in Afghanistan) e il terrorismo non si è arrestato né in territorio centrasiatico né nel resto del mondo. Anzi, i recenti casi di destabilizzazione della massa nordafricana e mediorientale hanno messo in luce nuove pericolosissime connivenze tra intelligence occidentali e gruppi integralisti(2): fattori che, a questo punto, mostrano non solo l’inaffidabilità delle truppe in missione nel Paese asiatico ma anche l’evidente presenza di interessi confliggenti all’interno dello stato maggiore della NATO e dello stesso CENTCOM(3).
Proprio ora che uno dei suoi più famosi generali, David Petraeus, è stato silurato dalla Casa Bianca, resta da capire come gli Stati Uniti sfrutteranno questo scalo e in quale direzione strategica. Da parte sua, Mosca riceverà diversi miliardi di dollari per la cooperazione ma in compenso dovrà consentire il transito di materiale e mezzi militari della NATO verso l’Afghanistan attraverso il suo territorio federale. Fin’ora, dal punto di vista degli interessi geostrategici e geopolitici, la guerra in Afghanistan è stata tendenzialmente letta da molti analisti russi come un tentativo di infiltrazione nella massa eurasiatica e, in particolare, nella regione centrasiatica dove, tra il 2001 e il 2005, il Pentagono ha potuto contare su diverse basi militari. La più nota di queste è tutt’ora oggetto di discordia tra Mosca e Washington: si tratta della base aerea di Manas, in Kirghizistan, che il nuovo presidente Atambaev ha promesso di chiudere definitivamente entro il 2014, senza concedere nuove proroghe come invece aveva fatto – in cambio di sostanziosi finanziamenti – il predecessore Kurmanbek Bakyiev, detronizzato nel 2010 da una sanguinosa rivolta di piazza. Anche la Cina, pur senza mai affermarlo in modo esplicito e arrogante, ha sempre lasciato intendere che la presenza degli Stati Uniti in Afghanistan e nei Paesi dell’Asia Centrale è divenuta negli anni quanto meno “fastidiosa” per i suoi interessi.
Inutile ricordare che quattro delle cinque repubbliche centrasiatiche (Kazakistan, Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan) sono membri a pieno titolo dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai e che, grazie alla mediazione cinese, nel giugno scorso proprio l’Afghanistan è diventato membro osservatore del summit, andando a sedersi, così, al fianco di Iran, India, Pakistan e Mongolia. Già a pochi mesi dall’avvio di Enduring Freedom (ottobre 2001), si era creata un’evidente frattura tra gli obiettivi della Coalizione Atlantica e quelli indicati dalla Convenzione contro il terrorismo, il separatismo e l’estremismo, approvata proprio a giugno 2001 dall’organismo intergovernativo eurasiatico.
Questa collaborazione ritrovata (o rinsaldata) tra Mosca e la NATO nello scenario afghano non è nemmeno spiegabile attraverso la chiave interpretativa del dualismo tra Putin e Medvedev, dal momento che la decisione è stata approvata proprio poco tempo dopo la rielezione di Putin alla presidenza della Federazione. Insomma, molti conti non tornano. Pronta, infatti, è giunta la replica di Aleksandr Kruglikov, primo segretario del Comitato Provinciale per l’Oblast di Uljanovsk del Partito Comunista: «I soldi non bisogna farli seguendo l’interventismo armato americano, ma attraverso la modernizzazione del settore dell’industria aeronautica»(4). Nel caso specifico, ciò che ancora non convince è l’insieme di disposizioni che regoleranno il funzionamento dello scalo, soprattutto perché da alcuni mesi in Russia si parla di un’imminente riorganizzazione degli organi doganali che operano sul territorio di direzione del Volga, con la conseguente riduzione del 70% dei funzionari presenti. «Se ne dovranno andare più di 200 uomini e la stazione doganale che si trova nell’aeroporto sarà trasformata in un ufficio per l’espletamento delle formalità del controllo doganale e gestita da 24 funzionari», ha ribadito il responsabile della dogana di Uljanovsk, Valerij Gerasev(5), che ha poi aggiunto: «La disposizione doganale recita che ‘le operazioni di carico di armamenti trasportabili, tecnologie e proprietà militari avvengono in presenza di funzionari pubblici’. Che cosa significhi, non so dirvelo. Presto arriverà dal servizio doganale federale un funzionario pubblico e porteremo questa questione al tavolo della riunione. Tuttavia, con ogni probabilità non sarà necessario aprire i container, ma sarà sufficiente apporre o controllare i timbri e i sigilli doganali»(6). A fine agosto, il vice premier Dmitrij Rogozin aveva rassicurato tutti sostenendo che il personale e le compagnie di controllo addette al servizio doganale sarebbero state tutte di nazionalità russa, e che a loro sarebbe spettato un severo compito di monitoraggio, soprattutto per quanto riguarda il potenziale pericolo del narcotraffico(7). Ad ogni modo è opportuno ricordare che, com’è noto, le posizioni politiche di Rogozin risultano sostanzialmente minoritarie all’interno di un governo che, con Medvedev alla guida, non garantisce alcuna tenuta né in termini di politica economica né in termini di politica estera.
Sicuramente la recente sostituzione, ordinata da Putin, di Anatolj Serdjukov con il tuvano Sergeij Shoigu alla Difesa indurrebbe ad ipotizzare il possibile rilancio di una “linea di ferro” sul piano strategico, tant’è che la prima visita ufficiale del nuovo ministro ha coinvolto la Cina(8). Per di più, proprio in questi giorni, lo stesso viceministro Sergeij Rjabkov, in un intervento alla Duma di Stato, ha rassicurato personalmente i deputati del Partito Comunista della Federazione Russa, ribadendo loro che «lo scalo aereo di Uljanovsk non diventerà mai una base della NATO»(9). Tuttavia, ci sono molte questioni irrisolte ed è poco comprensibile la ragione per la quale, anziché “investire” sul crescente ruolo dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai in Afghanistan, Putin abbia deciso di facilitare l’accesso aereo nel Paese ad una coalizione militare ostile, che ha palesemente fallito la sua “missione” (almeno quella annunciata ufficialmente). In aprile, Gennadij Zjuganov aveva definito l’accordo come un tradimento per gli interessi nazionali ed una vergogna senza eguali, spiegando come questa collaoborazione potrebbe portare a conseguenze molto gravi per la Russia e accusando Putin di aver barattato la concessione dello scalo con il riconoscimento da parte di Washington della vittoria elettorale alle presidenziali di marzo(10). Alcuni analisti filo-governativi si stanno adoperando per giustificare la mossa di Putin in un invariato quadro generale di contrapposizione con la Casa Bianca, ma risulta evidente che, seguendo questa chiave interpretativa, si rischia seriamente di scadere nel complottismo e nella dietrologia.
Putin sta sbagliando clamorosamente, non solo per il significato militare di questa cooperazione ma anche sul piano strettamente economico. La ben più solida partnership strategica con Pechino assicura alla Russia maggiori garanzie di liquidità in questa fase di pesantissima recessione per tutte le economie occidentali, oltre al fatto che – e questo appare ovvio – la politica internazionale della Cina muove da solidi e sani principi di coesistenza pacifica (I “Cinque Principi” di Zhou Enlai), e non certo dal catastrofico imperialismo adottato dalla NATO.

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Note:
1. Euronews, Passa dallo scalo di Ulyanovsk la cooperazione Nato-Russia, 2 agosto 2012.
2. T. Cartalucci, I terroristi della NATO mettono nel mirino Siria e Algeria, LandDestroyer, 29 agosto 2012.
3. Dei sei comandi statunitensi internazionali, lo US CENTCOM è quello riservato alla gestione dei conflitti nell’area centrasiatica e mediorientale.
4. A. Analbaeva, Uljanovsk, corridoio per la NATO, 3 agosto 2012.
5. Ibidem.
6. Ibidem.
7. RUSSIA beyond the headlines, NATO base out of question in Ulyanovsk - Rogozin, 27 agosto 2012.
8. The Moscow Times, Shoigu to Visit China on First Trip as Defense Minister, 12 novembre 2012.
9. Interfax, Ulyanovsk transit hub will not be NATO base - Ryabkov, 16 novembre 2012.
10. Russia Today, Communists won't let NATO in Lenin's birthplace, 4 aprile 2012.
Il pomo di Uljanovsk - Stato & Potenza