(Tedeschi) L’avanzare e il perdurare della crisi economica europea, sta progressivamente destrutturando la società. La recessione e i decrementi del Pil hanno determinato la fuoriuscita dalla produzione di rilevanti quote di manodopera dal sistema produttivo. Si allargano a macchia d’olio la disoccupazione, la sottoccupazione, il precariato, il lavoro nero. Soprattutto, l’ingresso nel mondo del lavoro dei giovani è diventato assai difficoltoso. La nostra società diviene sempre più decadente, per il venir meno del ricambio generazionale e la mobilità sociale. La liberalizzazione dell’economia, dei costumi, della cultura di massa, quali fenomeni scaturiti dall’avvento della globalizzazione, si rivelano miti virtuali, destinati ad essere smentiti dal disfacimento degli equilibri sociali provocato dalla crisi incombente. Se volessimo elaborare un bilancio del primo decennio del XXI° secolo, dovremmo rilevare che l’avvento della società globalizzata ha avuto solo la funzione di distruggere l’eredità sociale e culturale del ‘900, dato che i nuovi orizzonti, le nuove opportunità, le grandi sfide del nuovo secolo, si sono rivelate elementi di una strategia di ascesa al potere di una nuova elitaria classe dominante del mondo finanziario a discapito della masse sempre più escluse dai processi produttivi. L’emarginazione sociale coinvolge interi popoli; esclusione ed emarginazione sono fenomeni conseguenti al tramonto di un sistema economico basato sulla produzione e di una società fondata su equilibri ispirati al solidarismo interclassista. La fuoriuscita dal mondo del lavoro determina negli individui un senso di inutilità esistenziale, di estraneazione sociale, che conduce alla perdita della autostima di se stessi, ad un non senso della propria individualità, ormai non più compatibile con le prospettive di sviluppo di una società elitaria, basata sulla generalizzata esclusione delle masse non più integrabili nei processi evolutivi della società globalizzata. La coscienza della inutilità è coeva quindi alla defunzionalizzazione produttiva. Tale condizione umana riflette quindi la struttura fondamentale dei rapporti sociali nella società capitalista. L’individuo ha coscienza di sé in quanto svolge un ruolo produttivo nel contesto economico, altrimenti la sua vita è condannata alla emarginazione, alla stregua di un prodotto obsoleto e quindi privo di valore economico. La funzione produttiva e il ruolo consumistico sono le sostanziali fonti di riconoscimento nella società capitalista. Dobbiamo allora credere che è il mercato, con i suoi rialzi e ribassi a dare senso alla vita di ognuno. Il lavoro è merce di scambio in un mercato che si evolve in una prospettiva selettiva di progressiva esclusione dei lavoratori dalla produzione, mai di espansione. La disoccupazione diffusa è però un fenomeno che rivela la sottoutilizzazione di risorse umane disponibili. Il paradosso dell’economia liberista è proprio questo: l’attuale capitalismo genera recessione per la propria incapacità di allocazione e razionalizzazione della risorse produttive disponibili.

(Preve) Sono veramente felice che tu abbia scelto come concetto principale di questa nostra conversazione (destinata probabilmente a chiudere il secondo volume della raccolta delle nostre conversazioni, che risalgono alla fine del 2003) il tema della “inutilità”, per meglio dire il tema della sensazione del crescente aumento dell’ “inutilità” in tutti gli ambiti della vita culturale, politica e sociale. Sulla base degli stimoli delle tue considerazioni svolgerò alcune autonome riflessioni. In primo luogo, utilizzando la concezione hegeliana del rovesciamento dialettico di una costellazione teorico-pratica nel suo contrario complementare, possiamo ipotizzare che l’inutilità sia il coronamento temporale dello sviluppo dell’utilitarismo individualistico, messo a punto per la prima volta da Smith e Hume nella seconda meta del Settecento scozzese-inglese. Ma come è possibile che l’inutilità sia il coronamento temporale dialettico del suo contrario, e cioè dell’utilitarismo? Nulla di più semplice, se si è abituati all’applicazione del pensiero dialettico. Il cuore dell’utilitarismo è l’autofondazione del meccanismo riproduttivo globale del mercato capitalistico su se stesso, togliendo di mezzo le tre fondazioni tradizionali della filosofia politica, l’esistenza di Dio (non importa se cattolica, protestante o ortodossa variamente secolarizzata e già da tempo privata di ogni promessa messianica), il contratto sociale (non importa se nella forma di “destra” di Hobbes, di “centro” di Locke o di “sinistra” di Rousseau (mi scuso con il lettore intelligente per avere usato queste improprie categorie, da lasciare a Bersani, Casini ed Alfano), ed infine il diritto naturale, concetto che rimanda pur sempre alla natura umana comunitaria associata come principio di legittimazione filosofica di ultima istanza. Con l’utilitarismo di Hume e di Smith, curiosa ed a suo modo geniale ed originale mescolanza di empirismo e di scetticismo, il mercato capitalistico si autofonda sulla propensione allo scambio ed alla mercificazione universale. A distanza di più di due secoli, siamo in grado ormai di fare un vero bilancio storico-filosofico serio, che presuppone probabilmente il raggio temporale minimo di duecento anni, possiamo dire che il principio dell’utilità generale si è rovesciato nella sensazione diffusa ed inquietante della inutilità generale. Siamo arrivati ad avere popoli inutili, generazioni inutili, e più in generale alla sensazione che non vale neppure più la pena argomentare, svelare, dimostrare, eccetera, perchè di fronte allo spread ed al “giudizio dei mercati” ogni discorso sensato appare inutile. Già Hegel aveva a suo tempo rilevato che 1’ateismo non consisteva nella negazione formale, materiale e “cosale” di Dio, ma nella perdita di interesse verso la verità. Ai suoi tempi, però, questa diagnosi infausta era prematura, perchè l’interesse verso la verità comunitario-sociale (l’unica esistente, il resto essendo certezza, esattezza, veridicità, corrispondenza, eccetera), sia pure deformata dal suo uso ideologico, avrebbe avuto ancora un secolo e mezzo davanti a sé, il secolo e mezzo della civiltà borghese e della sua volonterosa ma inefficace contestazione proletaria. Al tempo di Hegel era impensabile che, appena aperta la televisione per le ultime notizie, la prima frase gridata dal mezzobusto lottizzato fosse “i mercati sono euforici”, oppure “i mercati sono nervosi”. Di fronte a questa quotidiana realtà, alienata ed antropomorfizzata insieme, Kafka appare un sobrio epistemologo popperiano. In secondo luogo, tu suggerisci un tema che dovrebbe interessare i sociologi e gli storici per i prossimi cento anni, e cioè che si sta formando a livello globale una nuova elitaria classe dominante del mondo finanziario a discapito delle masse sempre più escluse dai processi produttivi. In proposito, sfugge agli analisti universitari (anche i ceti universitari, gonfiati sproporzionatamente negli ultimi decenni per “assorbire” i miserabili contestatori sessantottini, sono in preda al processo di inutilità e decadenza) che questa nuova classe in formazione non è più la vecchia borghesia, sulla cui definizione multiforme erano “tarati” i concetti del pensiero politico degli ultimi due secoli. Siamo di fronte ad una vera e propria novità storica, in linguaggio hegeliano una nuova epoca di “gestazione e di trapasso”. Il vecchio apparato concettuale non serve più, ma i ceti universitari delle facoltà di filosofia e scienze sociali (non parlo qui di facoltà più serie come biologia, medicina ed ingegneria) sono ormai dei cani da guardia destinati ad impedire lo sviluppo di una nuova concettualizzazione, essendo appunto “pagati” per parlare solo di olocausto, diritti umani, dittatori baffuti e barbuti e legittimazione dei riti elettorali svuotati di ogni residua sovranità. Essi non possono impedire lo sviluppo di una nuova necessaria concettualizzazione, ma possono ritardarla, intorbidire le acque, concionare su concetti vuoti come “qualunquismo” o meglio ancora “populismo”, eccetera. In terzo luogo, infine, la sensazione di inutilità, che ha come sua base strutturale ovviamente la “superfluità” demografica della forza-lavoro valorizzabile dal capitale finanziario, si ripercuote inevitabilmente nella sensazione di inutilità e di superfluità dell’argomentazione filosofica e culturale. Il divorzio fra realtà e “virtualità”, infatti, c’è sempre stato, ma oggi sta raggiungendo vertici da record. Il cattolico Formigoni si tuffa da yacths di speculatori milionari, derubricati ad “amici privati”, il banchiere Monti regna in nome della limitazione dello spread, e la “cassetta delle menzogne” (idest la televisione) ha trasformato i sionisti in campioni della democrazia, l’esemplare Siria di Assad in regno hitleriano di un feroce dittatore, e non è un caso che il fenomeno di Beppe Grillo, battezzato sfrontatamente come “populismo”, sia in realtà sintomo evidente di disperazione politica. Piuttosto di questi politici e di questi economisti, meglio un attore, ma sarebbero ancora meglio degli scimpanzè e degli oranghi. E’ infatti assolutamente insensato pensare che una società possa riprodursi sulla base del mercato, con i suoi rialzi ed i suoi ribassi, eretto ad unico criterio della sensatezza globale. A chi rivolgersi? Ratzinger predica bene, fa riferimento alla filosofia aristotelica della natura umana (la migliore mai prodotta), ma continua a prendersela con lo spettro del comunismo, nel frattempo defunto da almeno un ventennio, ed a avallare il peggio del politicamente corretto in circolazione. Il Dalai Lama, erroneamente spacciato per “guida spirituale”, agisce scopertamente come un agente USA anti-cinese, e tutti fingono che sia soltanto l’eterna incarnazione della saggezza orientale. Il giornale “La Repubblica” ed il suo laicismo azionista al servizio delle oligarchie bancarie ha sciaguratamente forgiato un’intera generazione di semicolti subalterni, maggioritari in quella patetica nicchia sociale dei laureati recenti, dei prof di scuola secondaria e dei ceti universitari autoreferenziali, di fronte a cui le plebi di Padre Pio appaiano per contrasto un gruppo di pensosi intellettuali illuministi. Ma, evidentemente, il discorso è appena incominciato.


(Tedeschi) Il mercato globale si è affermato attraverso il dominio del mercato finanziario sulla economia produttiva: la crescita economica non è la sua ragion d’essere né tantomeno il suo fine ultimo. In tale contesto, lo sviluppo produttivo si manifesta nei tempi e nei luoghi determinati dalle strategie della speculazione finanziaria. Quindi esso è di per sé un fenomeno indotto, momentaneo e precario, a cui poi fanno riscontro crisi e sottosviluppo non risolvibili secondo i canoni delle dottrine economiche novecentesche. Le stesse crisi, non hanno la loro causa nei cicli economici ricorrenti, ma semmai nelle bolle finanziarie ricorrenti, in eventi cioè estranei alle dinamiche della produzione. La globalizzazione ha prodotto insieme ai mercati globali, anche problemi e crisi globali, data l’interconnessione tra le economie e i mercati di tutto il mondo. La attuale crisi sistemica ha generato decrementi di produzione e di consumo assai rilevanti, decrescita degli investimenti e rarefazione della liquidità. Certo è che la fine del welfare, il lavoro precario, le delocalizzazioni produttive, hanno profondamente inciso sulle capacità di consumo e di risparmio delle masse. Pertanto, nel prossimo futuro sarà di attualità il problema della esistenza di masse non più utilizzabili nella produzione e non più dotate di capacità di consumo. La condizione di inutilità degli individui si va estendendo alle masse globali di lavoratori - consumatori obsoleti e destinati alla rottamazione. Tale problematica è esposta nel libro di M. Della Luna “Oligarchia per popoli superflui, Koiné Nuove Edizioni 2010”. Infatti, mentre nei secoli passati l’incremento della popolazione era incentivato dai sovrani di stati che necessitavano di soldati, agricoltori e cittadini produttori che pagassero imposte, oggi, l’aumento della popolazione mondiale, unito alla recessione produttiva e al decremento delle risorse naturali, ha creato una nuova categoria antropologica: quella dei popoli superflui. Superflui perché non integrabili nel sistema economico e bisognosi di mezzi di sostentamento, in tempi di destrutturazione dello stato sociale. Al di là delle ipotesi catastrofiste (per fortuna poco praticabili), quali quelle di guerre nucleari o epidemie provocate allo scopo di decrementare la popolazione mondiale, altre soluzioni mi sembrano credibili. E’ infatti ipotizzabile l’erogazione pubblica di sussidi minimi di sostentamento per assicurare, assieme alla sopravvivenza materiale delle masse, anche quella del mercato, garantendogli un adeguato livello di consumi. In tale tragico scenario, gran parte dell’umanità vivrebbe in una condizione di dipendenze economico - esistenziale assimilabile alla schiavitù. Ma la situazione descritta sarebbe possibile qualora si prestasse fede al dogma liberista della autoreferenza totalitaria della economia capitalista. Masse asservite e ridotte alla condizione di perpetua, emergenziale sopravvivenza, sono incapaci di rivoluzioni, qualora le cause dei fenomeni rivoluzionari fossero solo di ordine economico. Al contrario, i motivi del mancato riconoscimento sociale, e della ribellione verso un ordine costituito perché moralmente ingiusto, sono di ordine politico - sociale, perché nascono dalla volontà comune di partecipazione politica e dalla visione (magari utopica), di una diversa strutturazione della società che sia in grado di sviluppare risorse, onde creare una più equa e diffusa ripartizione della ricchezza. La crisi della attuale liberaldemocrazia di ispirazione anglosassone è quella di un ordine che non può e non vuole sviluppare risorse, perché il suo scopo ultimo è quello si preservare un sistema finanziario di per sé condannato al fallimento.

(Preve)Tu ti poni una domanda inquietante: la gente oggi è diventata incapace di rivoluzioni? Fai anche l’ipotesi, da prendere certamente in considerazione, che questa radicale incapacità trasformatrice (non importa se riformista o rivoluzionaria) possa essere dovuta non certo ad una salarializzazione spinta della società, ma proprio al suo contrario, la generalizzazione di sussidi minimi di sopravvivenza per mantenere da un lato la pace sociale, dall’altro livelli sufficienti di consumo, sia pure parassitario. Lo storico Eric Hobsbawm, nato nel 1917, ha ormai 95 anni. Intervistato da un miliardario sionista italiano, giornalista per snobismo e per diletto, che gli chiede con una punta di malignità se sia ancora “comunista”, Hobsbawn risponde: “Il comunismo non esiste più. Sono leale alla speranza di una rivoluzione anche se non credo che succederà più. Non so se basta per essere comunista, io sono marxista perchè penso che non ci sarà stabilità finchè il capitalismo non si trasformerà in qualcosa di irriconoscibile dal capitalismo che conosciamo oggi. E sono leale alla memoria in quello che ho creduto e che fu un grande movimento anche in Italia” (cfr. La Stampa, 1/7/12). A proposito del fatto che il comunismo non esiste più mi permetto una serie di brevi considerazioni. Il modello politico-sociale del comunismo storico novecentesco realmente esistito (il cosiddetto “socialismo reale”) non esiste veramente più, ed è crollato per ragioni assolutamente endogene (un pò come il regime signorile feudale in Europa), demolito da una maestosa e feroce controrivoluzione occidentalistica dei nuovi ceti medi “socialisti”, che hanno però finito con il consegnare l’intero potere economico ad una casta di baroni-ladri. Il comunismo storico novecentesco è stato l’espressione di una sorta di democrazia plebeo-totalitaria (l’ossimoro è voluto, perchè indica una contraddizione oggettiva) di operai di fabbrica e di contadini poveri, due gruppi sociali ad egemonia complessiva a scadenza breve, come gli yoghurt. I gruppetti politici comunisti residuali negli attuali paesi capitalistici, senza praticamente alcuna eccezione, non sono più gruppi rivoluzionari a legittimazione marxista, ma sono residui sociologici inseriti nella dicotomia Sinistra/Destra, e per ciò stesso del tutto incapaci di affrontare una fase storica nuova in cui la dicotomia Sinistra/Destra ha perso ogni significato. Il “comunismo ideale eterno”, per usare un termine di Giambattista Vico, non è finito perchè esprime una ricerca comunitaria di verità e di giustizia sociale di tipo non storico ma metastorico. Non era questo ovviamente che pensava Marx, che avrebbe respinto con disprezzo ed irrisione questa formulazione, in quanto Marx pensava che il comunismo fosse un prodotto processuale immanente allo stesso sviluppo del modo di produzione capitalistico. In termini popperiani, questa legittima e ragionevolissima ipotesi scientifica è stata smentita nell’ultimo secolo e mezzo, e mi sembra disonesto non riconoscerlo apertamente. L’espressione di Hobsbawn, “essere leali alla speranza di una rivoluzione” mi sembra affascinante, ed io la adotto interamente. A differenza di Hobsbawn, io penso invece che avverrà, ma probabilmente non in tempi storici vicini, in quanto devono maturare delle condizioni globali ancora largamente immature. Esiste un blog in Italia denominato “sollevazione”, critico dell’euro e del governo Monti, che incita ad una sollevazione popolare sulla base della rivendicazione di un profilo commista di estrema sinistra. Nonostante le ottime intenzioni soggettive di costoro, molto migliori dei semplici fiancheggiatori del sistema politico, resta dura a morire l’idea della sollevazione di estrema sinistra, un’idea ricalcata sulla base dell’analogia con un periodo storico trascorso. La difficoltà nel “pensare” la rivoluzione anticapitalistica che pur sarebbe necessaria sta nel fatto che la globalizzazione per ora consente solo fenomeni storici “locali”, che possono anche abbattere governi dispotici precedenti, ma che poi restano inseriti, incastrati ed ingabbiati nel sistema economico internazionale, che agisce in funzione di ricatto permanente. E’ questa impensabilità che fa da sottofondo allo scetticismo di Hobsbawrn. L’utopia si concretizza soltanto attraverso una prospettiva, ed è appunto l’impensabilità della prospettiva il principale fattore del senso di inutilità così diffuso. Predicare astrattamente contro l’inutilità diventerà così inutile come l’inutilità stessa fino a quando non saranno finalmente visibili socialmente passi in avanti nella limitazione di questo capitalismo cannibale.


(Tedeschi) La crisi avanza, incombe sulla nostra vita quotidiana, svuotando di senso le nostre certezze. La progressiva espropriazione della vita comunitaria, familiare, intimo - personale, provocata dal dominio del mercatismo, che invade la società e la coinvolge nella sua crisi sistemica, è esplicativa di una condizione esistenziale sempre più instabile e precaria, perché subordinata alla sopravvivenza economica. Il fenomeno dell’accentuarsi quotidiano della recessione economica, della disoccupazione, dello spread, della pressione fiscale, è sintomatico di una crisi più profonda, che coinvolge totalmente la nostra vita, in quanto è essa stessa ad essere dipendente da un sistema economico e politico in progressivo disfacimento. Tuttavia, la stagnazione della situazione politica, il dirigismo burocratico e cinico della UE (assieme al governo tecnico di Monti), perché fenomeni di ribellione e dissenso al sistema sono quasi inesistenti, se si eccettuano i movimenti minoritari e velleitari quali il grillismo e altri similari europei. Lo stesso astensionismo massificato assume più il significato di una estraneazione collettiva dalla politica, assai più vicina alla resa senza condizioni, più che quello di un dissenso di massa. Costatiamo quindi che nella società è assente una presa di coscienza comune di una situazione di emergenza sia economica che politico - sociale, dovuta ad una società in crisi sistemica, che può solo produrre altre crisi, quando alla destrutturazione di un sistema non fa riscontro alcuna alternativa, magari futuribile, ma possibile. Si manifesta nella odierna società una coscienza collettiva di tipo adattativo alla situazione di precarietà materiale ed esistenziale, ad uno stato di crisi sedimentato nelle coscienze come una condizione di perenne instabilità in cui si possa solo sopravvivere. Questa estraneazione dalla sfera sociale, comporta il rifugio in un egoismo collettivo in cui, da una parte le classi più elevate tentano di integrarsi in un processo di trasformazione da cui vengono progressivamente escluse, dall’altra, quelle più deboli si affannano a sopravvivere alla crisi. Tutti tentano di “imbucasi” ad un simposio a cui non sono stati invitati dalla global class. La società è prigioniera dell’eterno presente. Si eternizzano in una sfera astorica e asociale le condizioni individuali del nostro presente. Il lavoro, l’avvenire dei giovani, gli affetti personali, i rapporti sociali, vengono vissuti come se questa condizione di crisi fosse una condizione perenne, in trasformabile, data l’impossibilità di sviluppi e mutamenti rispetto alla quotidianità ottusa di questo granitico, eterno presente. Tale fenomeno è spiegabile alla luce dell’etica individualista su cui si è costruita la psicologia collettiva del mondo contemporaneo. Il culto dell’individualità odierna, è il risultato di un atteggiamento narcisistico collettivo, più o meno inconscio, di personalità che hanno coscienza di sé nella misura in cui ottengono riconoscimento, in primis in base alla loro funzione svolta nel sistema economico, e dalla condizione sociale che ne deriva. Solo nell’eterno presente ci si può illudere di avere riconoscimento, e di preservare le proprie meschine ed egoistiche certezze, in un mondo diverso chissà? Non si considera che l’eterno presente è conseguenza della mancanza di senso della storia. L’economia attraversa fasi di stagnazione e recessione, ciclica. La storia, al contrario non ammette periodi di stagnazione, né tanto meno è concepibile una sua recessione al passato. L’eterno presente è una falsa coscienza della storia imposta da un ordine capitalista ormai fuori della storia. La storia invece continua a produrre mutamenti, a generare nuove situazioni di cui occorre prendere coscienza. Interpretare l’avvenire alla luce dell’eterno presente è un non senso. La storia non ha altri fini che quelli che l’uomo si propone di realizzare e pertanto sarà proprio la coscienza insopprimibile dell’uomo come essere storico a determinare il superamento della attuale crisi, quale alienazione dell’uomo nell’eterno presente. Da quanto precede, si comprende anche la necessità storica della presente crisi, quale momento di superamento di un presente che è “eterno” perché non è storico.

(Preve)Non sono un esperto di politologia o di sociologia elettorale, ma personalmente assimilo i due fenomeni dell’astensionismo e del grillismo. Con questo non intendo unirmi a1 coro gracchiante dei “responsabili” aderenti ai vecchi partiti. Dovendo scegliere, con la pistola alla testa, fra Grillo da un lato, e Bersani, Vendola, Di Pietro, Casini ed Alfano dall’altro, voterei certamente Grillo, che è certamente un guitto, ma almeno non ha dirette responsabilità per lo svuotamento della decisione democratica. Tuttavia sono rimasto molto colpito dal fatto che nelle recenti elezioni del giugno 2012 in Grecia, dove pure si prendevano decisioni strategiche sul futuro del paese l’astensione sia arrivata al quaranta per cento. In Italia non si decide più nulla da un pezzo, perchè esiste una sorta di giunta militarizzata di economisti con garante un ex-comunista disilluso del comunismo, che in una recente intervista su “Repubblica” rimprovera post mortem a Berlinguer di avere ancora creduto che ci potesse essere una società “alternativa” al mercato capitalistico. Ma in Grecia si decideva effettivamente qualcosa di strategico, ed a mio avviso il fronte di sinistra di Syriza vi giocava esattamente lo stesso ruolo anti-euro del partito di Marine Le Pen in Francia, anche se questa ovvia verità è nascosta da mille sigilli per chi si ostina ad orientarsi sul mercato politico in nome della dicotomia obsoleta Destra-Sinistra. Ho letto recentemente in una bellissima intervista autobiografica di Alain de Benoist una frase di Bergson del 1936 che non conoscevo: “Su dieci errori politici, nove consistono semplicemente nel continuare ancora nel credere vero ciò che ha cessato di esserlo”. Bisognerebbe ricordarlo ai politologi. E’ quindi inutile condannare moralisticamente gli astensionisti oppure coloro che si rifugiano nel grillismo. Essi prendono semplicemente atto della radicale inutilità della tensione politica. Il vero problema, tuttavia, sta nell’immaginare come possa continuare nel tempo e riprodursi una società tenuta insieme soltanto dal legame del mercato, in cui la decisione politica comunitaria ha di fatto cessato di esistere. Per il momento questa è una relativa novità storico-politica, che deve ancora stabilizzarsi. Una società del genere è la prima società umana completamente priva di “grande narrazione”, e cioè di racconto identitario. Già Hegel, a proposito dell’Inghilterra, si era meravigliato che potesse esistere una “nazione civile senza metafisica”. Benchè abbia insegnato storia e filosofia nei licei per trentacinque anni, solo recentemente mi è parso di capire il significato della sentenza di Hegel. Infatti la mescolanza tipicamente inglese di empirismo, scetticismo ed utilitarismo non è una filosofia come le altre, ma è una anti-filosofia radicale, che ha effettivamente anticipato la concezione attuale delle oligarchie anglosassoni, cui l’Europa si è interamente allineata negli ultimi venti anni. Siamo effettivamente arrivati ad essere, ed a vantarci di essere, “un popolo civile senza metafisica”. L’attuale globalizzazione senza metafisica è comunque intrecciata al messianesimo americano vetero testamentario, che appunto non è una filosofia di tipo greco, ma una secolarizzazione religiosa di origine calvinista. Questo fa anche venir meno la vecchia mobilità sociale ascendente e discendente, sostituita da una mobilità individualistica senza alto né basso, al di fuori della capacità di consumo. Ma la mobilità non è più la vecchia mobilità ascendente, che era stata per più di un secolo la grande ideologia di legittimazione della borghesia classica. Gli atomi sradicati si muovono in uno spazio mercantile senza alto né basso, in cui il vecchio significato comunitario della vita è integralmente sostituito dalla capacità di acquisto e di vendita delle proprie capacità lavorative. Come ho già fatto notare in precedenza, il vero problema non sta nel constatare questo processo, che è sotto gli occhi di tutti anche se per ora oscurato dai meccanismi mediatici, editoriali ed universitari, ma nel prospettare lo scenario allargato di questa situazione. L’accesso al consumo dei giganteschi strati medio-bassi in India, Cina, Brasile, eccetera può certamente rinviare di decenni una crisi generalizzata di senso storico e politico. Un mondo globalizzato senza metafisica, si accompagna ovviamente a sempre più virulente identità religiose, in cui la cosiddetta arretratezza e la cosiddetta intolleranza sono semplicemente il risvolto pseudo-comunitario della completa mancanza di senso. Le facoltà di filosofia sono già nel loro complesso interamente “normalizzate” in una koinè che può essere definita, in termini di scetticismo sofisticato, di relativismo multicolore e di nichilismo tranquillizzante. Ma quanto questo possa durare nessuno può veramente saperlo.


(Tedeschi) La coscienza dell’inutilità sociale ed esistenziale dell’uomo contemporaneo non è che la proiezione massificata di un mondo economico e politico virtuale che rivela nella crisi il vuoto di senso, cioè la sua incontestabile inutilità. Così come inutile si è dimostrata la classe politica, acquiescente e complice delle manovre perpetrate dalla UE a danno degli stati. Si consideri l’euro. Che cosa è l’euro? E’ una moneta virtuale, che non rispecchia le condizioni economiche e politiche dei paesi della UE, una valuta imposta da una BCE senza uno stato che ne garantisca la solvibilità e la sussistenza, da una BCE composta da organismi tecnici non elettivi, non rappresentativi della volontà popolare. L’euro è stato definito da alcuni non una moneta unica, ma un sistema di cambi fissi, dato che nell’Eurozona, la valuta è comune, mentre il debito pubblico grava sulle finanze degli stati. A cosa serve l’euro? Con l’euro si è fermato lo sviluppo economico, si sono dimezzati il potere d’acquisto e i risparmi dei cittadini, si è imposta una politica di austerity che ha distrutto lo stato sociale e ha diffuso la precarietà del lavoro. Sono state distrutte le conquiste sociali, le certezze, mentre l’unificazione monetaria ha incrementato la speculazione finanziaria che sta determinando il fallimento degli stati. L’euro, anziché integrare i popoli, li ha condannati ad una competizione sfrenata che ha condotto ad enormi sperequazioni economiche tra popoli del nord e del sud europeo. Liberarci dall’euro significherebbe liberarci dalla schiavitù del debito imposta dalla speculazione finanziaria, utile ai propri profitti, ma inutile e dannosa ai popoli. Gli stati sono stati incoraggiati ad indebitarsi, anziché a sviluppare ala propria economia, e classi politiche corrotte hanno goduto del consenso di masse anestetizzate da un benessere virtuale e precario. Farla finita con l’euro però comporterebbe riforme sistemiche negli stati e nell’ambito europeo. Ma gli stati europei non dispongono di classi politiche adeguate a tali eventi di emergenza rivoluzionaria, Tali concetti sono tuttora impensabili per la stragrande maggioranza degli europei.

(Preve) Con questa quarta ed ultima domanda mi solleciti a parlare dell’euro, cosa però che faccio malvolentieri perché, detto in linguaggio popolare, “non ci capisco niente”. Altre volte nelle nostre conversazioni ne abbiamo già parlato, in genere molto negativamente. Continuare testardamente con l’euro oppure farla finita con l’euro è infatti una sorta di atto di fede per tutti coloro che non sono specialisti di economia. Personalmente, pur non dominando la materia, mi riconosco nelle opinioni di economisti come Bagnai e Brancaccio, che sono critici radicali dell’euro, e nello stesso tempo non voglio nascondere di essere spaventato dalle campagne di terrore indotte quotidianamente dalla televisione e dai giornali, che annunciano apocalissi in caso di crollo dell’euro. Fanno sul serio o minacciano soltanto? Siamo nel 2012. Nonostante gli apparenti mutamenti, politici, le classi politiche oligarchiche italiane sono le stesse del 1915, e del 1940. Sarebbe troppo lungo scendere nei dettagli di questi elementi di continuità che vanno molto al di là delle differenze superficiali fra il regime liberale, il regime fascista ed il regime democratico. In proposito, i manuali di storia contemporanea sono ingannatori, perchè ad esempio non informano sulla continuità della geopolitica di espansione nei Balcani nel 1915 e nel 1940, in modo che lo studente medio è in generale convinto che la guerra del 1915 sia stata fatta per Trento e Trieste, città la cui “italianità” non era messa in dubbio da nessuno, ed anzi era fiorente sul piano culturale e letterario. Dico questo perchè gli italiani hanno già dovuto pagare due volte, nel 1915 e nel 1940, per un azzardo pokeristico (del tutto secondario se da parte di Salandra o di Mussolini), e questa mi pare la terza volta. Di fronte alla sempre maggiore evidenza che l’euro non è stata una buona idea, ma è anzi stato un errore storico e strategico, molti si rifugiano in una vera e propria “fuga in avanti”: l’Europa non ha una sovranità politica unitaria, ha solo una moneta comune senza stato, adesso bisogna andare verso uno stato europeo unitario. A mio avviso sarebbe non solo un errore, ma un vero e proprio crimine, e cercherò brevemente di spiegare il perché. Uno stato presuppone una nazione, una nazione europea non esiste e non esisterà mai, al massimo l’Europa sarà una “macroregione”, del tipo del Friuli e della Slovenia. Parlare di “unità nella diversità” è pura retorica per borsisti Erasmus. Non ci può essere una vera unità politica senza nazione. Possibile che i casi lampanti della Cecoslovacchia e della Jugoslavia (per non parlare dell’Unione Sovietica) non insegnino proprio nulla? Se mi pagassero un tanto a pagina (come facevano con Alessandro Dumas) per scrivere un saggio sulla presunta eredità culturale unitaria dell’Europa (che a mio avviso non esiste, e non potrebbe esistere comunque dopo lo tsunami della globalizzazione finanziaria) non avrei alcuna difficoltà a partorire un migliaio di pagine ipocrite ed artificiali. Ma quando si sventolano le bandiere, sia pure per ragioni soltanto sportive, si sventolano solo le bandiere nazionali. Vi immaginate dei tifosi che sventolano la bandiera europea? E poi la Russia fa parte dell’Europa oppure no? Se sì, l’Europa finisce a Vladivostok, ed è dunque un’unità geograficamente eurasiatica. Se invece no, bisogna artificialmente estendere l’Europa a Tallinn e Kiev, ed escluderne Mosca, accettando invece l’integrazione europea ideale con gli USA, il Canada ed Israele. Le contraddizioni potrebbero continuare. L’euro è stata quindi una cattiva idea, e pensare di salvarlo con la fuga in avanti di un unico stato-nazione europeo inesistente è un’idea ancora peggiore, sulla quale sembrano unirsi sia l’ex-destra sia l’ex-sinistra, in assenza di identità culturali e politiche. I rapporti culturali fra nazioni europee erano migliori quando non si era ancora creata l’isteria delle nazioni cicale o spendaccione e delle nazioni virtuose. E’ già difficile far passare l’idea della solidarietà sul debito sovrano all’interno di una sola nazione (il caso della Lega Nord insegna, e non può essere ridotto al folklore snobistico con cui la analizza il giornale “Repubblica”), e chi pensa che questo sia possibile in futuro per una evidente non-nazione come l’Europa mente a sé ed agli altri. Quello che ha prodotto l’Euro è sotto gli occhi di tutti, e cioè la svalutazione del lavoro salariato e lo smantellamento progressivo degli elementi di welfare. Pensare che nel prossimo futuro la tempesta passerà è da mentitori o da incoscienti. Dall’euro bisognerà uscire, ed il modo di uscirne sarà il principale indicatore storico-politico del prossimo futuro. Sarà un vero dopoguerra, cui nessuno di noi potrà sottrarsi.

Costanzo Preve: Dell'inutilità in tutti gli ambiti della vita culturale, politica e sociale