LE OPZIONI STATUNITENSI:
BREVE STORIA DELLE VARIE ANIME DELLA POLITICA ESTERA NORDAMERICANA
DI STEFANO VERNOLE
Se ormai sono abbastanza conosciute le strategie dell’attuale Amministrazione Bush - che rispecchiano le indicazioni della fondazione “Project for a New American Century” (il sito è www.newamericancentury.org) e sono volte all’instaurazione di una leadership planetaria americana - risulta utile tracciare un quadro storico degli orientamenti di politica estera del paese a stelle e strisce, tenendo presente che la piega negativa presa dagli avvenimenti in Iraq e Afghanistan potrebbe costringere le lobbies mondialiste a effettuare una virata a 360° in vista delle prossime elezioni presidenziali.
Prima, però, ricordiamo gli assunti fondamentali della “Dottrina Bush”, presentata il primo giugno 2002 dallo stesso Presidente alla prestigiosa accademia nazionale di West Point (la lettura del testo originale è reperibile su www.whitehouse.gov/nsc/nss.pdf) :
1) Lotta al terrorismo tramite il “liberismo armato” ed ’”esportazione della democrazia”;
2) Assimilazione delle Nazioni Unite a sorta di ONG dedite agli aiuti umanitari;
3) Possibilità di attacchi preventivi, anche da soli, contro i cd. Stati-canaglia;
4) Imposizione a tutto il pianeta di un unico modello economico, senza prestare attenzione alle controindicazioni ecologiche o sociali;
5) Mancato riconoscimento dei tribunali internazionali nel caso vogliano sottoporre a giudizio personale statunitense.
Vediamo ora, invece, quali sono state in passato le tendenze geopolitiche degli Stati Uniti e da quali interessi sono state determinate.
Tra la fine del XVII e la fine del XIX secolo la propria collocazione geografica e le scelte dei cd. “Padri fondatori” fanno propendere per una tendenza definibile come “isolazionista”, che inizia ad incrinarsi seriamente con la guerra per la conquista delle Filippine (1898).
Accanto alla posizione geopolitica un’importanza fondamentale è rivestita dall’edificio istituzionale e dalla cultura politica che lo sorregge, in particolare l’enfasi tutta statunitense sul carattere individualistico-liberale del proprio paese e sul messianismo, cioè l’idea – di derivazione puritana - di un destino nazionale unico.
Questa combinazione culturale dà luogo al “moralismo” – l’idea che le nazioni debbano ricercare
nei rapporti tra loro le soluzioni più benefiche per gli individui – e al “legalismo” – teoria secondo la quale anche la politica internazionale deve essere ricondotta sotto il dominio della legge.
Insieme ad esse, un importante policy-maker della politica estera statunitense – George Kennan – aggiunge il “realismo”, di derivazione hamiltoniana, basato sulla preminenza degli interessi nazionali.
Lo stesso dualismo tra Presidente e Congresso è stato foriero nella storia americana di oscillazioni e cicli, dovuti sia alla complessità del sistema istituzionale sia al ruolo abnorme ricoperto nel mondo dopo il 1945 dalla superpotenza statunitense.
In particolare l’ambiguità sull’uso dei cd. “poteri d’emergenza” è legata al dettato costituzionale che, pur affidandoli al Presidente, consente l’opposizione del Congresso con il metodo dell’empeachement.
Agli albori della “guerra fredda” la contrapposizione più evidente è comunque quella tra nazionalisti e internazionalisti, espansionisti a livello territoriale e isolazionisti-protezionisti allo stesso tempo i primi, libero-scambisti e favorevoli a una sorta di condominio con l’Europa i secondi.
La tendenza nazionalista ha tradizionalmente i suoi punti di forza nel Middle West e nel West, ed è espressione di un capitalismo nazionale nemico delle grandi corporations dell’East e di Wall Street (essa s’identifica in genere nella “destra repubblicana”); questa corrente vuole che gli Stati Uniti s’impegnino nel Pacifico e in Asia, puntando sulla marina militare e sulle armi nucleari, cerca (senza riuscirci) di assicurare il controllo di queste ultime alle Forze Armate anziché alla Presidenza.
La tendenza internazionalista è espressione dell’establishment finanziario e industriale dell’East Coast, il legame con l’Europa occidentale è una sua priorità assoluta, è contraria alle avventure militari anche nel Pacifico e gode dell’appoggio del Dipartimento di Stato.
La sua stessa propensione verso l’Unione Sovietica è pacifica, almeno fino a quando la “minaccia” di Mosca all’Europa la costringe a sposare la politica del “containement”.
La terza tendenza (forse quella più conosciuta dai vari popoli della Terra) è invece quella “imperialista” ed è frutto di una visione politica che vuole proiettare nell’arena internazionale le idee del “New Deal” rooseveltiano: il suo frutto più evidente è rappresentato dalla costruzione delle Nazioni Unite (con buona pace dei pacifisti nostrani che le considerano il pilastro dell’ordine mondiale …).
Tutta la storia della politica estera statunitense durante la “guerra fredda” è quella dei conflitti e dei compromessi fra le prime due tendenze e le mediazioni operate dalla Presidenza, che dopo il 1945 accresce il proprio peso politico e burocratico-organizzativo.
Fino alla “guerra di Corea” (1950) – emblema dei propri interessi - i nazionalisti devono “subire” la “Dottrina Truman”, il “Piano Marshall”e il “Patto Atlantico”, anche se al conflitto nord-coreano gli internazionalisti danno un’interpretazione non nazionalista e cercano di presentarla come un aspetto della contesa con l’Unione Sovietica anziché con la Cina (mistificandone così il significato, data l’importanza che da sempre il “mercato dell’Oriente” riveste per gli Stati Uniti).
La necessità del compromesso fra le correnti non viene meno nel corso degli anni Cinquanta; gli internazionalisti vincono più volte, sul terreno della sicurezza con il forte investimento nella NATO, rendendo definitiva la politica del “contenimento” nei confronti dell’Unione Sovietica e appoggiando la nascita della Comunità Economica Europea.
Le guerre segrete condotte in Indocina sono invece un’importante affermazione dei nazionalisti, finchè la sconfitta del Vietnam non costringe l’establishment a un radicale cambio di tendenza, sancito dall’apertura statunitense alla Cina (viaggio di Nixon nel 1971).
L’umiliazione vietnamita manda definitivamente in frantumi il consenso bipartitico e gli atteggiamenti dell’opinione pubblica sulle questioni internazionali rimangono fortemente divaricati fino alla conclusione della “guerra fredda”.
Interessante è anche l’atteggiamento delle varie correnti riguardo le spese militari.
Appena finita la Seconda Guerra Mondiale, l’opinione pubblica statunitense non è favorevole a una politica d’impegno e chiede spese militari limitate e contenute, sostenuta in questo suo orientamento dall’opzione nazionalista.
Per tutto il 1947 e ancora nel 1948, i capi di Stato maggiore insistono sul fatto che le Forze Armate non sono in grado di sostenere gli impegni necessari alla contrapposizione con l’Unione Sovietica.
Solo nel settembre 1950, a guerra di Corea ormai scoppiata, Truman dà la sua approvazione ufficiale a quel documento, il famoso NSC68, che permette un notevole incremento delle spese militari: dai circa 14 bilioni di dollari del 1950 ai 53 del 1951, fino ai 65 del 1952.
Viene così confermata una regolarità tipica nel funzionamento delle cd. “democrazie liberali”, solo la guerra (“calda”) consente di avere sufficiente forza politica per ottenere una decisa riallocazione delle risorse in direzione delle spese militari.
Se le armi convenzionali registrano una schiacciante superiorità sovietica, centrali divengono però quelle nucleari e la tesi – sostenuta sia dai militari che dall’opposizione democratica - di un’inesistente superiorità di Mosca in ambito missilistico, spinge nel 1957 l’Amministrazione Eisenhower a forti incrementi del bilancio militare.
Anche l’Amministrazione Kennedy (1961 e 1962), sceglie la strada di una forte espansione del “warfare”, motivandola con la dottrina della “risposta flessibile” e della strategia “contro-forze di secondo colpo”.
La prima obbliga a un massiccio investimento in forze convenzionali e armamento nucleare-tattico; la seconda vede il massimo sforzo sul versante delle armi nucleari strategiche; le crisi internazionali di quegli anni (Berlino 1961 e Cuba 1962) aiutano la Presidenza a piegare il Congresso.
L’ingresso strisciante nella guerra del Vietnam fa ovviamente crescere ancora la spesa militare (15.000 soldati USA in Indocina), accentuata dall’escalation bellica di Johnson (500.000 soldati USA) e dalla costruzione dei sottomarini nucleari Polaris con missili a testata multipla MRV (1963-1964).
I crescenti investimenti nell’apparato bellico vengono finanziati grazie al deficit di bilancio, ma le tendenze inflazionistiche e l’andamento negativo della guerra bruciano le possibilità di rielezione per i Democratici.
L’Amministrazione seguente, identificata nel binomio Nixon-Kissinger, dopo aver deciso per la “vietnamizzazione” del conflitto (cioè graduale ritiro statunitense e appoggio alle milizie alleate sud-vietnamite), opera su due fronti: la continuazione nella corsa agli armamenti nucleari e la negoziazione con i sovietici (Salt 1) e i cinesi.
Gli anni Settanta registrano poi i disastri del “Watergate”, la vergognosa resa di Hanoi, le oscillazioni di Carter conclusesi con le sconfitte in Nicaragua e in Iran, la crescita dell’Unione Sovietica.
Con Reagan riparte negli anni Ottanta in grande stile la corsa agli armamenti (SdI), l’installazione dei missili Cruise e Pershing in Europa, le aggressioni in Libano, Grenada e Nicaragua, pagate con l’aumento vertiginoso del deficit di bilancio.
Gorbaciov, l’”Irangate” e lo smantellamento del welfare state, segnano invece la fine della “guerra fredda”.
Un ultimo sguardo merita infine il rapporto Presidenza-Congresso.
Nella Costituzione statunitense nessuna norma prevede espressamente l’adozione di poteri d’emergenza, che però nella realtà sono spesso stati utilizzati.
Se il Congresso ha formalmente il potere di dichiarare la guerra, il Presidente è invece il comandante delle Forze Armate e deve garantire la sicurezza della nazione; ciò ha lasciato nella Costituzione una sorta di zona d’ombra, all’interno della quale poteri presidenziali e congressuali spesso si sovrappongono.
Se nel corso del primo Ottocento la Presidenza estende progressivamente il proprio controllo sulle informazioni in politica estera e sulla diplomazia, a partire dalla Guerra Civile Americana e in nome dell’emergenza Lincoln istituisce una vera e propria dittatura, rimasta in piedi almeno fino alle presidenze di Thedore Roosevelt e Woodrow Wilson.
Se l’età isolazionista ridimensiona i poteri presidenziali, F.D. Roosevelt fa oscillare di nuovo il pendolo nella direzione contraria, finchè la Seconda Guerra Mondiale e il nuovo ruolo internazionale degli Stati Uniti non consentono un definitivo primato presidenziale sulla politica estera, anche grazie al potere decisionale nell’utilizzo delle armi nucleari.
La Guerra di Corea è il primo conflitto di vaste proporzioni all’interno del quale il Presidente si sottrae, in nome dell’emergenza, al vaglio delle decisioni del Congresso.
Truman introduce un sistema di sicurezza che sottrae al Parlamento statunitense e all’opinione pubblica l’accesso a qualsiasi informazione l’Amministrazione decida di schedare come top secret.
La Guerra del Vietnam manda però in pezzi il consenso sulla politica estera e innesca una reazione contro i poteri presidenziali e la Ragion di Stato che raggiunge l’apice negli anni Settanta.
Con il National Emergencies Act (1976) il Congresso decreta la cassazione di tutti i poteri accumulati dalla Presidenza, in virtù di precedenti dichiarazioni di emergenza nazionale.
Con Reagan – in particolare per l’affaire Nicaragua – il conflitto intorno alla ragion di Stato torna ad esplodere(1).
Anche questo sintetico quadro dovrebbe però essere sufficiente a capire quale svolta la politica nordamericana abbia intrapreso dopo l’11 settembre 2001, sia in politica interna (Patriot Act) sia in politica estera (“Guerra infinita”).
Sicuramente le sorprese non sono finite e risulterà allora interessante capire quali spazi potrà trovare negli Stati Uniti una reazione all’unilateralismo imperialistico della Dottrina Bush, sia da parte delle componenti “realiste” del suo governo (Colin Powell, infatti, è il vero regista della propaganda sulle armi di distruzione di massa quale pretesto per l’invasione dell’Iraq - a Cheney e Bush nemmeno interessava questo espediente volto a suscitare un maggiore consenso internazionale alla seconda Guerra nel Golfo Persico - così come Condoleeca Rice siede oggi sul banco degli imputati per la mancata previsione riguardo gli attentati dell’11 settembre 2001), che da quelle “internazionaliste” o mondialiste che dir si voglia (basti pensare alla propaganda di George Soros contro la Guerra in Iraq e alle sue recenti dichiarazioni sulla necessità di una globalizzazione guidata e non selvaggia, un eco di queste posizioni sono peraltro giunte anche in Italia con il libro di Lucia Annunziata – Aspen Institute – “No” alla guerra).
Senza dimenticare che una delle conseguenze maggiori scaturite dagli attentati contro le Twin Towers e il Pentagono è stata la ritrovata convergenza tra lobbies wasp e lobbies sioniste, il tutto a vantaggio dello Stato di Israele(2).
Un’alleanza difficile ora da scalfire, sia per la vastità degli interessi rappresentati sia per la scia di sangue che sta disseminando in tutto il mondo e che renderà problematico un ritorno all’indietro.
Note
1) Sulle note riguardanti la politica estera statunitense in quest’articolo cfr.Angelo Panebianco,“Guerrieri democratici: le democrazie e la politica di potenza”, Il Mulino, Bologna 1997.
2) Riguardo l’establishment nordamericano dopo l’11 settembre 2001 indispensabili:
Maurizio Blondet, “Chi comanda in America” e “11 settembre: colpo di stato in USA”,
Effedieffe, Milano 2002.