La Russia: geopolitica dell’energia | fr
Traduzione di Silvia Dotti

16 aprile 2007, di Jean-Marie Chauvier
Nel 2004-2006, durante il secondo mandato presidenziale di Vladimir Putin, la Federazione Russa ha intrapreso un percorso strategico volto a renderla una vera e propria « potenza energetica » sulla scena internazionale. La Russia possiede le prime riserve mondiali di gas e le settime riserve accertate di petrolio. La sua produzione di petrolio è diminuita all’incirca del 50% tra il 1988 e il 1998, ma la situazione è successivamente migliorata, parallelamente al miglioramento dell’intera economia – stimolata dall’aumento del costo del greggio, di cui la Russia è diventata il secondo esportatore mondiale dopo l’Arabia Saudita.

Lo Stato russo ha riacquistato il controllo del settore petrolifero, gestito quasi interamente da gruppi privati nel decennio precedente, e, allo stesso tempo, ha sottratto agli oligarchi l’egemonia politica e mediatica che detenevano dal 1995, dall’epoca dalle privatizzazioni.

Con la disgregazione del sistema sovietico, la rendita legata al petrolio e al gas divenne la principale fonte di ricchezza e potere in Russia. I nuovi gruppi privati se ne appropriarono, a mano a mano che lo Stato, conformemente al dogma (neo)liberale, si ritirava dalla sfera economica e sociale. Inoltre, la dislocazione dell’URSS consentì ai nuovi Stati, ai gruppi privati e alle potenze straniere interessate di « spartirsi » le sue ricchezze naturali - soprattutto gli idrocarburi della Siberia e del Caspio - e le sue infrastrutture. In questa « spartizione », la Russia era la più favorita, perché la maggior parte del potenziale si trovava sul suo territorio. Questa opportunità storica si presentò congiuntamente alla crisi energetica degli Stati Uniti e all’emergere delle loro ambizioni d’egemonia planetaria, spingendoli a varare una nuova politica energetica, in cui l’ex spazio sovietico – il contenente eurasiatico – tendeva a diventare una zona d’interesse vitale.

Nel bacino del Caspio (BTC, Turkmenistan), furono progettati e realizzati nuovi « corridoi energetici », sottratti all’influenza russa; gruppi russi (Youkos, Sibneft) e americani (Exxon-Mobil) elaborarono strategie, talvolta convergenti, che sfuggivano al controllo del Cremlino. Parallelamente, alla NATO fu assegnato, in vista del suo allargamento ad est, un ruolo nuovo: assicurare la sicurezza energetica dell’Occidente e l’espansione della democrazia del libero mercato. Di fronte ad una situazione che Mosca reputava pericolosa per l’indipendenza della Russia, il presidente Putin adottò inizialmente – durante il suo primo mandato, dal 2000 al 2004 – una politica pragmatica, fortemente influenzata dai « liberali pro-occidentali » del suo entourage. Di conseguenza, si intensificarono le tensioni con gli oligarchi, sottoposti, a causa delle loro oscure acquisizioni e dei loro « crimini » (frode fiscale, dirottamento di fondi, riciclaggio, evasione massiccia di capitali verso paradisi offshore) alla condanna pubblica e alle ritorsioni giudiziarie. Nel corso del suo secondo mandato (2004-2008), il presidente Putin s’impegnò fermamente a riprendere il controllo, senza esitazione e senza riserve, di una situazione giudicata più che allarmante.

La partecipazione dello Stato alla produzione di petrolio, passata dal 100% dei tempi dell’URSS al 14,83% nel 2000, era scesa, nel 2004, al 7,32%. Nell’affare Youkos, i 25 miliardi di dollari che Exxon-Mobil avrebbe potuto investire nella partecipazione al nuovo gruppo, nato dalla fusione tra Youkos e Sibnet, rischiavano, senza la « supervisione » del Cremlino, di assegnare alla potenza statunitense il controllo del petrolio siberiano, rischiavano cioè di servire le ambizioni politiche d’opposizione del padrone di Youkos. Lo smantellamento di questo gruppo aprì la strada alla ricostituzione di un settore petrolifero di Stato – principalmente attorno a Rosneft e Gazprom -, che deteneva il 28,3% della produzione nel 2005 e, verosimilmente, il 40% nel 2007. Allo stesso tempo, lo Stato, detentore del 38% di Gazprom (monopolio del gas), aumentò le sue quote al 51%. In tal modo, la Russia si conformò agli altri Paesi produttori di petrolio, in cui le compagnie nazionali sono ampiamente dominanti sul piano della produzione.

Questa nuova politica volontaristica ha permesso al Cremlino non soltanto di collocare a capo dei gruppi pubblici uomini di fiducia del presidente, ma anche di sviluppare una politica estera offensiva: ampliamento delle reti di oleodotti e gasdotti in risposta ai progetti americani; battaglia per il controllo delle vie di trasporto attraverso l’Ucraina e la Bielorussia; « fine dei regali » alle ex repubbliche sovietiche e adeguamento delle forniture di gas ai prezzi mondiali - un cambiamento certamente « conforme alle regole del mercato », ma generatore di forti tensioni con gli Stati post-sovietici, molti dei quali hanno formato, incoraggiati dagli Stati Uniti, un « cordone sanitario democratico » attorno alla Russia. Infatti, agli occhi degli Europei – allarmati dal « ricatto energetico » dei Russi -, la Russia era tornata ad essere « minacciosa »; visto da Mosca, invece, questo timore era infondato e la campagna « russofobica » degli Stati Uniti (che la ispiravano) e di numerosi media occidentali si qualificava come « nuova guerra fredda ».

Nell’esercizio della propria « potenza energetica », la Russia, favorita dall’aumento dei prezzi al barile, si trova – come i paesi consumatori, prevalentemente europei – in una situazione d’interdipendenza. Da un lato, il 78% del petrolio e il 65% del gas esportati dalla Russia sono assorbiti dall’Unione Europea ; dall’altro lato, l’Unione Europea « dipende » dalla Russia per il 25% del proprio approvvigionamento di gas. Si tratta, quindi, di una « dipendenza » reciproca e i Russi auspicano, da parte loro, un « partenariato strategico » di lungo periodo con l’Europa. Di fronte alle reticenze di alcuni Europei, la Russia tende però a diversificare la propria clientela, rivolgendosi alla Cina, all’India e, in generale, all’Oriente. Inoltre, Gazprom rivendica la possibilità d’investire in settori diversi da quello della produzione (raffinamento, trasformazione, distribuzione) nei Paesi consumatori.

L’obsolescenza delle infrastrutture nell’ex URSS (in cui, dagli anni Ottanta, non sono più stati effettuati investimenti di rilievo) richiede, però, l’intervento di capitali stranieri, cui sono stati « aperti » i settori strategici - incluso Gazprom. Lo Stato russo, desideroso di controllare questi processi, rifiuta di consentire alle imprese transnazionali l’accesso alle sue reti di trasporto e preferisce la formula delle « joint ventures » (che implica la condivisione dei rischi) agli accordi per la spartizione della produzione, caldeggiati invece dagli investitori occidentali.

Il ritorno dello Stato nella produzione riguarda – senza dimenticare il monopolio dell’elettricità – anche altri settori, oltre a quello dell’energia: metallurgia, nucleare, aerospaziale. Non si tratta, però, di una restaurazione « neo-sovietica » dello Stato come proprietario ed amministratore dell’economia, ma della costituzione di grandi gruppi industriali con capitali pubblici e privati, stranieri e russi, posti sotto la stretta sorveglianza del Cremlino. Si pensi, ad esempio, alla Corea del Sud, dove i « chaebols » hanno diretto il decollo industriale attraverso un regime autoritario. D’altra parte, questo non impedisce alle privatizzazioni di proseguire (terra, telecomunicazioni, banche, edilizia, settore automobilistico, ecc.), mentre viene gradualmente attuata la « liberalizzazione totale dei prezzi » dell’energia.

Dal 2006, lo Stato russo persegue sistematicamente una politica industriale d’iniziativa pubblica in materia d’investimenti, come dimostrano i grandi « progetti nazionali » varati nel settore delle infrastrutture, dell’istruzione e della sanità. Il problema principale riguarda le risorse finanziarie: il fondo di stabilizzazione costituito grazie alle rendite del petrolio e del gas – più di 80 miliardi di dollari – potrebbe finanziare gli investimenti industriali, soprattutto nel settore energetico, ma questo progetto è contestato dai liberali, che si oppongono all’interventismo statale e preferiscono conservare la « cassa comune » per fronteggiare un eventuale crollo del costo del petrolio. Un simile cambiamento congiunturale, nel 1986, aveva avuto, infatti, un impatto devastante sull’URSS.

Al di là delle controversie tra liberali e dirigisti, la Russia si trova a dover fronteggiare la sfida del « dopo-petrolio » dalla sua condizione di « riserva di materie prime del mondo industriale sviluppato »: nelle esportazioni russe, la quota rappresentata dall’energia e dalle materia prime è, infatti, ulteriormente aumentata, dall’80% nel 2000 all’85% nel 2005. Al forum di Davos, il 27 febbraio 2007, il vice primo ministro russo e presidente di Gazprom, Dimitri Medvedev, ha dichiarato che la Russia dovrà perseguire, come obiettivi primari, « la diversificazione, la creazione d’infrastrutture moderne, l’investimento in capitale umano », ma, per dare concreta attuazione a questa dichiarazione d’intenti, resta ancora molto lavoro da fare.

La produzione di energia nell’ex URSS
Gas naturale 52,1%
Petrolio 19,6%
Carbone 18,4%
Combustibili rinnovabili 1,1%
Nucleare 6,8%
Energia idroelettrica 2%



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