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  1. #191
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    Predefinito Re: Poesie del Cattolicesimo integrale

    https://www.radiospada.org/2019/01/c...ella-traviata/

    Nota di Radio Spada: Alla vigilia del 12 gennaio e in occasione d’una nuova rappresentazione scaligera della Traviata secondo la fortunata ed ormai trentennale regia di Liliana Cavani, proponiamo ai nostri lettori un ironico divertissment d’attualità d’un nostro redattore che rivisita alcune importanti scene dell’opera. In calce i nostri lettori potranno anche ascoltare con diletto il video dell’originale (Piergiorgio Seveso)

    Scena tredicesima. Violetta che ritorna affannata, indi Alfredo

    VIOLETTA SPADA:

    Invitato a qui seguirmi,

    Verrà desso? vorrà udirmi?

    Ei verrà, ché l’odio atroce

    Puote in lui più di mia voce.

    ALFREDO R.:

    Mi chiamaste? che bramate?

    VIOLETTA SPADA:

    Questi luoghi abbandonate.

    Un periglio vi sovrasta.

    ALFREDO R.:

    Ah, comprendo! Basta, basta.

    E sì vile mi credete?

    VIOLETTA SPADA:

    Ah no, mai.

    ALFREDO R.:

    Ma che temete?

    VIOLETTA SPADA:

    Temo sempre del Barone

    ALFREDO R.:

    È tra noi mortal quistione.

    S’ei cadrà per mano mia

    Un sol colpo vi torrìa

    Coll’amante il protettore.

    V’atterrisce tal sciagura?

    VIOLETTA SPADA:

    Ma s’ei fosse l’uccisore?

    Ecco l’unica sventura

    Ch’io pavento a me fatale!

    ALFREDO R.:

    La mia morte! Che ven cale?

    VIOLETTA SPADA:

    Deh, partite, e sull’istante.

    ALFREDO R.:

    Partirò, ma giura innante

    Che dovunque seguirai

    i passi miei.

    VIOLETTA SPADA:

    Ah, no, giammai.

    ALFREDO R.:

    No! giammai!

    VIOLETTA SPADA:

    Va’, sciagurato.

    Scorda un nome ch’è infamato.

    Va’ mi lascia sul momento

    Di fuggirti un giuramento

    Sacro io feci

    ALFREDO R.:

    E chi potea?

    VIOLETTA SPADA:

    Chi diritto pien ne avea.

    ALFREDO R.:

    Fu CORVO?

    VIOLETTA SPADA: (con supremo sforzo)

    Sì.

    ALFREDO R.:

    Dunque l’ami?

    VIOLETTA SPADA:

    Ebben, l’amo

    ALFREDO R.: (Corre furente alla porta e grida)

    Or tutti a me.

    Scena quattordicesima. Violetta, Alfredo, e tutta l’ASSEMBLEA DEI SANTI che confusamente ritorna

    TUTTI:

    Ne appellaste? Che volete?

    ALFREDO R.: (additando Violetta che abbattuta si appoggia al tavolino)

    Questa donna conoscete?

    TUTTI:

    Chi? Violetta?

    ALFREDO R.:

    Che facesse non sapete?

    VIOLETTA SPADA:

    Ah, taci

    TUTTI:

    No.

    ALFREDO R.:

    Ogni suo aver tal femmina

    Per amor mio sperdea.

    Io cieco, vile, misero,

    Tutto accettar potea.

    Ma è tempo ancora! tergermi

    Da tanta macchia bramo.

    Qui testimoni vi chiamo

    Che qui pagata io l’ho.

    (Getta con furente sprezzo un LIBELLO ai piedi di Violetta, che sviene tra le braccia di PIERGIORGIO SEVESO e del dottor LUCA FUMAGALLI. In tal momento entra Monsignor GUÉRARD DES LAURIERS)

    Scena quindicesima. Detti e Monsignor GUÉRARD, ch’entra all’ultime parole

    TUTTI:

    Oh, infamia orribile

    Tu commettesti!

    Un cor sensibile

    Così uccidesti!

    Di donne ignobile

    Insultator,

    Di qui allontanati,

    Ne desti orror.

    GUÉRARD: (con dignitoso fuoco)

    Di sprezzo degno se stesso rende

    Chi pur nell’ira la Donna offende.

    Dov’è mio figlio? più non lo vedo:

    In te più Alfredo – trovar non so.

    (Io sol fra tanti so qual virtude

    Di quella misera il sen racchiude.

    Io so che l’ama, che gli è fedele,

    Eppur, crudele, – tacer dovrò!)

    ALFREDO R.: (da sé)

    (Ah sì che feci! ne sento orrore.

    Gelosa smania, deluso amore

    Mi strazia l’alma più non ragiono.

    Da lei perdono – più non avrò.

    Volea fuggirla non ho potuto!

    Dall’ira spinto son qui venuto!

    Or che lo sdegno ho disfogato,

    Me sciagurato! – rimorso n’ho.

    VIOLETTA SPADA: (riavendosi)

    Alfredo, Alfredo, di questo core

    Non puoi comprendere tutto l’amore;

    Tu non conosci che fino a prezzo

    Del tuo disprezzo – provato io l’ho!

    Ma verrà giorno in che il saprai:

    Com’io t’amassi confesserai.

    Dio dai rimorsi ti salvi allora;

    Io spenta ancora – pur t’amerò.

    BARON CORVO: (piano ad Alfredo)

    A questa donna l’atroce insulto

    Qui tutti offese, ma non inulto

    Fia tanto oltraggio – provar vi voglio

    Che tanto orgoglio – fiaccar saprò.

    TUTTI (a Violetta):

    Ah, quanto peni! Ma pur fa core.

    Qui soffre ognuno del tuo dolore;

    Fra cari amici qui sei soltanto;

    Rasciuga il pianto – che t’inondò. (FINE – APPLAUSI)



    dal Minuto 1.27.40
    Ultima modifica di Luca; 28-07-19 alle 14:18

  2. #192
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    Predefinito Re: Poesie del Cattolicesimo integrale

    [CANTI DI FEDE E DI CROCIATA] Chevalier, Mult estes guariz.

    Nota di Radio Spada: Inizia oggi una nuova rubrica radiospadista del carissimo Aurelio Martino Sica dedicata ai canti di Fede, Tradizione e Crociata che spero potrà edificare e i nostri lettori. Una maggiore conoscenza dello spirito crociato rientra pienamente nelle finalità di un sito come il nostro: non a caso nel mio articolo dedicato alla nostra quinta giornata di cultura radiospadista del 25 aprile 2019 vi parlavo di “crociata permanente”. Non mi resta quindi che augurarvi buona lettura e buon ascolto. (Piergiorgio Seveso, presidente SQE di Radio Spada)


    di Aurelio Martino Sica

    Il primo canto di fede e tradizione annoverato dalla nostra rubrica è “Chevalier, Mult estes guariz”, composto in seguito alla resa della Contea crociata di Edessa, in Siria, nel 1144 ad opera di ‘ Imād al-Dīn Zangī, il governatore selgiuchide che ne causò la conquista . Esso invita i cavalieri di Francia del Re Luigi VII alla riconquista della stessa, e quindi incita a partecipare alla seconda crociata, ricordando il Sacrificio e la Passione di NSGC, che in quel luogo per primo fu adorato e glorificato, prendendo ad esempio la figura del Re, tanto potente quanto disposto a sacrificarsi ad maiorem Dei gloriam, ribadendo così i temi crociati per eccellenza, ovvero di guerra santa:- come legittima riconquista dei territori duramente scristianizzati;- come vendetta per i genocidi avvenuti per mano islamica;- come espiazione dei peccati, tramite il proprio sacrificio per la restituzione dei Luoghi Sacri ai popoli cristiani offesi e a Dio. Potete leggere testo e traduzione a questo link: https://lyricstranslate.com/it/cheva...-protetti.html

    Possa questo canto tanto splendido quanto antico accrescere il nostro zelo e aprirci la via alla Verità, in continuità con la tradizione e la fede dei nostri avi, i quali hanno difeso la Cristianità a costo della vita, la cui eredità non può essere dunque così tacitamente dispersa.

    Fonte primaria: https://www.youtube.com/watch?v=6mxCiIXRaWY


  3. #193
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    Predefinito Re: Poesie del Cattolicesimo integrale

    In questa puntata di questa rubrica radiospadista dedicata alla riscoperta e diffusione dell’inesauribile giacimento di tesori politico-culturali dell’intransigentismo, dell’integrismo e anche genericamente del clericalismo di lingua italiana, offriamo al Lettore due sonetti del padre Enrico Maria del Santissimo Sacramento, dell’Ordine dei Carmelitani Scalzi, dedicati a San Tommaso d’Aquino.
    Il primo componimento richiama la massima del Caietano poi ripresa da Leone XIII e Pio XI secondo cui l’Aquinate “perché tenne in somma venerazione gli antichi sacri dottori, per questo ebbe in sorte, in certo qual modo, l’intelligenza di tutti” e la “miracolosità” degli articoli della Summa attestata da papa Giovanni XXII che lo canonizzò il 18 luglio 1223 affermando “Quante proposizioni teologiche scrisse, tanti miracoli fece“.
    Il secondo invece mette in rima la visione di cui fu beneficiato il Santo a Napoli, presso il Convento di San Domenico Maggiore, il 6 dicembre 1273. “Hai scritto bene di me, Tommaso; qual ricompensa ne vuoi avere?” gli disse Gesù Crocifisso. “Non altra, Signore, che te stesso” rispose l’Angelico.

    Se d’Ippona il Dottor su gravi carte
    Scorre veloce ad investir l’errore
    Colla fulminea penna, ei nel calore
    Dallo scopo primier non mai si parte.

    Sfolgora il falso, ma il sofisma e l’arte
    Si schermisce talor dal suo valore;
    Vince, conquide, ma talvolta in cuore
    Riman dell’empio incolume una parte.

    Nel penetrante suo splendor divino,
    Di questa a trionfar co’ raggi sui,
    Apparve l’astro dell’umile Aquino.

    L’empio confuso si die’ vinto a lui;
    Le vestigia calcando d’Agostino,
    Non è stupor se tanto fe’ costui!




    Qual premio brami, qual mercé tu vuoi
    Di tue fatiche? un dì Gesù dicea
    Ad un de’primi Sapienti Eroi
    Della nuova Sionne, ed ei tacea.

    Brami che il mondo ne’ volumi tuoi
    D’un divino saper scorga l’idea?
    Vuoi, che l’empio per te gli errori suoi
    Condanni, e cessi d’una vita rea?

    Alla maggior mia gloria, ed a tuo vanto
    L’avrai tu certo, io tel prometto, ed io
    Sai che non mento ne’ decreti miei.

    No, no, disse Tommaso, effuso in pianto,
    L’amor tuo solo è la mia merce, o Dio,
    E la mia gloria, e l’amor mio tu sei.

  4. #194
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    Predefinito Re: Poesie del Cattolicesimo integrale

    [LIRICA TROBADORICA] Jaufre Rudel e l’amore lontano

    Nota di Radio Spada: nel progressivo percorso di approfondimento della cultura cattolica che Radio Spada sta conducendo da ormai sette anni non potevano mancare dei contributi alla lirica trobadorica a cura di Federico Clavesana. Lo ringraziamo vivamente, auspicando l’intensificazione dei suoi interventi (Piergiorgio Seveso, Presidente SQE di Radio Spada)

    Jaufre Rudel (circa 1125-1148) appartiene alla seconda generazione di trovatori, e pur con i suoi pochi testi poetici passa alla storia come uno dei massimi esponenti della lirica provenzale dell’amore cortese. Giovane signore di Blaye, Jaufre si fa teorico dell’amor de lonh, ossia dell’amore lontano, in cui l’anelo e la consunzione sono elementi costitutivi della relazione amorosa, che affinano ed elevano l’anima nella contemplazione dell’oggetto del desiderio, in una tensione irrisolta destinata a non appagarsi mai. Esponente del trobar leu, ossia di uno stile di composizione leggero e comprensibile, Jaufre canta le bellezze di una donna lontana, che non nomina mai, e che probabilmente non ha mai neppure incontrato, dando così adito alle più varie speculazioni. Le antiche fonti della vida del trovatore, tra storia e leggenda, affermano che si sarebbe innamorato della contessa di Tripoli soltanto per averne sentito raccontare le virtù da alcuni pellegrini, e che si sarebbe fatto crociato per vederla, ammalandosi durante il viaggio e morendo tra le sue braccia. Se è ragionevole presumere che l’episodio nella sua interezza non corrisponda precisamente alla realtà storica, è certo però che Jaufre partecipò alla seconda crociata, della qual cosa resta traccia in alcune poesie come quella qui proposta. In questa lirica, che dal genere della canso d’amore vira nelle ultime due strofe verso la canzone di crociata, Jaufre sublima la tensione d’amore nell’anelo al compimento del proprio dovere in Terrasanta, al richiamo di quel Buon Garante che ancora divide gli studiosi, e che alcuni individuano nella donna amata, in un signore feudale, o, più coerentemente con il senso della strofa, in Cristo stesso che chiama gli uomini alla redenzione attraverso la partenza per outramar, per mutuare il lessico provenzale. (a cura di Federico Clavesana)

    Jaufre Rudel

    Quan lo rossinhol el follos

    Quan lo rossinhol el follos
    Dona d’amor e·n quier e·n pren
    E mou son chant jauzent joyos
    E remira sa par soven
    E·l riu son clar e·l prat son gen,
    Pel novel deport que-y renha,
    Mi vai grans joys al cor jazer.

    D’un’amistat suy enveyos,
    Quar no sai joya plus valen,
    Que d’aquesta, que bona·m fos
    Si·m fazia d’amor prezen,
    Que·l cors a gras, delgat e gen
    E ses ren que-y descovenha,
    E s’amors bon’ ab bon saber.

    D’aquest’ amor suy cossiros
    Vellan e pueys sompnhan dormen,
    Quar lai ay joy meravelos,
    Per qu’ieu la jau joyos jauzen.
    Mas sa beutatz no·m val nien,
    Quar nulhs amicx no m’essenha
    Cum ieu ja n’aya bonsaber.

    D’aquest’ amor suy tan cochos
    Que quant ieu vau ves lieys corren
    Vejaire m’es qu’a reversos
    M’en torn e que lieys n’an fugen.
    E mos cavals i vai tan len
    e greu cug mais que y atenha,
    S’ilha no·s vol arretener.

    Amors, alegres part de vos
    Per so quar vau mo mielhs queren,
    E fuy-en tant aventuros
    Qu’enqueras n’ay mon cor jauzen.
    Mas pero per mon Bon Guiren
    Que·m vol e m’apell’ e·m denha
    m’es ops a parcer mon voler.

    E qui sai reina deleytos
    E Dieu non siec en Bethleem
    No sai cum ja mais sia pros
    Ni cum ja venh’ a guerimen,
    Qu’ieu sai e crei, mon escien,
    Que selh qui Jhesus ensenha
    Segur’ escola pot tener.

    Traduzione:

    Quando l’usignolo per i boschi

    Dà amore, ne chiede e ne prende,

    E in gioia muove il suo canto gioioso

    E spesso riguarda la sua compagna,

    E i fiumi sono chiari, e i prati sono gentili,

    Per la nuova felicità che vi regna

    Una grande gioia mi si posa in cuore.

    Sono invidioso di un’amicizia,

    Perché non so gioia di più valore

    Di questa, che mi sarebbe propizia

    Se (ella) mi facesse un dono d’amore,

    (Ella) che il corpo ha florido, grazioso e gentile,

    E senza alcuna cosa di sconveniente,

    E il suo amore è buono con un buon gusto.

    Sono preoccupato per questo amore,

    Nella veglia e nel sonno mentre sogno,

    Perché là c’è una gioia meravigliosa

    Per cui io ne gioisco, gioioso e felice.

    Ma la sua bellezza non mi serve a nulla,

    Perché nessun amico mi insegna

    Come ne possa sentire il buon gusto.

    Di questo amore sono così desideroso

    Che quando vado verso lei correndo

    Mi sembra che all’indietro

    Io torni e che lei se ne vada fuggendo.

    E il mio cavallo va così tanto lentamente

    Che non credo che mai ce la faccia,

    Se ella non vuole attendere.

    Amore, parto allegro da te,

    Perché vado a cercare il mio meglio,

    E ne sono stato così fortunato

    Che ancora ho il cuore che ne gioisce.

    Tuttavia, per il mio Buon Garante,

    Che mi vuole, mi chiama e mi fa degno,

    Devo trattenere il mio volere.

    E colui che qui regna con diletto

    E non segue Dio a Betlemme

    Non so come possa essere valoroso

    Né come possa arrivare alla salvezza.

    Perché io so e credo, nella mia esperienza,

    Che chi ha Gesù ad insegnargli

    Può avere una sicura scuola.



    Fonte: https://www.radiospada.org/2019/06/l...amore-lontano/

  5. #195
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    Predefinito Re: Poesie del Cattolicesimo integrale

    Radio Spada non poteva lasciar cadere nell’oblio il 150° anniversario dell’occupazione sacrilega di Roma, compiuta dalla truppa italiana (rectius sabauda) il 20 settembre 1870, in spregio alle leggi divine ed umane, nè dimenticare coloro che in quella ed altre occasioni difesero il trono di Pietro che è il trono di Cristo, donando vita e giovinezza per la più nobile e più pura delle cause. Molte parole ci vengono alle labbra per chi ha reso possibile tutto questo: parole di disprezzo e di infamia. Una sola cosa ci permetterete di dire, sine ira ac studio: la Breccia di Porta Pia rappresenta non un punto di arrivo ma un punto di passaggio verso nuovi e più insidiosi assedi cui venne sottoposta la Chiesa cattolica. Infatti l’assedio continuò anche dall’interno, prima attraverso un acquiescente clero liberaleggiante e incline alla “Conciliazione” negli anni ottanta e novanta del diciannovesimo secolo (ricordiamo gli episcopati di Bonomelli, Scalabrini, Nazari di Calabiana e altri ancora), poi attraverso il sottile veleno dell’invasione modernista negli anni dieci (sempre attraverso episcopati ora deboli, ora compiacenti come quelli, ad esempio, di Maffi, Radini Tedeschi o Ferrari a Milano), poi ancora attraverso una seconda ondata neomodernistica degli anni quaranta e cinquanta del Novecento (tipica di un certo episcopato francese, tedesco e genericamente mitteleuropeo), intronizzatasi stabilmente negli anni Sessanta in Vaticano. In tale tregenda scegliamo però di utilizzare un registro lieve e poetico per ricordare questi eventi: una poesia che, pubblicata a Genova ne “Il Canzoniere di un clericale” del 1890 con lo pseudonimo di Leonzio Piper, fu scritta in realtà da un giovane sacerdote, Don Giacomo Pastori, giornalista intransigente, antiunitario e poi antimodernista.

    L’Italia, bella e sana quando era “espressione geografica” divisa in molti stati, si mostra ora pietrificata con i suoi abitanti del passato (i grandi) e del presente (il popolino ripiegato su se stesso, impoverito e immiserito nel suo continuo tentativo di soddisfare i bisogni primari), nel momento che le logge massoniche l’hanno unificata con la frode e il maneggio politico. Quando gli stranieri vengono a chiedere notizie della sua antica e multiforme grandezza, l’Italia e gli “italiani” risultano muti, fusi nel bronzo, imprigionati nel marmo, sepolti nella pietra di un passato glorioso ma archiviato. Al loro posto parlano la Squadra e il Compasso ovvero le lobby e le logge culturali e politiche del risorgimento e di una unificazione italiana, fatta senza popolo e contro il popolo. Una satira magistrale, sferzante nel suo crudo realismo, attualissima e scritta con ottimo mestiere.

    Edizione a cura di Piergiorgio Seveso

    1

    La Squadra e’l Compasso

    Che fecer l’italia

    L’han fatta di sasso.

    La diedero a balia

    Ma quando ai redenti

    Poi crebbero i denti,

    Temendo lo strame

    (Già messo da parte)

    Per subita fame perduto

    N’andasse, con arte,

    Con birba retorica

    La Squadra e’l Compasso

    Li fecer di sasso.

    2

    Oh comoda sorte!

    Oh bella una gente

    Di sasso! Essa e’forte,

    Nè soffre di niente;

    Non mangia, non beve,

    Gl’insulti riceve,

    Con tutti sta’n pace,

    Non urta i partiti;

    Si tosi, essa tace,

    Non suscita liti;

    Si batta, e’ impossibile

    Si mova d’un passo,

    Un popol di sasso.

    3

    E poi (oltr’a questo)

    Un popolo tale

    È un popolo onesto:

    Dà bene per male;

    Per chi lo strapazza,

    Fatica e s’ammazza.

    Il proprio padrone

    (Menassegli ancora

    Su’l capo un bastone)

    Pur l’ama, L’adora;

    Non pensa a rivincite,

    Non fa lo smargiasso

    Un popol di sasso.

    4

    E’ smunto, rimunto,

    Pur soffre e sta zitto,

    Di dentro è consunto,

    Pur serbasi ritto,

    Pur mostra allegria

    Di fuori, ed oblia

    La fame e gli stenti,

    L’ingiurie, i dolori;

    Tien l’alma coi denti,

    Pur sbracia.. a’l di fuori!

    Non scopre’l suo debole,

    Non segna ribasso

    Un popol di sasso.

    5

    Se latte mai chiede

    De’ geni a la balia,

    L’estrano,e poi vede

    Il popol d’italia

    Un popolo “fuso”,

    S’arresta confuso,

    Ripensa e fra sè’

    Intanto domanda:

    L’italia! Oh Dov’è’

    La terra ammiranda?

    – E’ questa – risposegli

    La Squadra e’l Compasso –

    L’italia.

    – Di sasso?! -.

    6

    – Di sasso, sicuro-.

    – E i grandi ove sono,

    I grandi che furo

    Si largo suo dono?-.

    – Oh Dio! Non avete

    Voi Gli Occhi? Vedete

    Quei marmi ammirandi

    Che s’ergono intorno?

    Son essi quei grandi,

    I grandi d’un giorno-.

    Li ammira ‘n statua

    Li imita ne’l masso

    Il popol di sasso.

    7

    E poi, se non sempre

    Riesce a imitarli

    (Chè ha deboli tempre,

    Nè’ spera arrivarli)

    Di sasso una gente

    Rossore non sente;

    Va’nnanzi ignorante,

    Non tira a gonfiare,

    Per lei è bastante

    Che s’abbia a mangiare…

    Insomma l’italia

    Devota e’a’l Compasso…

    L’italia è di Sasso!



    Leonzio Piper

  6. #196
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    Predefinito Re: Poesie del Cattolicesimo integrale


  7. #197
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    Predefinito Re: Poesie del Cattolicesimo integrale

    [CANTI DI FEDE E DI CROCIATA]: SENHORS, PER LOS NOSTRES PECCATZ



    Nota di Radio Spada: Continua la rubrica radiospadista del carissimo Aurelio Martino Sica dedicata ai canti di Fede, Tradizione e Crociata che spero potrà edificare i nostri lettori. Una maggiore conoscenza dello spirito crociato rientra pienamente nelle finalità di un sito come il nostro: non a caso nel mio articolo dedicato alla nostra quinta giornata di cultura radiospadista del 25 aprile 2019 vi parlavo di “crociata permanente”. Nelle tepide sere di un’estate surreale e sfigurata dalla pandemia, fatevi cullare, cari lettori ed amici, da queste note di Gavaudan che rimandano all’eterno presente del cattolicesimo militante. Non mi resta quindi che augurarvi buona lettura e buon mese d’agosto. (Piergiorgio Seveso, presidente SQE di Radio Spada)



    “Senhors, per los nostres peccatz” è un canto crociato del XII secolo del trovatore provenzale

    Gavaudan.

    Esso si inserisce nel contesto dei canti di crociata “ad Occidente”: l’intento, infatti, è quello di smuovere i re cristiani d’Europa in favore della Reconquista della Spagna, quindi in supporto del “rey d’Espanha” Alfonso VIII di Castiglia.

    Il canto è stato presumibilmente composto nel 1196-1197, dopo “il clamoroso tracollo delle forze cristiane ad Alarcos, allorché il califfo Abu Yusuf Ya’qub al-Mansur protrasse per oltre due anni le sue spettacolari scorrerie nella Spagna centro-settentrionale e, facendo intuire il disegno di voler prima consolidare il potere nella penisola iberica e poi estendere la mira espansionistica in direzione della Francia meridionale, determinò allarme e sgomento tra la popolazione europea e in particolare occitanica” [1], essendosi spinto “verso zone della Spagna settentrionale da tantissimo tempo non raggiunte dagli Arabi ed ormai per tradizione considerate baluardo invalicabile del mondo occidentale” minacciando “di proiettarsi verso Proensa e Tolzas (cioè la Provenza e Tolosa)” [2].

    Il re del Marocco, inoltre, esplicitò il suo progetto di “marciare fino a Roma e spazzare via la Basilica di San Pietro con la spada di Maometto”: la seria minaccia alla Francia meridionale, prima, e all’Europa tutta, specie Roma – centro della Cristianità –, non poté che portare angoscia e timore, in quel che era il momento peggiore della Reconquista. Ecco perché si legge l’appello all’imperatore Enrico VI, ai re Filippo Augusto e Riccardo Cuor di Leone, ed al Conte Raimondo VI di Tolosa, a correre in aiuto del rey d’Espanha.

    Tutti, “Alemanni, Francesi, Cambresini, Inglesi, Bretoni, Angioini, Bearnesi, Guasconi”, ab nos mesclatz, cioè “uniti a noi (provenzali)”, dice Gavaudan: l’autore mostra, nella strofa VII, di identificarsi coi sudditi del Conte di Tolosa Raimondo VI, senza l’aiuto del quale vana sarebbe stata la resistenza degli altri popoli francesi, rendendo così il suo grido disperato d’aiuto un grido personale, e non una chiamata alle armi doverosa ma estranea al contesto, lontana.

    Curioso è il fatto che «assieme ai “cani che Maometto ha abbindolato“, il trovatore voglia vedere sgominati “i rinnegati che sono passati dalla loro parte“. Questi ultimi sono da riconoscere nei Leonesi. All’indomani, infatti, della battaglia di Alarcos, Alfonso IX di Leon si schierò al fianco di al-Mansur nelle rovinose spedizioni contro la Castiglia, impegnandosi tanto a fondo da provocare nell’ottobre 1196 la sua scomunica da parte di Celestino III, seguita nell’aprile dell’anno successivo dall’incitamento a combatterlo come un infedele e a devastare il suo regno» [3].

    Oltre all’iniziale richiamo al peccato come causa della guerra e delle sconfitte dei cristiani, ed alla penitenza come rimedio, Gavaudan “non smarrisce il senso della realtà: egli si rende conto che non bastano le promesse di vittoria, di gloria e di salvezza eterna (“Cristo … ci collocherà tra gli eletti”, ndr), ad indurre principi e cavalieri a prendere le armi per una missione pur nobile ed alta, ma che è necessario il miraggio d’un guadagno immediato e d’un compenso materiale (“e poi sarà diviso tra noi tutto il loro oro”, frutto – comunque – anche delle conquiste delle terre cristiane, ndr) per smuovere gli uomini dalle loro abitudini e dai loro interessi quotidiani. Le ricchezze degli Arabi erano proverbiali, e la speranza di potersene impadronire (che il poeta tanto sapientemente insinua) rappresentava certamente una spinta per un’azione militare contro di loro” [4].

    Infine, Gavaudan conclude il suo sirventese con la certezza del profeta, quasi volendo obbligare i suoi interlocutori all’impegno militare, non essendovi altra via di scampo per la salvezza dell’Occidente: morte ai cani! E Dio sarà onorato e servito là dove Maometto era adorato.

    TESTO:

    Signori, per i nostri peccati cresce la forza dei Saraceni: Saladino ha preso Gerusalemme ed essa non è stata ancora riconquistata; ed ecco che il re del Marocco fa sapere che si batterà contro tutti i re cristiani assieme ai suoi perfidi Andalusi e Arabi armati contro la fede di Cristo.

    II. Ha mandato a chiamare tutti i suoi luogotenenti, masmudi, mori, goti e berberi, e non c’è nessuno, pingue o mingherlino, che non sia stato incluso nei ranghi: mai pioggia venne giù più fitta di quanto siano essi quando passano ricoprendo le pianure; egli (il re del Marocco) spinge al pascolo come pecore queste orde, carogne per gli avvoltoi, e (dopo il loro passaggio) non resta filo d’erba né radice.
    III. Sono così pieni di boria quelli che egli ha convocato che credono d’essere i padroni del mondo; Marocchini e Marabutti sostano a mucchi in mezzo ai prati e fra di loro dicono irridendo: «Franchi, fateci largo! Nostra è la Provenza e la regione attorno a Tolosa e tutta la terra fino a Puy!». Mai così terribile minaccia era stata udita da parte di questi perfidi, spregevoli cani infedeli.
    IV. Ascoltate, imperatore, e voi, re di Francia, e voi, suo cugino, e voi, re d’Inghilterra, conte di Poitiers: correte in soccorso del re di Spagna! Nessuno ebbe mai migliore occasione di servire Dio: con la Sua assistenza vincerete tutti i cani che Maometto ha abbindolato e i rinnegati che son passati dalla loro parte.

    V. Gesù Cristo, che ha voluto illuminarci con la Sua parola perché la nostra fine fosse buona, ci mostra qual è la giusta via: con la penitenza sarà perdonato il peccato che cominciò da Adamo. E desidera assicurarci fermamente che, se abbiamo fede in Lui, ci collocherà tra gli eletti e sarà laggiù nostra guida contro i perfidi scellerati infedeli.

    VI. Non lasciamo i nostri beni, dal momento che siamo sostenuti dalla grande fede, ai cani negri d’oltremare: che ciascuno ci rifletta, prima che il danno ci colpisca! Portoghesi, Galleghi, Castigliani, Navarrini, Aragonesi, Seritani, abbiamo loro opposto come barriera, ma essi li hanno respinti e umiliati.

    VII. Quando vedranno i baroni crociati, Alemanni, Francesi, Cambresini, Inglesi, Bretoni, Angioini, Bearnesi, Guasconi, uniti a noi, coi Provenzali, tutti in un imponente stuolo, allora, potete essere certi, assieme agli Spagnoli, fenderemo la calca e la testa (degli invasori) e le mani, fino ad ucciderli tutti e a sterminarli; e poi sarà diviso tra noi tutto il loro oro.

    VIII. Gavaudan sarà profeta: ciò che ha predetto si avvererà. E morte ai cani! E Dio sarà onorato e servito là dove Maometto era adorato. I. Senhors, per los nostres peccatz creys la forsa dels Sarrazis: Jherusalem pres Saladis et encaras non es cobratz; 5 per que manda·l reys de Marroc qu’ab totz los reys de Crestias se combatra ab sos trefas Andolozitz et Arabitz contra la fe de Crist garnitz.

    II. 10 Totz los alcavis a mandatz: masmutz, maurs, goitz e barbaris, e no·y reman gras ni mesquis que totz no·ls aya·n ajostatz: anc pus menut ayga non ploc 15 cum elhs passon e prendo·ls plas; la caraunhada dels milas geta·ls paysser, coma berbitz, e no·y reman brotz ni razitz.

    III. Tant an d’erguelh selh qu’a triatz 20 qu’els cujo·l mons lur si’aclis; Marroquenas, Marabetis pauzon a mons per mieg los pratz; mest lor gabon: «Franc, faiz nos loc! Nostr’es Proensa e Tolzas, 25 entro al Puey totz lo mejas!» Anc tan fers gaps no fon auzitz dels falses cas, ses ley, marritz.

    IV. Emperaire, vos o aujatz, e·l reys de Frans’e sos cozis, 30 e·l reys engles, coms peitavis: qu’al rey d’Espanha secorratz! Que anc mais negus mielhs no poc a servir Dieu esser propdas: ab Luy venseretz totz los cas 35 cuy Bafometz a escarnitz e·ls renegatz outrasalhitz.

    V. Jhezus Cristz, que·ns a prezicatz per que fos bona nostra fis, nos demostra qu’es dregz camis: 40 qu’ab penedens’er perdonatz lo peccatz que d’Adam se moc. E vol nos far ferms e certas, si·l crezem, qu’ab los sobiras nos metra, e sara·ns la guitz 45 sobre·ls fals fellos descauzitz.

    VI. Non laissem nostras heretatz, pus qu’a la gran fe em assis, a cas negres outramaris; q’usquecx ne sia perpessatz 50 enans que·l dampnatge nos toc! Portogals, Gallicx, Castellas, Navars, Aragones, Serdas lur avem en barra gequitz qu’els an rahuzatz et aunitz.

    VII. 55 Quan veyran los baros crozatz, Alamans, Frances, Cambrezis, Engles, Bretos et Angevis, Biarns, Gascos, ab nos mesclatz, e·ls Provensals, totz en un floc, 60 saber podetz qu’ab los Espas romprem la preyss’e·l cap e·ls mas, tro·ls ajam mortz totz e delitz; pueys er mest nos totz l’aurs partitz.
    VIII. Profeta sera·n Gavaudas 65 que·l digz er faitz. E mortz als cas! E Dieus er honratz e servitz on Bafometz era grazitz.

    – Linea 3: Gerusalemme cadde in mano a Saladino il 2 ottobre 1187.

    – Linea 5: i califfi almohadi si proclamarono governanti non solo del Marocco ma di tutta l’Ifriqiya e di al-Andalus.

    – Riga 11: i Masmude erano una tribù berbera della dinastia degli Almohade.

    – Riga 44: indica che Gavaudan non era in Spagna quando ha composto questa canzone [5].

    [1] S. Guida, il trovatore Gavaudan, 1979.

    [2] http://www.rialto.unina.it/Gav/174.10(Guida).htm

    [3] S. Guida, Canzoni di Crociata, Ed. Luni, 2001.

    [4] Ibidem.

    [5] Note estratte dalla fonte [2].

    Elenco delle puntate precedenti:

    [CANTI DI FEDE E DI CROCIATA]: CHEVALIER, MULT ESTES GUARIZ (1° puntata)

    [CANTI DI FEDE E DI CROCIATA]: EL MARTES ME FUSILAN (2° puntata)

    [CANTI DI FEDE E DI CROCIATA]: BRIGANTE SE MORE (3° puntata)

 

 
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