Dal 29 novembre per Ramush Haradinaj, ex leader dell'Uçk (Esercito di liberazione del Kosovo) ed ex premier del paese, il carcere di Scheveningen del Tribunale penale internazionale dell’Aja (Tpi) è soltanto un ricordo. "Non colpevole per tutti i capi d'accusa", così la sentenza definitiva del Tribunale lo assolve per la seconda volta dall’accusa di essere stato al vertice di una “impresa criminale” il cui fine era la pulizia etnica della regione di Dukagijn, a partire dal 24 marzo 1998.



Imputazioni decadute per insufficienza di prove. Vince così la linea innocentista portata avanti per sette anni da Haradinaj e dai suoi uomini, Idriz Balaj e Lahi Brahimaj, assolti con lui dall’accusa di aver organizzato e commesso “crimini contro l’umanità e trattamenti inumani e degradanti tra i quali tortura, omicidi e stupri a carico dei civili deportati presso il campo di detenzione di Jablanica”.



Un sonoro schiaffo per il procuratore Paul Roger che soltanto lo scorso giugno aveva richiesto una pena minima di 20 anni, e l’ennesimo trionfo per questo ambizioso quarantaquattrenne passato con nonchalance dalla mimetica al doppiopetto. Sullo sfondo, una vicenda giudiziaria non scevra da coup de théâtre, personalismi e protagonismi maldestri che hanno logorato non poco l’immagine di neutralità ed imparzialità dell’Alta corte e della comunità internazionale coinvolta nella vicenda.



Facciamo un passo indietro, a quel 4 marzo 2005 in cui dall’Aja viene spiccato il mandato di arresto per Haradinaj. Premier del Kosovo da quattro mesi, l’uomo è considerato dalla comunità internazionale il leader politico più credibile sulla scena kosovara. È proprio con una mossa da statista, come sottolineeranno tanti dei suoi sodali internazionali, che l'8 marzo si dimette, consegnandosi volontariamente al Tpi. Da lì sostenuto da una squadra difensiva di eccellenza, capitanata da Ben Emmerson del Matrix Chambers di Londra, si dichiara non colpevole.



Il suo ruolo politico, però, non si estingue con la detenzione. Ramush è una figura troppo influente per poter essere relegata in un angolo e da eminenza grigia giganteggia sia negli esecutivi che si avvicenderanno nel paese, sia nei tavoli negoziali di livello internazionale che precederanno l’auto-proclamazione di indipendenza del 2008.

È in questa prospettiva che possono essere lette le pressioni dell’Unmik sul Tpi per accelerare il suo rientro in patria, appena un anno dopo la formalizzazione delle accuse per crimini di guerra. Azione diplomatica che prima incassa il rilascio provvisorio avvenuto a marzo 2005; poi, a ottobre dello stesso anno, ottiene l’autorizzazione del Tribunale a ritornare alla vita pubblica per occuparsi di questioni politiche e dei negoziati sullo status finale del Kosovo. Per Haradinaj e i kosovari che da anni lo considerano un padre della patria è un trionfo, legittimato in pieno dalla sentenza di prima grado di aprile 2008 che lo assolve da tutti i capi d'accusa.



Nel luglio 2010, il colpo di scena. Il presidente della Camera d’appello Patrick Robinson accoglie il ricorso presentato dall’ufficio della Procura contro la sentenza di primo grado. “L'incapacità del Tribunale di assicurare le deposizioni di alcuni testimoni, a causa dell'inadeguatezza nel cogliere la gravità delle intimidazioni verso gli stessi” ha compromesso l’integrità del processo. È qui che entra in scena il tassello più oscuro della vicenda processuale Haradinaj: la “accertata attività intimidatoria nei confronti dei testimoni” resa perfettamente da quella girandola funerea dei dieci testi a suo carico spariti, morti in incidenti stradali dai contorni opachi o ammazzati a colpi di pistola.



La fragilità del quadro testimoniale mette in discussione l’essenza dell’assoluzione della scorsa settimana. Il punto interrogativo resta sempre lui, l’ambiguo Haradinaj. “Il gangster in uniforme”, secondo l’ex procuratrice del Tpi Carla Del Ponte, adesso a un passo da un ennesimo incarico di governo. Scenario, questo, auspicato già nel 2005 dal diplomatico Soren Jessen-Petersen.

“Sono fiducioso del fatto - queste le parole dell’ex segretario generale di Unmik - che Haradinaj sarà nuovamente capace di servire il Kosovo, per il cui futuro si è già molto sacrificato e a cui ha molto contribuito”. L’endorsement di allora, oggi è realtà.



Per una pagina giudiziaria che si chiude, un’altra, parimenti gravida di tensioni, se ne apre a livello internazionale. "Il tribunale dell'Aja ha legalizzato un codice mafioso, basato sull’omertà e sul silenzio". Il governo serbo, già scosso dall’assoluzione di Gotovina e Markač, commenta senza mezzi termini. Per ora il presidente Nikolic si è limitato a disertare per protesta il summit regionale convocato dal presidente montenegrino Vujanovic, mentre a Belgrado le proteste di piazza organizzate dal Partito radicale serbo guidato da Vojislav Seselj hanno riacceso il dibattito sulle prospettiva europea della Serbia e sul suo ruolo internazionale.



“I colpevoli non sono i giudici del Tpi ma chi dà gli ordini: Usa, Ue e Nato” ha dichiarato un manifestante. Sullo sfondo lo sventolio dei poster di Ratko Mladic, l'ex capo militare dei serbi di Bosnia sotto processo al Tpi per genocidio e crimini contro l’umanità commessi durante la guerra civile in Bosnia Erzegovina del 1992-1995; il suo processo, partito il 16 maggio di quest’anno, si preannuncia gravido di tensioni.



E l’Europa? Nella ridda di innocentisti e colpevolisti, la Commissione europea ha scelto per l’ennesima volta di mantenere un profilo basso. Un commento laconico, in cui si limita a comunicare di aver “preso nota” dell’assoluzione e di “incoraggiare i paesi della regione a continuare il lavoro di riconciliazione''. Forse a Bruxelles non hanno capito che non è più tempo di messaggi retorici.



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Haradinaj, un uomo troppo potente per essere condannato - rivista italiana di geopolitica - Limes