Qualche mese va mi ero impegnato in una ricerca sul nazionalbolscevismo e, convinto di aver approfondito a sufficienza l’argomento, avevo pubblicato due articoli di approfondimento. In quegli scritti prendevo in esame accaduti storici, figure politiche e filosofiche che, con lo sviluppo del quadro geopolitico europeo, fossero riuscite a sviluppare una vera e propria dottrina politica del nazionalcomunismo. Ero arrivato alla conclusione che i vari esperimenti politici e meta politici avevano, in 30 anni di lotte intestine, portato alla creazione di un piccolo e fragile nucleo teorico; debitore di Junger, Marx, Lenin e Spengler. Oggi posso affermare che quella mia ricerca era compiuta fino a metà. Questo perché, se da un lato il nazionalcomunismo non aveva un padre fondatore nella teoria, ma era bensì nato dalla prassi politica di operai, contadini e vecchi junker tedeschi, dall’altra non poteva che essere uno dei risultati politici di una più vasta cultura filosofica tedesca. Per approfondire quest’aspetto del nazionalcomunismo il modo migliore è scoprire la figura dell’Arbeiter tedesco descritta abilmente da Ernst Junger nel suo capolavoro “Der Arbeiter. Herrschaft und Gestalt” del 1932. Sin dalle prime pagine del libro appare chiaro che l’Arbeiter rappresenta filosoficamente “il portatore di una forma all’interno di una gerarchia di forme” chiamando così il lavoratore ad un “compito immediato”, un destino ineluttabile squisitamente politico. Dall’altra parte l’Arbeiter è da intendersi in costante relazione allo Stato, ovvero la sua forma più immutabile e incorrotta, destinata a sopravvivere anche “in assenza di corpo”, come tiene a sottolineare lo stesso Junger. L’operaio di Junger, lontano anni luce dal proletario marxiano, rappresentante di una classe sociale storicamente determinata, appare come un precipitato di ideologia metafisica. Si potrebbe quindi avanzare una prima ipotesi; se il Das Capital di Marx rappresenta il momento fondante della critica dell’economia politica, il Der Arbeiter introduce la prima critica della metafisica politica; nel senso che, pur ripercorrendo la strada dell’operaio marxiano e l’individuazione del capitalismo come principio scardinante dell’essenza umana, ne rilegge le intenzioni ideologiche, spostando l’interesse dal piano filosofico – economico a quello ontologico – filosofico. Non è infatti un caso che Junger, come Marx, non concepisca l’economia come principio dei giochi politici tra capitale e lavoro salariato, ma a differenza di Marx pone l’accento sul carattere spirituale che contraddistingue l’operaio. Il sottotitolo dell’opera di Junger non lascia spazio ad ulteriori letture; Herrschaft und Gestalt, Dominio e forma. Il lavoratore assume le fattezze di un unicum politico e trascendente, una “forma formarum” che trova la sua essenza nel dominio. Si tratta di un evidente riferimento goethiano, dove il lavoratore diviene forma senza tempo immerso nel grande vortice del divenire storico – temporale. Il ruolo che Junger assegna all’Arbeiter è ora svelato: quello di forma fattrice di forme all’interno di una più vasta metafisica della storia. Per questo motivo Junger tiene a precisare che la storia è la tradizione del vincitore, dal momento che chi domina la forma della storia è destinato a dominare i vincitori della storia stessa. Inoltre l’accento autoritario e aristocratico che caratterizza l’Arbeiter jungeriano richiama giustamente la rilettura che Heidegger operò di Nietzsche:


“[...]laddove, notoriamente, si giudica la volontà di potenza un criterio di stabilizzazione del reale all’ombra della fine di qualsiasi valorazione trascendente del mondo.”

In tal senso la creatura di Junger si impone su quella grande storia metafisica del popolo tedesco in cui sono coinvolti tanto la filosofia quanto la produzione ideologica nella sua immediatezza, la teoria politica, la letteratura e addirittura l’arte. In questa storia metafisica e romantica la figura del lavoratore muta e da semplice agente produttore dei mezzi di sussistenza di un interna nazione diventa principio distruttore: o meglio, produttore di una nuova modernità su un piano diverso da quello passato.


“Il lavoro non è quindi attività in senso lato, ma espressione di un essere particolare che tenta di appropriarsi del suo spazio, del suo tempo, della sua legittimità. Perciò esso non conosce alcuna forza che gli si opponga dall’esterno, somiglia al fuoco che divora e distrugge tutta la materia infiammabile, ed essa gli può essere contesa solo dal suo stesso principio.”

La differenza abissale con Marx sta nel fatto che l’Arbeiter non si pone come forza dialettica tra due essenze economico – politiche, ma come “conflagrazione epocale di forme” inevitabilmente contrapposte sul piano storico ed etico. Oltre alla novità dell’elemento dominante in senso metafisico, in Junger assume sempre maggior rilievo la questione della statualità. Come abbiamo detto sin dall’inizio, la forza creatrice e rivoluzionaria dell’operaio si muove all’interno dell’orizzonte statale; scopo dell’Arbeiter – lo si capisce immediatamente – non è tanto quello di porsi il problema del potere in astratto, del diritto e delle leggi nelle sue declinazioni concrete e storiche, ma quello di porre la questione del potere nelle sue concrete declinazioni di dominio e dunque nelle sue implicazioni filosofico – metafisiche. Anche in questo senso quindi l’operaio di Ernst Junger si sottrae a qualsiasi rilettura marxiana o post marxiana e abbraccia piuttosto un altro tipo di tradizione politica tedesca che concentra la sua attenzione intorno al sistema concettuale soggetto – stato – rivoluzione e che deve alla scuola post-hegeliana il suo sviluppo. Poco a che vedere dunque con la tradizione della Konservative Revolution che ha anzi, è bene dirlo, ghettizzato il pensiero jungeriano all’interno di steccati ideologici assai distanti dall’idealismo di hegeliana memoria. A leggere gli scritti di Junger compresi tra la fine della Grande Guerra e il 1933 si coglie infatti con sufficiente chiarezza che l’iniziale entusiasmo dello Junger ex – tenente e medaglia al valore, nonchè leader del “nuovo nazionalismo” che guardava con simpatia al nascente movimento nazionalsocialista, degenera in una progressiva presa di distanza da Hitler e dalla politique politicienne. Allontanamento che culminerà nel romanzo dichiaratamente anti – hitleriano “Sulle scogliere di marmo”. Quando qualche nazionalista riprendere la frase “Noi non andiamo né a destra, né a sinistra. Andiamo avanti dritti.” non ha quindi ben presente che Junger non solo si distaccò dalla prassi politica, finendo per disprezzarla con tutto se stesso, ma assegnava a questa frase un ben più vasto significato metafisico che con la destra e la sinistra partitica poco ha a che spartire. Se Junger rinuncia ad una linea d’intervento diretta nella politica, concentrandosi su ricerche più generali e filosofiche, Ernst Niekisch, tre anni dopo la stampa del “Der Arbeiter”, pubblica un interessante pamphlet politico dal titolo “Die Dritte imperiale Figur”. Ernst Niekisch è una figura assai complessa e controversa, ma in sé unica e particolare. Accanito militante della SPD, ne fuoriesce dopo pochi anni con una violenta polemica. Successivamente afferma che la sua:


“intransigenza era direttamente proporzionale alla difficoltà di definire il suo programma politico.”

Con altri compagni dell’SPD fonda un nuovo gruppo che chiama Widerstand – resistenza – con cui apre un giornale e pubblica vari pamphlet. L’idea fondante della politica di Niekisch è che la Germania è una nazione giovane con tendenze squisitamente antiliberali e anticapitalistiche, indi per cui l’alleanza ad oriente con la Russia dei Soviet e di Stalin è una necessità dell’intero popolo tedesco. Sopra questa convinzione strategica e geopolitica Niekisch costruisce una fantasia politica che vede fondersi elementi del socialismo russo, con il carattere eroico ed aristocratico degli antichi cavalieri tedeschi, per finire con il militarismo del più attuale nazionalismo germanico. In “Die Dritte imperiale Figur”, stampato in poche decine di copie a Berlino, Niekisch declina la figura dell’Arbeiter jungeriano in una chiave ancor più esplicitamente nazionalista. Secondo l’autore esistono due tipologie storico-umane destinate a perdurare nel tempo: sono l’ewiger Romer e l’ewiger Jude:


“L’eterno romano e l’eterno ebreo sono due figure imperiali che attraversano con ampio respiro e passo non misurabile il nostro spazio storico.”

A queste due figure, contrapposte tra loro per il dominio imperiale, si oppone un terzo carattere che sorge dal conflitto stesso dell’ ewiger Romer e dell’ewiger Jude; è l’ewiger Barbar, contadino e guerriero. Questo nuovo carattere supererà il conflitto dei due principi precedenti trasformando l’impero romano in quello del Reich tedesco. Siamo ancora assai distanti dal ragionamento razziale della Blut und Boden standigkeit; Niekisch infatti utilizza questa suddivisione solo per motivi dialettici che sono gli unici strumenti a sua disposizione per permettere la metamorfosi dell’ewiger Barbar nell’Arbeiter jungeriano, caricato così di tutta la tradizione prussiana, ma contemporaneamente incastrato dei “gorghi della moderna macchina capitalistica”. Secondo Niekisch è proprio Junger colui che si inserisce alla perfezione tra la linea Kierkegaard – Nietzsche – Spengler e quella dominata da Marx per dare una nuova Gestalt – forma - alla Germania. Dall’inferno e dal sudore della “Kapitalistische Maschinerie” si sviluppa quindi la ratio tecnica dell’Arbeiter:


“Questo campo operativo complessivo della razionalità tecnica ha un’ampiezza e perviene ad un’altitudine di tipo imperiale; esso raggiunge in ogni suo tratto il grado del campo operativo imperiale del romano eterno e dell’ebreo eterno. E’ il regno della terza figura imperiale. […] questa reca in sé l’immagine di un nuovo ordine. Sperimenta il cosmo come una macchina; il suo occhio è addestrato a vedere le cose solo in quanto parte di un apparato tecnologico, di una armatura tecnica.”

L’attenzione di Niekisch è tutta volta a inserire le categorie marxiane più evidenti – operaio, classe e coscienza – in un reticolo ideologico impostato alla grandezza imperiale dell’Arbeiter prussiano. In questo senso Niekisch rientra in pieno in quella scuola di pensiero politico che siamo soliti definire come Deutscher Sozialismus che da Lassalle e alcuni esponenti della socialdemocrazia arriva sino a Spengler, Sombart e a Moeller van den Bruck, condividendo con questi pensatori l’accento più marcato sull’aggettivo che sul sostantivo. Il socialismo tedesco diventa così un nuovo nazionalismo dalle tendenze geopolitiche russofile, tanto che l’Arbeiter di Niekisch, concepito come dritte imperiale figur, altro non fa che tessere le direttrici geopolitiche e geoeconomiche fondamentali su cui costruire una Germania Imperiale ed emblema di un nuovo mondo. Detto ciò si può chiaramente provare che il testo di Niekisch abbia tratto le conseguenze più squisitamente politiche dall’impianto metafisico di Junger. Infatti l’Arbeiter appare tanto come l’effetto devastante delle nuove dinamiche sociale, quanto come un fattore aristocraticamente estraneo a qualsiasi rapporto sociale, politico e culturale. L’Arbeiter di Niekisch declinato all’interno di un paradigma, questa volta effettivamente, Konservativ – revolutionar, non è solo titolare di una nuova forma filosofico – politica, ma anche di una nuova costituzione politico – filosofica che si identifica nello Stato tedesco:


“[...]gli unici possibili eredi della prussianità, gli operai, sono passati attraverso la scuola dell’anarchia, la distruzione degli antichi legami, ed è per questo che essi devono realizzare la propria aspirazione alla libertà in un nuovo tempo, in un nuovo spazio e tramite una nuova aristocrazia.”

Classe operaia come depositaria di una tradizione metafisica, lavoro come mezzo della creazione, nuova aristocrazia, mito della tecnica, sono tutte idee che, come abbiamo detto, sbadatamente vengono associate unicamente alla rivoluzione conservatrice.Tuttavia queste qualità, a cavallo tra socialismo e nazionalismo, a ben guardare, mostrano una matrice filosofica ben più interessante che trova la sua massima rappresentazione in Fichte. Riflettendo si nota infatti che la filosofia di Fichte rientra a pieno titolo in quella costellazione ideologica e politica che operò nel pensiero tedesco tra i Grunderjahre e l’avvento del nazismo. E’ proprio la filosofia di Fichte che garantisce una solida base teorica capace di legare nazionalismo e socialismo. Da un lato Fichte è il filosofo dell’idealismo tedesco e di un cogito che, contrariamente a quanto affermava Kant, era declinato in senso nazionale e determinato a partire da uno spirito comune, da una storia millenaria, da una lingua,. Dall’altra parte Fichte è anche il teorico del geschlossner Handelstaat, ovvero di una prima elaborazione di un socialismo di stato in cui non vi era differenza tra economia e stato, ma anzi entrambe le componenti lavoravano per il raggiungimento di un sistema autarchico. A questo duplice aspetto va aggiunto un terzo elemento di fondamentale importanza: il concetto di comunità. La storia della Gemeinschaft – comunità - è lunga e complessa, ma possiamo stabilire il suo punto di partenza a partire dalla forma filosofica assunta dal romanticismo politico. In virtù di una entità statale pressoché inesistente, una simbolica violentata e tramontata – Napoleone dichiarò sciolto il Sacro Romano Impero nel 1806 – e una culturale ancora tutta da costruire, la filosofia romantica tedesca decide di identificare lo Stato con l’idea, ambendo ad una comunità perfetta perché strutturata intorno all’idea politica dello Stato che non permette nessuna imperfezione fenomenica. I precipitati politici di queste convinzioni romantiche e idealiste portano all’elaborazione delle più curiose e inedite ideologie politiche. Da una parte si sviluppa la politica rivoluzionaria della Jugnes Deutuschland, dall’altra nasce la socialdemocrazia tedesca che ondeggia tra l’internazionale marxista e l’appoggio allo Stato guglielmino e bismarckiano. In questo quadro ci appare un’altra figura degna d’attenzione; quella di Ferdinand Lassalle, colui che riuscì a saldare organizzazione partitica della classe operaia, simbolismo della conquista jungeriana dello Stato e mitizzazione del lavoratore. E’ su queste basi che Lassalle si allontana sempre più dall’apparato marxiano. Lassalle condivideva infatti con Bismarck l’idea di uno stato – potenza, autoritario e autorevole che potesse divenire il trampolino di lancio di una nuova trasformazione sociale. In questo orizzonte politico Stato e comunità – Gemeinschaft – tendono a fondersi in virtù del fatto che l’articolazione statuale si intreccia con la lettura idealista del corpo sociale politicamente ed economicamente organizzato. Da questo incontro naturale tra Stato e comunità nasce un concetto fondante della storia tedesca più recente: sorge il popolo, si forma il Volk. L’idea di Stato che si sviluppa lungo l’asse portante Fichte – Lassalle – Niekisch porta alla nascita di una Volksgemeinschaft, una comunità nazionale che incarna quella grandezza di natura e spirito nella storia che è uno dei cardini della filosofia classica tedesca. La filosofia politica di Lassalle d’altro canto si rifaceva al bagaglio filosofico di Fichte e ancor di più a quello di Hegel. Altro aspetto importante della filosofia di Lassalle è quello che concerne il concetto di libertà. In un suo scritto del 1859 Lassalle scrive in modi entusiastici di quella che lui definisce: “ libertà comune originariamente germanica”. E’ a partire da questa idea di libertà che Lassalle sviluppa nei suoi testi più politici l’idea di uno Stato tedesco come unità morale e collettiva di tutti gli individui che altrimenti vivrebbero soli e scissi. Il richiamo alla volontà generale che Rousseau teorizza nel “Il contratto sociale” è lampante:


“Lo Stato è […] questa unità e collegamento ad un tutto etico – morale, che ha la funzione di condurre la lotta, una unificazione che moltiplica a milioni le forze di ogni singolo in essa comprese, che sviluppa a milioni le forze che sarebbero per essi solo come singolo a disposizione”

In questo senso la “libertà tedesca” diventa il vettore grazie a cui l’individuo si realizza all’interno di una realtà statuale predeterminata. Il singolo individuo ha valore sono ed unicamente all’interno della sua collettività. Questo ingranaggio dialettico di hegeliana memoria si associa, nella filosofia di Lassalle, all’aspirazione ad un forte processo di democratizzazione dall’alto, nella misura in cui non spetta né ai lavoratori né ai loro oppressori lo sviluppo della democrazia, ma unicamente ad un genere umano indefinito provvisto di volontà e azione. Si tratta, ancora una volta, dello Stato, unico sistema in grado di avere la prerogativa della libertà e di metterla al servizio dell’intero genere umano. Lo Stato di Lassalle sembra quindi avere due anime: una è quella dello stato sociale che sta andando edificandosi in Germania, volto all’abbassamento delle ore di lavoro, alla tutela sanitaria, all’attenzione pensionistica e culturale dei lavoratori, l’altra è quella di uno Stato – potenza aggressivo all’esterno e profondamente autoritario all’interno. E’ su queste basi che va via via delineandosi quell’incrocio tra comunismo e nazione, a cui corrisponde l’asse portante storico – culturale del Volk e della Gemeinschaft. Proprio Niekisch fa tesoro di questa lezione politica di Lassalle, dando alle stampe un piccolo pamphlet dal titolo “Der Weg der deutschen Arbeiterschaft zum Staat” in cui sostiene che le masse erano, nei primi anni della fondazione della SPD, principi statuali, nella misura in cui potevano influenzare la dirigenza stessa del partito. Ovviamente la lettura di Niekisch è volta a sottolineare gli elementi nazionalistici che rientravano nel suo sogno di un imperialismo proletario.

Il percorso filosofico tra le teorizzazioni del nazionalbolscevismo che abbiamo sino ad ora percorso, ha mosso i suoi primi passi dall’Arbeiter jungeriano e, per concludere, è bene chiudere il cerchio proprio con Junger. E’ bene notare infatti come l’opera di Junger si trovi a cavallo di questo percorso e se da un lato ha offerto spunti interessanti per un socialismo prussiano, dall’altra si distacca nella misura in cui Junger non proponeva una nuova forma politica costituente dell’identità tedesca, ma piuttosto la forma formarum di una costellazione politica tutta da scoprire, definire e plasmare. In altre parole, Junger non aveva alcun interesse per la nuova sovranità tedesca, come invece dimostrano, in forme differenti, Fichte, Lassalle e Niekisch; la sua attenzione è tutta concentrata sulla tecnica “in cui la forma dell’operaio mobilita in mondo”. La “mobilitazione totale” pensata da Junger è quindi ciò che avviene quando si sono sviluppate le caratteristiche soggettive di un nuovo genere umano – l’Arbeiter – e quando si sono schiuse le possibilità oggettive di trasformazione del mondo attraverso il lavoro. Lungi dal riferirsi ad una mobilitazione totale concreta e politica, Junger sogna una mobilitazione totale in cui il lavoro sia in grado di plasmare la democrazia liberale in un Arbeiterstaat tutto da scoprire. Eppur tuttavia c’è da dire che le forme del processo jungeriano sono rintracciabili unicamente nel socialismo e nel nazionalismo:


“In tale contesto il socialismo appare come la premessa di una struttura più aspramente autoritaria, e il nazionalismo come la premessa di compiti degni di un rango imperiale.”

Il testo di Junger si abbandona così ad un inevitabile ambiguità di fondo; da un lato la ricerca ostinata, cocciuta, inevitabile, dell’ex – tenente Junger di un rapporto stretto con il nuovo nazionalismo tedesco, dall’altra un superamento aristocratico e un distacco sempre più “anarca” dal nazionalismo tedesco e dall’hitlerismo. L’Arbeiter oscilla così tra la concretezza delle ideologie politiche a Junger contemporanee e la visione messianica di un nuovo spazio e di un nuovo tempo. Sia nel primo che nel secondo caso l’Arbeiter jungeriano ha indubbiamente incarnato gran parte della cultura filosofica tedesca, come ho cercato di dimostrare in questo articolo, e, dall’altra, ha inevitabilmente dato spunto al primo nazionalbolscevismo, al successivo nazionalcomunismo e all’ultimo socialismo prussiano. Comunque la si legga, a distanza di più di 80 anni, l’Arbeiter nazionalcomunista ci può ancora insegnare qualche cosa. L’Arbeiter, il signore della tecnica che fagocita la natura per realizzare la più grande distruzione su cui far sorgere una nuova forma, è realmente esistito. E’ esistito e ha preso vita proprio al termine della seconda guerra mondiale, ha preso forma nelle fabbriche del boom economico degli anni ’50, si è moltiplicato con l’informatizzazione dell’industria. Appare però molto lontana la compiuta figura del nichilismo attivo e della distruzione totale per una nuova Gestalt. L’operaio è diventato realmente il signore della tecnica e altrettanto concretamente ha fagocitato la natura, ma questo processo, ben lontano dai probabili gridi di giubilo di Junger, ha portato solo alla nascita della biopolitica di Foucault. Della politica che entra nel quotidiano, della politica che si fa synopticon, della politica che fagocita i sogni e i desideri, l’etica e la morale, della politica che ingurgita anche gli aspetti più profondi e belli di un individuo, di una collettività. La profezia di Junger si è avverata, ma la biopolitica del moderno capitalismo poco ha a che spartire con l’Arbeiterstaat, purtroppo, ma questa è un’altra storia.


“Come non rimpiangere dunque l’Italia che conoscemmo ragazzi, dove le apparenze parevano dotate del dono dell’eternità, si poteva appasionatamente credere nella rivolta o nella rivoluzione che tanto quella meravigliosa cosa che era la forma della vita non sarebbe mai cambiata, dove ci si poteva sentire eroi per il mutamento e per la novità, perché a dare coraggio e forza era la certezza che le città e gli uomini nel loro aspetto profondo e bello non sarebbero mai mutati”
L’Arbeiter nazionalbolscevico tra filosofia idealista e biopolitica | Centro Studi l'Arco e la Clava