Così si taglia la spesa pubblica. Guida per chiunque governi
Qualsiasi maggioranza esca da questo bizzarro turno elettorale, snellire lo Stato è una priorità. Report di prestigio
di Istituto Bruno Leoni
Di seguito pubblichiamo un estratto del Manuale per le riforme per la XVII legislatura, realizzato dall’Istituto Bruno Leoni. Il Manuale è una ricognizione sugli eterni snodi irrisolti del sistema italiano e un’agenda delle priorità irrinunciabili per innescare la ripresa economica. Un lavoro di ricerca che sfocia in una serie di proposte concrete, focalizzate principalmente su tre aree: la finanza pubblica da rianimare, la pubblica amministrazione da ottimizzare, e le liberalizzazioni, tanto sbandierate a sinistra come a destra, e mai eseguite. Chiunque avrà responsabilità di governo, qualunque maggioranza esca dall’attuale quadro intricato dei rapporti parlamentari, questo Manuale dovrebbe fungere da guida orientativa, bussola per trarci fuori dalla secche della recessione. Un vademecum indispensabile, soprattutto per chi difenda una visione liberale del sistema-Paese ed abbia a cuore gli interessi del Nord: qui lo potete leggere nella sua interezza. L’estratto è preso dal capitolo del Manuale sulla spesa pubblica, a firma di Pietro Monsurrò
Il problema
- La spesa pubblica italiana è molto alta, e ciò è la causa dell’enorme pressione fiscale. Poiché la spesa è sistematicamente superiore alle entrate fiscali, si è prodotto negli anni un elevatissimo debito pubblico.
- La spesa è concentrata soprattutto sulle pensioni e gli interessi sul debito, ma è elevata anche in molti altri ambiti. Per esempio, rispetto alla Germania, l’Italia spende di più (in proporzione al Pil) nelle seguenti voci: difesa, ordine pubblico, organi legislativi, esecutivi e diplomatici, scuola primaria, scuola secondaria, e sovvenzioni a settori economici quali i trasporti.
- Complessivamente, le spese fuori linea rispetto alla Germania superano l’11% del PIL.
- La spesa pubblica è al contrario bassa, relativamente alla Germania, soltanto in una manciata di settori: l’assistenza ai disoccupati e alle famiglie, e la spesa universitaria.
L’Italia è caratterizzata da un’elevata spesa pubblica, essendo il primo paese in Europa per spesa pensionistica, e uno dei primi per spesa in interessi sul debito e per i costi della politica (organi legislativi, esecutivi e diplomatici). L’Italia spende inoltre relativamente più della Germania per la difesa, l’ordine pubblico, l’istruzione primaria e secondaria, le sovvenzioni alle imprese.
Il risultato è un’elevata pressione fiscale, che disincentiva la produzione e diminuisce la competitività dell’economia. Inoltre la spesa pubblica in deficit ha portato al formarsi del terzo debito pubblico maggiore del mondo, con la conseguente instabilità finanziaria che caratterizza l’economia italiana, nonché l’elevata spesa per interessi.
La soluzione
- Ridurre la spesa consentirebbe di ridurre la pressione fiscale, aumentando la competitività dell’economia, e ridurre il debito, aumentandone la stabilità nel lungo termine. Entrambe le misure sono fondamentali per la crescita;
- Si ritiene che si possa ridurre la spesa di oltre sei punti di PIL in cinque anni, anche in assenza di crescita reale;
- In particolare, occorre intervenire su tutte le voci di spesa nelle quali l’Italia spenda, in proporzione al Pil, più dei paesi comparabili. Tale intervento non deve consistere solo in un taglio dei finanziamenti, ma deve prevedere anche una forte riorganizzazione dei servizi pubblici, allo scopo di introdurre adeguati incentivi all’efficienza: per esempio con la digitalizzazione della Pubblica Amministrazione oppure con riforme della giustizia, della sanità e del sistema educativo;
- Per ridurre la spesa per interessi è inoltre necessario abbattere il debito pubblico con una seria politica di privatizzazioni
La spesa per il personale pubblico può diminuire, per riduzione non degli stipendi nominali ma dei contributi a carico del datore di lavoro (di cui si propone la riduzione nell’ambito della riforma fiscale). Ciò può essere ottenuto:
- Riducendo il tasso di crescita dei salari nominali, che negli ultimi dieci anni sono cresciuti nel pubblico molto più che nel privato.
- Riducendo il numero di dipendenti pubblici nei settori che appaiono sovradimensionati: l’amministrazione, la difesa, l’ordine pubblico, la scuola primaria e secondaria.
- Riducendo il numero di uffici e gli incarichi dirigenziali.
- Rivedendo al ribasso gli stipendi d’oro degli incarichi politici e della P.A.
Gli altri consumi finali, essenzialmente consumi intermedi e acquisti sul mercato, sono cresciuti a un tasso doppio rispetto al PIL negli ultimi dieci anni. I dati sono troppo aggregati per una scomposizione significativa, ma inefficienze, sprechi e rendite di posizione tendono a essere frequenti. Sono in questa categoria le spese per le consulenze esterne, per esempio, che pure vanno affrontate con estrema attenzione e senza populismi.
La spesa pensionistica può essere previdenziale o assistenziale (pensioni sociali, invalidi e superstiti). La seconda non viene toccata, come anche le altre spese sociali, che anzi sono rivalutate a un tasso pari alla crescita nominale. La prima invece viene ridotta.
È possibile ridurre la spesa previdenziale riducendo il tasso di rivalutazione con l’inflazione, oppure ricalcolando le pensioni erogate, soprattutto quelle di importo maggiore (solo gli assegni sopra i 3.000 € mensili costano circa due punti di PIL), quando sono stati calcolati col metodo retributivo o con legislazioni di favore (per esempio i vitalizi dei parlamentari).
La spesa per interessi si può ridurre riducendo il costo del debito oppure il rapporto debito/PIL. La prima non è un’opzione di policy, anche se una politica fiscale credibile aiuterebbe ad abbassare i tassi di interesse pagati sul debito. Per ridurre il rapporto debito/PIL occorre sia ridurre il deficit sia vendere patrimonio, immobiliare e mobiliare.
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