Per salvare la patria ci vuole un Principe che possa decidere

Compie 500 anni il capolavoro di Machiavelli che esalta il primato dell'azione su teoria, ideologia e moralismo


Il fine giustifica i mezzi millenni: a cinquecento anni dalla nascita de Il Principe di Niccolò Machiavelli sorgono convegni e celebrazioni, comitati e ristampe. Dall'Europa degli Stati moderni all'Italia risorgimentale, fascista e gramsciana, dagli Stati Uniti alla Cina di Mao, Il Principe di Machiavelli è il capolavoro riconosciuto alle origini della politica moderna e dei suoi studi.

Un'opera scientifica e letteraria che assegna a Machiavelli il ruolo che Colombo, Lutero e Galilei hanno avuto in altri ambiti. Molto citato, troppo frainteso, qual è la lezione che Machiavelli ci ha dato cinque secoli fa? Proviamo a dirlo in sintesi.
Innanzitutto il realismo, malamente tradotto in cinismo. «Se gli uomini fussero tutti buoni questi precetti non sariano buoni», avverte Messer Niccolò; per lui l'unico modo di andare in Paradiso è «imparare la via dell'inferno per sfuggirla». Occorre la forza per consolidare il consenso, non bastano i virtuosi sermoni, i profeti disarmati come Savonarola vanno in rovina. Realismo vuol dire anche duttilità: «le diverse operationi qualche volta equalmente giovino e equalmente nuochino»; ordini e tempi sono vari, può accadere pure che «dua diversamente operando abbino uno medesimo fine». Insomma, meglio seguire «la verità effettuale della cosa» che «l'immaginazione di essa». La realtà contro l'utopia.

In secondo luogo, l'essenza del politico è nel conflitto. Prima di Hobbes e secoli prima di Carl Schmitt, Machiavelli insegna che «lo stare neutrale» non è utile a nessuno, che i conflitti rinvigoriscono gli Stati, le milizie mantengono gli uomini fedeli, pacifici e timorati di Dio; ma pure i conflitti sociali sono fecondi. Prima di von Clausewitz, Machiavelli già ritiene che la guerra sia «la continuazione della politica con altri mezzi». L'arte della guerra è centrale nel suo pensiero: in lui si profila, rispetto ai soldati di ventura - i mercenari del suo tempo - la preferenza per una leva popolare che costituisca l'esercito degli Stati, spezzando così la diretta dipendenza dei soldati dalle ricchezze dei principi. È il passaggio alla guerra e allo Stato moderni. Ma Messer Niccolò ritiene che il conflitto giovi anche a livello sociale. In polemica con Guicciardini - che considera Niccolò stravagante «et inventore di cose nuove et insolite» - egli osserva che gli scontri nell'antica Roma tra plebe e Senato produssero i tribuni a guardia della libertà del popolo romano. Per lui i conflitti sociali esaltano le virtù repubblicane e giovano ai popoli al pari della concordia sui beni condivisi.

In terzo luogo, il decisionismo. Machiavelli ribadisce il primato dell'azione sulla teoria, sull'ideologia e sul moralismo. Affermando la decisione come norma sovrana dell'agire, Machiavelli ricorda in una lettera al Vettori: «è meglio fare e pentirsi che non fare e pentirsi». O come scrive nel Principe: «Meglio essere impetuoso che respettivo; perché la fortuna è donna, ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla». Dio lascia nelle nostre mani il libero arbitrio per non toglierci «parte di quella gloria che tocca a noi». «Credevano i nostri principi italiani - scrive nell'Arte della Guerra - che a uno principe bastasse sapere negli scrittoi, pensare una acuta risposta, scrivere una bella lettera, mostrare ne' detti e nelle parole arguzia e prontezza, sapere tessere una fraude... volere che le parole loro fussero responsi d'oracoli; né si accorgevano i meschini che si preparavano a essere preda di qualunque gli assaltava». Il sovrano deve usare l'arte suprema della decisione, da cui scaturisce l'autonomia della politica. La politica è un'arte e i principi come gli artisti devono sporcarsi le mani. Il governo è la sua opera d'arte.

A fare da contraltare al decisionismo c'è in Machiavelli - quinto punto - il rispetto dell'ordine naturale. Non si può deviare «da quello a che la natura lo inclina». Anzi, «gli uomini nacquero, vissero e morirono sempre nel medesimo ordine». Il naturalismo machiavellico non è sinonimo di immobilismo; la storia procede, l'agire è necessario, lo scontrarsi pure. Ma alcune costanti dell'agire umano si ripeteranno sempre, l'ordine naturale delle cose non sarà modificato, ogni progresso su un piano costerà qualche regresso su un altro. E l'uomo non nasce buono: Machiavelli è più vicino a Sant'Agostino che a Rousseau.
In sesto luogo, Machiavelli coglie l'importanza civile della religione per la coesione sociale e la salvezza della res publica. «Quelli principi o quelle repubbliche - nota nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio- le quali si vogliono mantenere incorrotte, hanno sopra ogni altra cosa a mantenere incorrotte le cerimonie della loro religione, e tenerle sempre nella loro venerazione; perché nessuno maggiore indizio si puote avere della rovina d'una provincia, che vedere dispregiato il culto divino». Il laico, pagano e anticlericale Machiavelli sostiene: «Dove è religione si presuppone ogni bene, così dove ella manca si presuppone il contrario». La politica attinge energie e coesione dalla tradizione.

Infine, il rinnovamento come ritorno alle origini. Una repubblica «è necessario ritirarla spesso verso il suo principio», in modo che i suoi cittadini riconoscano la fonte comune. La società di Machiavelli è un corpo organico, dunque una comunità e ogni rinnovamento «è una purgazione la quale è salute del corpo». I suoi esempi di renovatio sono proprio gli ordini religiosi, domenicani e francescani, che vogliono ricondurre la fede allo spirito delle origini. Da un verso Machiavelli sconsiglia dall'introdurre «nuovi ordini»; ma dall'altro attende «uno uomo che di nuovo surga» e «faccia le nuove legge e li nuovi ordini», avendo «una lunga esperienza delle cose moderne e una continua lezione delle antique». Ecco il Principe e le sue sette vite, secondo Messer Niccolò.
Cosa muove Machiavelli e anima il suo Principe? Di solito si risponde: la volontà di potenza. In realtà Machiavelli ha un ideale politico a cui sacrifica pure se stesso: «Amo la Patria mia più che l'anima mia». Di solito si riduce questa sua frase al crudo cinismo di chi vende l'anima al potere e alla passione politica; ma è una verità dimezzata. L'altra metà del vero è la subordinazione del mezzo, il potere, allo scopo, la Patria. E la disponibilità a giocarsi tutto, sacrificando anche il bene individuale, al bene comune e all'amor patrio, secondo la lezione delle «antique corti delli antiqui uomini». Dietro il principe c'è il patriota, e dietro di lui si cela l'umanista, innamorato dei classici coi loro fulgidi esempi. Nelle sue pagine si respira più grandezza che cinismo.
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