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    Tringeadeuroppa
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    Predefinito BREVE STORIA DELLE VARIE ANIME DELLA POLITICA ESTERA NORDAMERICANA

    LE OPZIONI STATUNITENSI:
    BREVE STORIA DELLE VARIE ANIME DELLA POLITICA ESTERA NORDAMERICANA
    DI STEFANO VERNOLE

    Se ormai sono abbastanza conosciute le strategie dell’attuale Amministrazione Bush - che rispecchiano le indicazioni della fondazione “Project for a New American Century” (il sito è www.newamericancentury.org) e sono volte all’instaurazione di una leadership planetaria americana - risulta utile tracciare un quadro storico degli orientamenti di politica estera del paese a stelle e strisce, tenendo presente che la piega negativa presa dagli avvenimenti in Iraq e Afghanistan potrebbe costringere le lobbies mondialiste a effettuare una virata a 360° in vista delle prossime elezioni presidenziali.
    Prima, però, ricordiamo gli assunti fondamentali della “Dottrina Bush”, presentata il primo giugno 2002 dallo stesso Presidente alla prestigiosa accademia nazionale di West Point (la lettura del testo originale è reperibile su www.whitehouse.gov/nsc/nss.pdf) :
    1) Lotta al terrorismo tramite il “liberismo armato” ed ’”esportazione della democrazia”;
    2) Assimilazione delle Nazioni Unite a sorta di ONG dedite agli aiuti umanitari;
    3) Possibilità di attacchi preventivi, anche da soli, contro i cd. Stati-canaglia;
    4) Imposizione a tutto il pianeta di un unico modello economico, senza prestare attenzione alle controindicazioni ecologiche o sociali;
    5) Mancato riconoscimento dei tribunali internazionali nel caso vogliano sottoporre a giudizio personale statunitense.
    Vediamo ora, invece, quali sono state in passato le tendenze geopolitiche degli Stati Uniti e da quali interessi sono state determinate.
    Tra la fine del XVII e la fine del XIX secolo la propria collocazione geografica e le scelte dei cd. “Padri fondatori” fanno propendere per una tendenza definibile come “isolazionista”, che inizia ad incrinarsi seriamente con la guerra per la conquista delle Filippine (1898).
    Accanto alla posizione geopolitica un’importanza fondamentale è rivestita dall’edificio istituzionale e dalla cultura politica che lo sorregge, in particolare l’enfasi tutta statunitense sul carattere individualistico-liberale del proprio paese e sul messianismo, cioè l’idea – di derivazione puritana - di un destino nazionale unico.
    Questa combinazione culturale dà luogo al “moralismo” – l’idea che le nazioni debbano ricercare

    nei rapporti tra loro le soluzioni più benefiche per gli individui – e al “legalismo” – teoria secondo la quale anche la politica internazionale deve essere ricondotta sotto il dominio della legge.
    Insieme ad esse, un importante policy-maker della politica estera statunitense – George Kennan – aggiunge il “realismo”, di derivazione hamiltoniana, basato sulla preminenza degli interessi nazionali.
    Lo stesso dualismo tra Presidente e Congresso è stato foriero nella storia americana di oscillazioni e cicli, dovuti sia alla complessità del sistema istituzionale sia al ruolo abnorme ricoperto nel mondo dopo il 1945 dalla superpotenza statunitense.
    In particolare l’ambiguità sull’uso dei cd. “poteri d’emergenza” è legata al dettato costituzionale che, pur affidandoli al Presidente, consente l’opposizione del Congresso con il metodo dell’empeachement.
    Agli albori della “guerra fredda” la contrapposizione più evidente è comunque quella tra nazionalisti e internazionalisti, espansionisti a livello territoriale e isolazionisti-protezionisti allo stesso tempo i primi, libero-scambisti e favorevoli a una sorta di condominio con l’Europa i secondi.
    La tendenza nazionalista ha tradizionalmente i suoi punti di forza nel Middle West e nel West, ed è espressione di un capitalismo nazionale nemico delle grandi corporations dell’East e di Wall Street (essa s’identifica in genere nella “destra repubblicana”); questa corrente vuole che gli Stati Uniti s’impegnino nel Pacifico e in Asia, puntando sulla marina militare e sulle armi nucleari, cerca (senza riuscirci) di assicurare il controllo di queste ultime alle Forze Armate anziché alla Presidenza.
    La tendenza internazionalista è espressione dell’establishment finanziario e industriale dell’East Coast, il legame con l’Europa occidentale è una sua priorità assoluta, è contraria alle avventure militari anche nel Pacifico e gode dell’appoggio del Dipartimento di Stato.
    La sua stessa propensione verso l’Unione Sovietica è pacifica, almeno fino a quando la “minaccia” di Mosca all’Europa la costringe a sposare la politica del “containement”.
    La terza tendenza (forse quella più conosciuta dai vari popoli della Terra) è invece quella “imperialista” ed è frutto di una visione politica che vuole proiettare nell’arena internazionale le idee del “New Deal” rooseveltiano: il suo frutto più evidente è rappresentato dalla costruzione delle Nazioni Unite (con buona pace dei pacifisti nostrani che le considerano il pilastro dell’ordine mondiale …).
    Tutta la storia della politica estera statunitense durante la “guerra fredda” è quella dei conflitti e dei compromessi fra le prime due tendenze e le mediazioni operate dalla Presidenza, che dopo il 1945 accresce il proprio peso politico e burocratico-organizzativo.
    Fino alla “guerra di Corea” (1950) – emblema dei propri interessi - i nazionalisti devono “subire” la “Dottrina Truman”, il “Piano Marshall”e il “Patto Atlantico”, anche se al conflitto nord-coreano gli internazionalisti danno un’interpretazione non nazionalista e cercano di presentarla come un aspetto della contesa con l’Unione Sovietica anziché con la Cina (mistificandone così il significato, data l’importanza che da sempre il “mercato dell’Oriente” riveste per gli Stati Uniti).
    La necessità del compromesso fra le correnti non viene meno nel corso degli anni Cinquanta; gli internazionalisti vincono più volte, sul terreno della sicurezza con il forte investimento nella NATO, rendendo definitiva la politica del “contenimento” nei confronti dell’Unione Sovietica e appoggiando la nascita della Comunità Economica Europea.
    Le guerre segrete condotte in Indocina sono invece un’importante affermazione dei nazionalisti, finchè la sconfitta del Vietnam non costringe l’establishment a un radicale cambio di tendenza, sancito dall’apertura statunitense alla Cina (viaggio di Nixon nel 1971).
    L’umiliazione vietnamita manda definitivamente in frantumi il consenso bipartitico e gli atteggiamenti dell’opinione pubblica sulle questioni internazionali rimangono fortemente divaricati fino alla conclusione della “guerra fredda”.
    Interessante è anche l’atteggiamento delle varie correnti riguardo le spese militari.
    Appena finita la Seconda Guerra Mondiale, l’opinione pubblica statunitense non è favorevole a una politica d’impegno e chiede spese militari limitate e contenute, sostenuta in questo suo orientamento dall’opzione nazionalista.
    Per tutto il 1947 e ancora nel 1948, i capi di Stato maggiore insistono sul fatto che le Forze Armate non sono in grado di sostenere gli impegni necessari alla contrapposizione con l’Unione Sovietica.
    Solo nel settembre 1950, a guerra di Corea ormai scoppiata, Truman dà la sua approvazione ufficiale a quel documento, il famoso NSC68, che permette un notevole incremento delle spese militari: dai circa 14 bilioni di dollari del 1950 ai 53 del 1951, fino ai 65 del 1952.
    Viene così confermata una regolarità tipica nel funzionamento delle cd. “democrazie liberali”, solo la guerra (“calda”) consente di avere sufficiente forza politica per ottenere una decisa riallocazione delle risorse in direzione delle spese militari.
    Se le armi convenzionali registrano una schiacciante superiorità sovietica, centrali divengono però quelle nucleari e la tesi – sostenuta sia dai militari che dall’opposizione democratica - di un’inesistente superiorità di Mosca in ambito missilistico, spinge nel 1957 l’Amministrazione Eisenhower a forti incrementi del bilancio militare.
    Anche l’Amministrazione Kennedy (1961 e 1962), sceglie la strada di una forte espansione del “warfare”, motivandola con la dottrina della “risposta flessibile” e della strategia “contro-forze di secondo colpo”.
    La prima obbliga a un massiccio investimento in forze convenzionali e armamento nucleare-tattico; la seconda vede il massimo sforzo sul versante delle armi nucleari strategiche; le crisi internazionali di quegli anni (Berlino 1961 e Cuba 1962) aiutano la Presidenza a piegare il Congresso.
    L’ingresso strisciante nella guerra del Vietnam fa ovviamente crescere ancora la spesa militare (15.000 soldati USA in Indocina), accentuata dall’escalation bellica di Johnson (500.000 soldati USA) e dalla costruzione dei sottomarini nucleari Polaris con missili a testata multipla MRV (1963-1964).
    I crescenti investimenti nell’apparato bellico vengono finanziati grazie al deficit di bilancio, ma le tendenze inflazionistiche e l’andamento negativo della guerra bruciano le possibilità di rielezione per i Democratici.
    L’Amministrazione seguente, identificata nel binomio Nixon-Kissinger, dopo aver deciso per la “vietnamizzazione” del conflitto (cioè graduale ritiro statunitense e appoggio alle milizie alleate sud-vietnamite), opera su due fronti: la continuazione nella corsa agli armamenti nucleari e la negoziazione con i sovietici (Salt 1) e i cinesi.
    Gli anni Settanta registrano poi i disastri del “Watergate”, la vergognosa resa di Hanoi, le oscillazioni di Carter conclusesi con le sconfitte in Nicaragua e in Iran, la crescita dell’Unione Sovietica.
    Con Reagan riparte negli anni Ottanta in grande stile la corsa agli armamenti (SdI), l’installazione dei missili Cruise e Pershing in Europa, le aggressioni in Libano, Grenada e Nicaragua, pagate con l’aumento vertiginoso del deficit di bilancio.
    Gorbaciov, l’”Irangate” e lo smantellamento del welfare state, segnano invece la fine della “guerra fredda”.
    Un ultimo sguardo merita infine il rapporto Presidenza-Congresso.
    Nella Costituzione statunitense nessuna norma prevede espressamente l’adozione di poteri d’emergenza, che però nella realtà sono spesso stati utilizzati.
    Se il Congresso ha formalmente il potere di dichiarare la guerra, il Presidente è invece il comandante delle Forze Armate e deve garantire la sicurezza della nazione; ciò ha lasciato nella Costituzione una sorta di zona d’ombra, all’interno della quale poteri presidenziali e congressuali spesso si sovrappongono.
    Se nel corso del primo Ottocento la Presidenza estende progressivamente il proprio controllo sulle informazioni in politica estera e sulla diplomazia, a partire dalla Guerra Civile Americana e in nome dell’emergenza Lincoln istituisce una vera e propria dittatura, rimasta in piedi almeno fino alle presidenze di Thedore Roosevelt e Woodrow Wilson.
    Se l’età isolazionista ridimensiona i poteri presidenziali, F.D. Roosevelt fa oscillare di nuovo il pendolo nella direzione contraria, finchè la Seconda Guerra Mondiale e il nuovo ruolo internazionale degli Stati Uniti non consentono un definitivo primato presidenziale sulla politica estera, anche grazie al potere decisionale nell’utilizzo delle armi nucleari.
    La Guerra di Corea è il primo conflitto di vaste proporzioni all’interno del quale il Presidente si sottrae, in nome dell’emergenza, al vaglio delle decisioni del Congresso.
    Truman introduce un sistema di sicurezza che sottrae al Parlamento statunitense e all’opinione pubblica l’accesso a qualsiasi informazione l’Amministrazione decida di schedare come top secret.
    La Guerra del Vietnam manda però in pezzi il consenso sulla politica estera e innesca una reazione contro i poteri presidenziali e la Ragion di Stato che raggiunge l’apice negli anni Settanta.
    Con il National Emergencies Act (1976) il Congresso decreta la cassazione di tutti i poteri accumulati dalla Presidenza, in virtù di precedenti dichiarazioni di emergenza nazionale.
    Con Reagan – in particolare per l’affaire Nicaragua – il conflitto intorno alla ragion di Stato torna ad esplodere(1).
    Anche questo sintetico quadro dovrebbe però essere sufficiente a capire quale svolta la politica nordamericana abbia intrapreso dopo l’11 settembre 2001, sia in politica interna (Patriot Act) sia in politica estera (“Guerra infinita”).
    Sicuramente le sorprese non sono finite e risulterà allora interessante capire quali spazi potrà trovare negli Stati Uniti una reazione all’unilateralismo imperialistico della Dottrina Bush, sia da parte delle componenti “realiste” del suo governo (Colin Powell, infatti, è il vero regista della propaganda sulle armi di distruzione di massa quale pretesto per l’invasione dell’Iraq - a Cheney e Bush nemmeno interessava questo espediente volto a suscitare un maggiore consenso internazionale alla seconda Guerra nel Golfo Persico - così come Condoleeca Rice siede oggi sul banco degli imputati per la mancata previsione riguardo gli attentati dell’11 settembre 2001), che da quelle “internazionaliste” o mondialiste che dir si voglia (basti pensare alla propaganda di George Soros contro la Guerra in Iraq e alle sue recenti dichiarazioni sulla necessità di una globalizzazione guidata e non selvaggia, un eco di queste posizioni sono peraltro giunte anche in Italia con il libro di Lucia Annunziata – Aspen Institute – “No” alla guerra).
    Senza dimenticare che una delle conseguenze maggiori scaturite dagli attentati contro le Twin Towers e il Pentagono è stata la ritrovata convergenza tra lobbies wasp e lobbies sioniste, il tutto a vantaggio dello Stato di Israele(2).
    Un’alleanza difficile ora da scalfire, sia per la vastità degli interessi rappresentati sia per la scia di sangue che sta disseminando in tutto il mondo e che renderà problematico un ritorno all’indietro.

    Note
    1) Sulle note riguardanti la politica estera statunitense in quest’articolo cfr.Angelo Panebianco,“Guerrieri democratici: le democrazie e la politica di potenza”, Il Mulino, Bologna 1997.
    2) Riguardo l’establishment nordamericano dopo l’11 settembre 2001 indispensabili:
    Maurizio Blondet, “Chi comanda in America” e “11 settembre: colpo di stato in USA”,
    Effedieffe, Milano 2002.

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    Predefinito Riferimento: BREVE STORIA DELLE VARIE ANIME DELLA POLITICA ESTERA NORDAMERICANA

    Molti dei thread rimasti indietro meriterebbero di essere continuamente aggiornati per le tematiche di cui si occupano. Se non è un problema inizierei io col postare altri articoli in tema.
    Questo è dal sito di Eurasia:

    Il Club Bilderberg. La storia segreta dei padroni del mondo
    :::: 7 Luglio 2009 :::: 11:18 T.U. :::: Segnalazione libraria :::: Arianna Editrice
    Il Club Bilderberg
    La storia segreta dei padroni del mondo

    Daniel Estulin

    Arianna Editrice
    Pagine 384, Prezzo € 18,50

    Dal 1954 e una sola volta all’anno, un gruppo ristretto di persone si ritrova per decidere segretamente il futuro politico ed economico dell’umanità. Nessun giornalista ha mai avuto accesso alle riunioni che fino a poco tempo fa si sono svolte presso l’Hotel Bilderberg, in una piccola cittadina olandese. Nessuna notizia è mai filtrata da quelle stanze, anche se – come dimostrano le pagine di questo libro – è durante questi incontri che vengono prese le decisioni più rilevanti per il futuro di tutti noi.
    Oggi arriva finalmente anche in Italia il libro che racconta la vera storia di uno dei più potenti e segreti organi decisionali del mondo: il Club Bilderberg.

    Risultato di un’indagine serrata durata oltre 15 anni, la rigorosa e documentata inchiesta di Daniel Estulin, tra storia e attualità, svela per la prima volta quello che non era mai stato detto prima, rendendo noti i giochi di potere che si svolgono a nostra insaputa e a scapito della legittima volontà e autodeterminazione dei Popoli.

    Dalla privacy armata che la protegge, la classe dirigente globale detta l'indirizzo su politica, economia e conseguenti implicazioni militari.

    L'inchiesta di Estulin dimostra come il Club Bilderberg sia stato coinvolto nelle decisioni internazionali più rilevanti della storia recente, dal Piano Marshall allo scandalo Watergate, fino ai recenti conflitti nel Medio Oriente. E' da questa élite che emergono le figure chiave dello scacchiere internazionale – presidenti statunitensi, direttori di agenzie come la CIA o l'FBI, i vertici dei maggiori gruppi finanziari, economici e dell'informazione – così come da questi incontri nascono le linee guida della globalizzazione.

    Pubblicato in Spagna nel 2005, aggiornato al 2009 in questa prima pubblicazione italiana, Il Club BIlderberg è già stato tradotto in 48 lingue, diffondendosi in 70 paesi.

    Daniel Estulin vive in Spagna ed è un prestigioso giornalista investigativo. Da quando ha realizzato ciò che nessun altro prima di lui si era mai spinto a fare, svelando i segreti del Club Bilderberg, è diventato una delle voci più rappresentative dell’informazione indipendente e anticonformista .

    INDICE
    PRIMA PARTE: IL “BILDERBERG GROUP”– I PADRONI DELL’UNIVERSO
    CAPITOLO 1: DISCESA MORTALE
    CAPITOLO 2: L’IMMORTALE, 1992 – L’HIGHLANDER (1992)
    CAPITOLO 3: LA FONDAZIONE DEL BILDERBERG
    CAPITOLO 4: I CONCUBINI DEL BILDERBERG
    CAPITOLO 5: GLI OBIETTIVI DEL BILDERBERG
    CAPITOLO 6: I PUPAZZI DEL BILDERBERG
    CAPITOLO 7: IL “CASO WATERGATE”
    CAPITOLO 8: IL BILDERBERG SMASCHERATO
    SECONDA PARTE: IL “COUNCIL ON FOREIGN RELATIONS”
    CAPITOLO 9: UN EPISODIO DEL 1999
    CAPITOLO 10: INCROCIO PARTNER
    CAPITOLO 11: GIORNALISTI CORTIGIANI?
    CAPITOLO 12: DISARMO FORZATO
    CAPITOLO 13: L’UFFICIO DI CONTROLLO DEL CFR
    CAPITOLO 14: IL CFR E LE OPERAZIONI PSICO-POLITICHE
    CAPITOLO 15: IL CFR E IL “PIANO MARSHALL”
    CAPITOLO 16: UN ESEMPIO CONCRETO
    TERZA PARTE: LA TRILATERAL COMMISSION
    CAPITOLO 17: IL CONFRONTO (2003)
    CAPITOLO 18: RITORNO AL FUTURO
    CAPITOLO 19: UNA SOFISTICATA SOVVERSIONE
    CAPITOLO 20: SCEGLIERE UN PRESIDENTE
    CAPITOLO 21: IL SISTEMA DEL MONOPOLIO
    CAPITOLO 22: I BENEFATTORI DEI BOLSCEVICHI
    CAPITOLO 23: TRADIMENTO PER IL PROFITTO
    CAPITOLO 24: SACRIFICARE UNA NAZIONE
    CAPITOLO 25: LA DETENZIONE (2004)
    APPENDICE: RESOCONTI DEL BILDERBERG
    DIETRO LE PORTE CHIUSE: DOCUMENTI E IMMAGINI
    LISTA CONFERENZE BILDERBERG DAL 1954
    LA “TRILATERAL COMMISSION” FEBBRAIO 2006
    CONFERENZA BILDERBERG 31 MAGGIO-3 GIUGNO 2007 ISTANBUL (TURCHIA) (TEMATICHE e LISTA DEI PARTECIPANTI)
    CONFERENZA BILDERBERG 14 - 17 MAGGIO 2009 Vouliagmeni (GRECIA)
    (TEMATICHE e LISTA DEI PARTECIPANTI)
    CONCLUSIONE DELL’AUTORE
    INDICE DEI NOMI


    ESTRATTO

    INTRODUZIONE

    Nel 1954, gli uomini più potenti del mondo si incontrarono per la prima volta, sotto gli auspici della corona olandese e della famiglia Rockefeller, nel lussuoso Hotel Bilderberg nella cittadina di Oosterbeek. Per un intero fine settimana discussero del futuro del mondo. Al termine, decisero di incontrarsi una volta all’anno per scambiarsi delle idee e analizzare gli affari internazionali. Si definirono “Gruppo Bilderberg”. Da allora, si sono riuniti annualmente in lussuosi hotel in varie parti del mondo per tentare di decidere il futuro dell’umanità. Tra i selezionati membri di questo club troviamo Bill Clinton, Paul Wolfowitz, Henry Kissinger, David Rockefeller, Zbigniew Brzezinski, Tony Blair e molti altri capi di governo, uomini d’affari, politici, banchieri e giornalisti di tutto il mondo.
    In oltre cinquanta anni di loro convegni, tuttavia, non è stato mai consentito alla stampa di assistere, non sono state rilasciate dichiarazioni sulle conclusioni dei partecipanti, né è stata resa pubblica un’agenda di un convegno Bilderberg. I leader del “Gruppo Bilderberg” sostengono che questa discrezione è necessaria per permettere a quanti partecipano ai dibattiti di parlare liberamente, senza che le proprie dichiarazioni siano registrate o riportate pubblicamente. Altrimenti, affermano i membri del Bilderberg, sarebbero costretti a parlare nel linguaggio di un comunicato stampa. Senza dubbio, questa discrezione consente al “Gruppo Bilderberg” di deliberare più liberamente, ma in questo modo non si risponde alla domanda fondamentale: di che cosa parlano, in questi convegni, le persone più potenti del mondo?
    Qualunque moderno sistema democratico protegge il diritto alla privacy, ma il pubblico non ha forse il diritto di sapere di che cosa parlano i loro leader politici quando incontrano i più ricchi leaders del mondo degli affari delle loro rispettive nazioni? Quali garanzie hanno i cittadini che il “Gruppo Bilderberg” non sia semplicemente un centro che influenza il commercio ed esercita pressioni, dal momento che ad essi non è permesso sapere di che cosa parlano i loro rappresentanti alle adunanze segrete del Gruppo? Perché i Davos World Economic Forums e gli incontri del G8 sono oggetto di discussione su tutti i giornali, con ampi servizi in prima pagina e la presenza di migliaia di giornalisti, mentre non c’è alcuna copertura mediatica per gli incontri del “Gruppo Bilderberg”? Questo blackout esiste nonostante il fatto che (o perché?) siano annualmente frequentati da presidenti del Fondo Monetario Internazionale , della Banca Mondiale e della Federal Riserve; da presidenti delle 100 più potenti corporations del mondo come “Daimler Chrysler”, “Coca Cola”, “British Petroleum” (BP), “Chase Manhattan Bank”, “American Express”, “Goldman Sachs” e “Microsoft”; da Vicepresidenti degli Stati Uniti, da direttori della CIA e dell’FBI, da Segretari Generali della NATO, da senatori americani e membri del Congresso, da Primi Ministri europei, da capi dei partiti di opposizione e dai maggiori editori e direttori dei principali giornali del mondo.
    È certamente curioso che nessuno dei più importanti mezzi di informazione ritenga che faccia notizia una riunione di tali personaggi, la cui ricchezza eccede di gran lunga il totale della ricchezza di tutti i cittadini degli Stati Uniti, quando un viaggio di uno di loro, da solo, conquista i titoli di testa in televisione. Questo è l’enigma su cui ho riflettuto. Quindici anni fa, esso mi ha spronato a compiere un viaggio investigativo, che è diventato l’opera della mia vita. Lentamente, ho dissolto, uno per uno, gli strati di segretezza che circondano il Gruppo Bilderberg, ma non avrei potuto farlo senza l’aiuto di “obiettori di coscienza” sia interni che esterni all’insieme dei membri del Gruppo. Ad essi, manifesto la mia più profonda gratitudine, perché la loro impagabile intelligenza ha reso possibile questo libro. È dunque comprensibile che, per proteggerli, io non citi questi veri eroi p er nome, ma li ringrazio per avermi aiutato a scoprire che cosa si diceva dietro le porte chiuse dei sontuosi hotel, in cui i soci del Bilderberg tengono i loro annuali incontri.
    Prima di entrare nel regno di questo club esclusivo, è importante riconoscere che né le persone né le organizzazioni sono assolutamente “cattive”, così come nessuno è assolutamente “buono”. Nel mondo ci sono potenti mossi da alti ideali, principi e convinzioni, e potenti come quelli del club segreto manipolatore e dei suoi derivati, che ho descritto in questo libro. Gli sforzi dei membri originari per migliorare il nostro mondo erano basati su un’autocrazia “father-knows-best”[1] analoga al modello paternalistico di cristianità tipico della Chiesa Cattolica Romana. Inizialmente, il loro intento era nobile.
    Purtroppo, sembra che il “Gruppo Bilderberg”, crescendo, sia andato oltre i propri idealistici propositi fino a diventare un governo ombra mondiale, che decide in totale segreto, in incontri annuali, come saranno realizzati i suoi piani. Minaccia di sottrarci i nostri diritti per dirigere i nostri destini. Ciò sta diventando più facile, perché lo sviluppo della tecnologia della telecomunicazione, assorbita con il profondo, istantaneo impatto di Internet, e i nuovi metodi di ingegneria comportamentale per manipolare la condotta individuale possono trasformare quelle che, in altre epoche storiche, erano soltanto cattive intenzioni in una scomoda realtà.
    Ogni nuova misura, presa isolatamente, può sembrare soltanto una superficiale aberrazione, ma il complesso dei cambiamenti, considerato nel suo insieme, come parte di uno sviluppo continuo, costituisce un movimento verso l’asservimento totale. Per questo è giunto il momento di guardare dietro le quinte. Siamo a un bivio e le strade che imboccheremo, da adesso in poi, determineranno il futuro stesso dell’umanità. Dobbiamo essere consapevoli dei veri obiettivi e delle azioni del “Gruppo Bilderberg” e di altri gruppi simili, se vogliamo sperare di conservare la libertà per la quale i nostri nonni combatterono nella seconda guerra mondiale.
    Non spetta a Dio farci uscire dalla “nuova età oscura” pianificata per noi. Spetta a noi! Se da questo secolo verremo fuori come stato di polizia elettronico globale o come esseri umani liberi, dipenderà dalle azioni che faremo ora. Se non conosciamo in profondità il contesto, non troveremo mai le risposte giuste.
    La vera storia del “Gruppo Bilderberg” cerca appunto di fornirle.

    NOTA
    [1] “Father Knows Best” era una sitcom molto popolare negli anni Cinquanta e Sessanta dello scorso secolo negli Stati Uniti, che metteva in scena le vicende della classe media americana imbevuta di conservatorismo, come si intuisce dal titolo del programma, che vuol dire, letteralmente, “Il padre sa che cosa è meglio” [N.d.T.].


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