Da Criccopoli ci salverà la crisi
di Michele Ainis
Martedí 18 Maggio 2010
C'è una differenza fra l'inchiesta milanese dei primi anni 90 e quella di Perugia? A prima vista sì: il pool di Mani pulite scoperchiò una corruzione di sistema, qui siamo alle prese viceversa con il malaffare d'una cricca. Meglio non fidarsi tuttavia delle apparenze, delle prime impressioni. Il costruttore Anemone potrebbe rivelarsi un pesce pilota, come fu a suo tempo Mario Chiesa; e allora Criccopoli si gonfierebbe quanto Tangentopoli. Dipenderà dai fatti che emergeranno dalle indagini, dipenderà dai giudici cui spetta denudare l'accaduto.
Ma c'è un fatto che è impossibile negare, qualunque sia la dimensione dell'inchiesta perugina: oggi come ieri, in Italia la corruzione è un vento che soffia giorno e notte. Altrimenti non si spiegherebbe perché mai tutti gli indicatori internazionali ci situino in zona retrocessione, nelle classifiche della legalità. Secondo Transparency International occupiamo il 63° posto, peggio di Malaysia e Namibia. Il Global Competitiveness Index ci colloca in terzultima posizione (su 117 paesi) circa l'acquiescenza del nostro sistema fiscale verso il privilegio, nonché al 91° posto (su 134 paesi) per l'inclinazione al favoritismo nelle decisioni di governo. Da parte sua, la Corte dei conti ha appena stimato in 60 miliardi di euro il giro d'affari che s'allarga al di fuori della legge, contro i suoi rigori.
Per quale ragione? Perché Tangentopoli è stata una rivoluzione finta, saremmo tentati di rispondere. Si è limitata a sostituire i primattori della politica italiana con le seconde file, gente senza la tragica grandezza di Andreotti e Craxi ma con una voracità accresciuta dal digiuno; non ha azzerato la dirigenza amministrativa, zoccolo duro dello stato. D'altronde la storia si ripete: anche nel dopoguerra l'epurazione si rivelò una farsa, avviata con gran chiasso e conclusa con la miseria di 403 sospesi o licenziati tra i funzionari appartenenti ai primi quattro gradi dell'amministrazione pubblica. Senza dire dei vertici giudiziari, nominati dal Regime e sopravvissuti in massa al suo crollo. Sarà per questo che il Gattopardo è il nostro autentico romanzo nazionale.
Eppure non è qui l'unico focolaio dal quale si propaga l'infezione. Se in Italia tutto cambia affinché nulla cambi, è perché c'è un clima, un ambiente legale e morale che alleva il malaffare. Sul versante normativo, troneggia un ordinamento stipato di regole che s'elidono a vicenda, e che in conclusione permettono a ciascuno di fare i propri comodi. Sono poi ipertrofici gli stessi guardiani delle regole, sicché ognuno pesta i piedi all'altro, con buona pace dell'efficacia dei controlli. Valga per tutti l'esempio di mamma tv, affidata alle cure di ben quattro soggetti: la commissione parlamentare di vigilanza, l'Authority per le telecomunicazioni, l'Antitrust, il ministero. E c'è infine l'onnipotenza della politica, da cui dipendono le leggi, ma dipende altresì l'amministrazione (attraverso lo spoils system), e dipende pure la nomina degli organi di garanzia (dai consiglieri di stato alle autorità indipendenti).
Ecco, è da questo strapotere dei partiti che ha origine il sentimento d'impunità tipico dei signori di partito. È dal mantello di un sistema che protegge le sue classi dirigenti, impedendone il ricambio. È dal buco nero d'una legge elettorale che lascia a mani nude i cittadini, tanto sono i partiti che decidono gli eletti. E allora la questione legale traligna in questione morale, o meglio culturale. Perché se non puoi rompere il sistema ti ci adatti, ti genufletti davanti ai suoi mandarini. Cerchi di propiziartene i favori, e d'altronde la cultura del favore è sempre stata florida alle nostre latitudini. Da qui la miscela che accende il fuoco della corruzione: l'impunità che avvertono i potenti, il servilismo che ha ormai fiaccato gli italiani.
C'è una responsabilità dei governi Berlusconi in questa malattia? Non più degli altri governi che si sono alternati in questi ultimi vent'anni. Su un punto, però, Berlusconi ha cambiato gli italiani. Lui, imprenditore di successo, ricco come re Mida, ha infranto il tabù del denaro che nella prima Repubblica univa democristiani e comunisti. I quattrini ormai si ostentano, possederne è la prima virtù del buon cittadino. E questo ci ha plasmato l'anima, un po' come Deng Xiaoping cambiò l'anima ai cinesi, coniando nel 1979 il suo slogan proverbiale: «Arricchitevi!». Ora, però, arrivano tempi di vacche magre, di risparmi forzosi. Sarà forse la crisi economica a guarirci dalla nostra crisi morale.