La sinistra in occidente (2)*
* Articolo di fondo de “La Voce Repubblicana” del 3 settembre 1978.
Se il recente dibattito ideologico e, quindi, necessariamente politico, non ha avuto lo scopo di conquistare o riconquistare spazi elettorali, ma – com’è stato esplicitamente detto – di rendere più occidentali le concezioni e il modo di operare della sinistra, ne vedremo le immediate conseguenze nelle prossime discussioni di carattere programmatico. È evidente infatti che se l’Italia è diventata il più incerto e malsicuro dei paesi occidentali, se le sue strutture pubbliche si sono mostrate così largamente improduttive o addirittura parassitarie, se l’economia ha subito processi di decadenza quasi inarrestabili, se la scuola, la sanità e la previdenza danno luogo a preoccupazioni sempre più profonde, tutto ciò è dipeso certamente da precedenti concezioni ideologiche e politiche sbagliate del PCI ma anche da concezioni ideologiche e politiche assai inadeguate del PSI e, come partito popolare di massa e partito di ininterrotto governo, la stessa DC. La revisione ideologica, e quindi politica, dovrebbe così investire, più o meno largamente, tutte le grandi forze politiche e sindacali e darci una modificazione graduale delle condizioni reali del paese che finora non si è realizzata.
Noi abbiamo sostenuto la politica di unità nazionale per arrestare la crisi che andava travolgendo il Paese proprio perché avvertivamo che un certo processo di revisione ideologica e politica, anche se non apertamente ammesso, si andava manifestando in tutte le forze politiche e questo poteva essere il fatto nuovo nei confronti delle precedenti esperienze. Può darsi che, preoccupati della sostanza dei problemi, abbiamo trascurato una discussione ideologica aperta, di carattere pregiudiziale. Ma quando il segretario generale della CGIL Lama ha dichiarato che il salario non poteva essere considerato una variabile indipendente, dichiarazione che implicava una revisione ideologica di fondo delle concezioni tradizionali di un sindacalista comunista, non abbiamo capito perché essa fosse stata respinta da esponenti sindacali e politici che avevano vanto a considerarsi di collocamento ideologico più occidentale. Se la dichiarazione di Lama arrivava tardi, e ciò gli poteva essere rimproverato, non era per questo meno vera e se poteva essere sospettata di carattere strumentale, non poteva essere, per tale solo fatto, sdegnosamente respinta. Questo caso, il più clamoroso e decisivo che sia occorso negli ultimi tempi, ci ha dato la misura di quale divario esistesse fra una professione occidentalistica di carattere puramente ideologico e la concreta azione politica. Ci è parso infatti, in quell’occasione, che Lama fosse diventato più occidentale di Benvenuto o Macario, anche se Lama, per arrivare a quella dichiarazione, era partito da posizioni ideologiche ben più distanti dall’Occidente, di quelle dichiarate in via pregiudiziale dagli altri due esponenti sindacali.
Questa è stata la più amara sorpresa per noi, poiché la dichiarazione di Lama avrebbe dato alla politica di emergenza un contenuto che ancora non si riesce a realizzare. Ma altre sorprese ci sono state riservate prima e dopo la dichiarazione di Lama. Non abbiamo mai capito perché forze politiche di tradizioni occidentali avessero respinto la politica di austerità proposta dall’on. Berlinguer: senza tale politica, che all’Italia era necessaria fin dall’epoca del cosiddetto miracolo economico, parlare di lotta contro la disoccupazione e per lo sviluppo del Mezzogiorno, rimane una pura esercitazione verbale. Non abbiamo neanche capito perché le coraggiose affermazioni dell’on. Amendola circa i sacrifici che i lavoratori occupati debbono compiere a favore dei lavoratori disoccupati, fossero cadute nel vuoto o fossero state addirittura derise. Non abbiamo infine capito perché il fermo schieramento dei comunisti a difesa della autorità dello Stato contro il ricatto terroristico, uno dei valori principali e più fermi degli stati democratici occidentali, avesse dato luogo a tanti sospetti.
Il dibattito ideologico che si è svolto in questi giorni può avere sbarazzato il terreno dalle contraddizioni tra un atteggiamento che, anche a sinistra, come nella DC, vuole essere occidentale e una prassi politica sindacale o statuale che occidentale continua a non essere. E in questa starà la sua maggiore utilità e il suo reale significato di svolta. Se queste conseguenze non dovessero prodursi, sarebbe inutile parlare di politica di unità nazionale e di lotta comune contro l’emergenza. Si sarebbero esaltate le divergenze ideologiche, ma rimarrebbe immutata o peggiorerebbe la prassi politica, anche in ragione delle diffidenze verso una celata competizione elettoralistica, male che ha funestato gran parte della storia della Repubblica.
Per il bene del nostro Paese, noi ci auguriamo che la prima ipotesi risponda alla realtà prossima. Ma l’accoglienza assai critica che il piano Pandolfi ha ricevuto da parte dei sindacati e quella assai tiepida da parte di alcune forze politiche in concorrenza, non ci rende molto sicuri che l’augurio si avveri. Il piano Pandolfi è dai repubblicani considerato un semplice punto di partenza per una politica di rigore tale da farci realmente uscire dalla crisi. Se altri lo considera diversamente, la politica di unità nazionale diventa una vuota formula, carica di approfondimenti ideologici, ma completamente priva di contenuti programmatici adeguati.
Da Ugo La Malfa, L’avvenire che ho voluto. Scritti e discorsi dell’ultimo anno, Edizioni della Voce, Roma, 1979.