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  1. #141
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    Predefinito Re: Ugo La Malfa (Palermo, 1903 - Roma, 1979)

    I “piccoli” e l’inutile “grosso” (1953)


    “La Voce Repubblicana”, a. XXXIII, n. 283 del 4 dicembre 1953. Articolo non firmato.


    Tullio Vecchietti è sceso ieri dall’alto della tribuna dell’ “Avanti!” e ha avuto la degnazione di occuparsi, come se ne può occupare il rappresentante di un “grosso” partito, di quello che pensano o si propongono di fare i partiti minori.
    In cospetto di tanta degnazione, noi potremmo semplicemente rispondere che, dopo le deliberazioni del Comitato centrale del PSI, e dopo i discorsi ai quadri di Morandi e Nenni, per sapere cosa pensano o sono costretti a pensare i socialisti fusionisti ci basta leggere “L’Unità”, le tesi dell’ “Avanti!” essendo un inutile e stucchevole duplicato. Tuttavia poiché Tullio Vecchietti non ci è simpatico come direttore dell’ “Avanti!”, ma ci è simpatico personalmente, circostanzieremo questa risposta.
    Per Vecchietti, dunque, repubblicani, socialdemocratici e liberali di sinistra avrebbero scoperto che le cose in Italia non vanno e che bisogna prepararsi a fronteggiare il consolidamento del fronte clerico-monarco-fascista. Ma Vecchietti sa che noi non abbiamo scoperto questa minaccia ora; noi abbiamo intravisto questo pericolo da lungo tempo e abbiamo fatto di tutto per evitarlo, sostenendo anche, a questo scopo, la legge elettorale. La scoperta della minaccia della destra sarà, se mai, fatta dagli elettori socialisti, che pieni di rosee speranze dopo il 7 giugno, per la vittoria trionfale dell’ “alternativa” Nenniana, vedono trionfare esattamente l’alternativa contraria. Il che, se depone favorevolmente sulla nostra capacità di prevedere l’evoluzione (e l’involuzione) della situazione politica, non depone molto favorevolmente sulle virtù divinatorie dei gerarchi russi.
    E quando Vecchietti ci accusa di non aver capito il 7 giugno, di non aver capito cioè che con quelle elezioni fu smascherato l’equivoco centrismo degasperiano, a noi ci viene da ridere. Il PSI attraverso una furibonda battaglia, è riuscito a smascherare l’ “equivoco centrismo degasperiano”, ma nel contempo ha aperto le porte del potere e del controllo dello Stato repubblicano a monarchici e fascisti. Più vittoriosi e più cornificati di così, è difficile essere.
    Avendo visto giusto, ma non potendo ormai evitare la svolta a destra (o le elezioni) noi ci prepariamo alla nuova battaglia. Ed è ovvio e naturale che la situazione politica ci porti all’opposizione e a uno sforzo riorganizzativo per fronteggiare le nuove minacciose eventualità. Vecchietti dice che, insieme ai liberali, noi repubblicani miriamo a salvare la democrazia, ridestando dal letargo la borghesia progressista e riformatrice, mentre i socialdemocratici si porrebbero un problema più complesso. D’inciso, diremo a Vecchietti che noi vogliamo difendere, nel contempo, la democrazia e la socialdemocrazia, che le nostre preoccupazioni sono politiche e sociali insieme, che pensiamo alla borghesia riformatrice (non abbiamo preconcetti classisti) ma soprattutto agli operai e ai contadini che militano nelle nostre file, e ai quali non vogliamo regalare un nuovo 1922. Pensiamo a una politica di sinistra, e di sinistra democratica, e saremmo lieti di incontrarci con tutti i socialisti, se una parte di essi non preferisse, a una grande solidarietà democratica, l’eterno e monotono vassallaggio al Partito comunista.
    Non c’è nessun equivoco da parte nostra; e meno che mai c’è “un tentativo di ritorno, sotto vesti camuffate, al vecchio centrismo”. E non perché ci vergogniamo di quella esperienza, ma perché il rafforzamento della destra è stato tale, da rendere ormai inattuale quella posizione.
    Non ci nutriamo di illusioni o di volute illusioni, onorevole Vecchietti! Sappiamo che, dopo il 7 giugno, la sinistra socialfusionista ha avuto una falsa vittoria, e la destra una vera vittoria. Dobbiamo prepararci a fronteggiare la nuova situazione. E non siano così ingenui, o così ridicolmente machiavellici, da scrivere che “i democristiani preoccupati dell’involuzione politica italiana (intendi i democristiani di sinistra) hanno quel minimo di buon senso per sapere che il dialogo lo si può aprire solo con la classe lavoratrice, con i suoi partiti e il suo sindacato, piuttosto che con coloro che si ostinano a riprendere la battaglia con le stesse armi che li portarono alla sconfitta”.
    Dopo avere nutrito i lavoratori dell’illusione dell’ “alternativa socialista”, che ha portato a destra (tratteniamo le risa!), oggi i gerarchi del PSI dichiarano di sperare nel colloquio con la sinistra democristiana, di poter realizzare cioè il trinomio, sinistra democristiana, socialfusionismo, comunismo. Ci credono o fanno finta di crederci? O usano la sinistra democratica come hanno usato, ricevendo al momento opportuno le necessarie legnate, il nome di Churchill? Per parte nostra, crediamo più facile il ritorno del fascismo in Italia, che la machiavellica combinazione politica alla quale Tullio Vecchietti deve far finta di credere.
    E allora? Allora saremo nella lotta, come potremo esserci: accanto ai socialisti democratici, accanto ai liberali, se tutti ci vorranno essere, ai liberali di sinistra che in ogni caso – pensiamo – saranno con noi. Continueremo a ignorare l’avanzare della storia in Italia e nel mondo “sul binario della lotta di classe e dei nuovi valori democratici”, poiché continueremo a non voler nulla dividere col Partito comunista.
    Saremo, come dice Vecchietti, dei “reazionari di fatto”, ma dei reazionari che hanno lottato, con estrema coerenza e con estremo coraggio, per la democrazia, per la libertà e per un grande progresso civile e sociale, contro coloro che, in nome di una falsa democrazia, portano l’Italia alla dittatura e al totalitarismo.


    [Ugo La Malfa]
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

  2. #142
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    Predefinito Re: Ugo La Malfa (Palermo, 1903 - Roma, 1979)

    Sommovimento a sinistra (1957)


    “Il Mondo”, a. IX, n. 32 (442) del 6 agosto 1957



    Pochi osservatori, per quanto accorti e intelligenti siano, riescono tuttora a percepire e puntualizzare la vastità e la profondità della crisi ideologica e politica che scuote tutta la sinistra italiana, comunista e non comunista, marxista e non marxista. Pochi, perché si ignorano i fili invisibili, gli intrecci ideologici e politici, le meditazioni e le elaborazioni culturali, attraverso cui la sinistra italiana è sorta e si è, nel tempo, formata e articolata.
    Naturalmente, il punto di partenza di questo grandioso processo di revisione è costituito dalla crisi del mondo sovietico e dai suoi riflessi sul Partito comunista italiano. Non bisogna dimenticare che il mito della Russia sovietica, e l’enorme prestigio morale e politico del Partito comunista, hanno condizionato l’intera sinistra italiana, anteriormente alla Liberazione e dopo. Vi era una sola certezza per molti intellettuali e per vaste masse popolari, prima della revisione kruscioviana: la realtà sovietica, con la sua ideologia coerente ed inflessibile, e con la sua azione politica tenace e instancabile. Ma intervenuto il processo kruscioviano, tutto di quella certezza è franato e tutto è entrato in discussione. Il blocco monopolistico, sicuro, orgoglioso, che a sinistra di tutte le sinistre governava gli sviluppi della vita nazionale, determinando convergenze più o meno forzate o divergenze più o meno violente, quel blocco si è frantumato. Il revisionismo è entrato in azione, e col revisionismo muta il modo di essere e di operare di tutte le forze che dentro e fuori il Partito comunista mirano a una trasformazione della società nazionale. Si comprende che un partito il quale, come membro attivo di una Chiesa, sosteneva tutto il peso di una lotta senza dubbi, e di una guida senza incertezze, si rifiuti di prendere atto della realtà delle cose. Si comprende che un uomo intelligente come Togliatti si chiuda in una stanza buia per non vedere. Ma si comprende altresì come non basti il rimpianto e la nostalgia di una posizione perduta, per ridare forza a un partito e a una posizione smantellati dalle inevitabili vicende del tempo e della storia.
    È difficile tratteggiare in poche righe l’imponenza del fenomeno revisionista di fronte a cui ci ha posto, specialmente dopo gli ultimi avvenimenti, il mondo sovietico. Al di là delle lotte personali, che quasi sempre presuppongono profonde divergenze politiche, tale revisionismo tocca il problema istituzionale e costituzionale di quelle società, cioè l’ordinamento permanente da dare ad esse, la struttura centralizzata o decentralizzata della loro economia, i rapporti fra industria e agricoltura, i rapporti fra la Russia sovietica e gli altri Paesi a ispirazione comunista. Comunque, il grandioso revisionismo kruscioviano, che si accompagna al revisionismo di Tito, di Gomulka, dello stesso Mao-tse-tung, ha permesso di stabilire che nessun movimento politico, anche il più dogmaticamente devoto a schemi universalistici e chiesastici, si sottrae alla legge delle concrete necessità storiche del Paese in cui opera. L’universalismo del pensiero leninista-stalinista può essere alla base delle rivoluzioni della Jugoslavia o della Cina. Ma quell’universalismo non serve più a caratterizzare la politica attuale di Tito, di Gomulka, di Mao-tse-tung. D’altra parte, attraverso il superamento del leninismo-stalinismo, attraverso la distruzione del cosiddetto culto della personalità, dello stesso mito della direzione collegiale, attraverso la decentralizzazione politica ed economica e la rimessa in auge del principio autonomistico, il mondo orientale ha attenuate le grandiose differenze ideologiche e politiche che lo separavano dal mondo occidentale. Il valore eterno del principio di libertà e di autonomia da una parte, il progresso del pensiero e della tecnica nel campo dell’amministrazione, dell’economia e della vita sociale dall’altra, hanno avvicinato il mondo sovietico ai problemi della civiltà occidentale, hanno prodotto molto di più di quanto non abbiano prodotto la guerra fredda e la politica maccartista.
    In queste condizioni, il revisionismo in seno ai partiti comunisti dell’Occidente andrà molto oltre il revisionismo dello stesso Oriente. Se i Paesi a struttura arretrata e a ordinamento comunista si accostano, col loro progresso economico e sociale, ai problemi tipici della civiltà occidentale, è chiaro che i partiti comunisti dell’Occidente subiranno conseguenze incalcolabili da questo accostamento. Il Partito comunista nacque in Italia come fatto politico più moderno e più rivoluzionario di ogni formazione tradizionale di sinistra, socialista e non socialista. Esso credette di innovare con metodo suo e seguendo il modello sovietico, rispetto alle dottrine e alle ideologie di tutti i movimenti di sinistra. Ora il disincantamento ideologico e il superamento politico della dottrina leninista-stalinista, non farà ripiegare i revisionisti nel ristretto campo ideologico tradizionale degli altri movimenti di sinistra, ma determinerà un affinamento critico dello stesso pensiero tradizionale. Cade, come fenomeno di avanguardia ideologica e politica, il Partito comunista; ma, con la sua caduta, si accelera e si concretizza il processo di modernizzazione di tutta la sinistra tradizionale.
    Chi legga gli scritti di Giolitti o dei collaboratori di “Tempi moderni”, di “Corrispondenza socialista”, di “Società”, della stessa “Città aperta”, non si può sottrarre all’impressione che il revisionismo in essi contenuto, uccidendo la certezza dogmatica del Partito comunista, supera, attraverso nuovi e coraggiosi apporti critici, le stesse basi dottrinarie tradizionali della sinistra italiana. Di fronte alla ricerca tormentata, ma viva, di tali scrittori, hanno voce stanca e monotona (la voce di chi ripete senza convinzione abusati morivi) i vari Pajetta e Alicata; ma hanno altresì voce stanca e monotona quei socialisti che guardavano con ammirazione, e continuano a guardare con rispetto reverenziale, al Partito comunista. Né si dica, come dicono alcuni marxisti da strapazzo, che questo è fenomeno limitato al cosiddetto campo degli intellettuali. Se le trasformazioni e i progressi economici e sociali registrati dei Paesi sovietici sono all’origine dell’imponente fenomeno revisionista che in essi oggi si svolge (e questa tesi e più che attendibile), le trasformazioni nelle abitudini di vita dell’operaio della Fiat o del mezzadro dell’Italia centrale ci daranno, prima o dopo, il fenomeno parallelo al revisionismo di ordine intellettuale? La separazione di un fenomeno intellettuale da un fatto di massa, se è un vecchio motivo dell’immortale spirito qualunquistico nazionale, non ha giustificazione alcuna quando si consideri che il Partito comunista ha, allo stesso titolo, origine classista e popolare e origine intellettuale. E non ha giustificazione soprattutto quando si consideri che mentre i partiti di destra possono avere origine non intellettuale, questo è pressoché inconcepibile per un partito di sinistra.
    Così, il revisionismo degli intellettuali comunisti suona non solo condanna al Partito comunista come oggi si presenta, ma riesame critico delle dottrine della sinistra tradizionale. Tutto il campo è posto in movimento, e i contrasti e le revisioni ideologiche si intersecano in ogni direzione. Giolitti e gli scrittori di “Tempi moderni” o gli ex collaboratori di “Società” sono indubbiamente più vicini al socialismo moderno di Lombardi o (entro certi limiti) di Basso, che non a quello di Lussu; sono più vicini al radicalismo di Leo Valiani, che non al cosiddetto morandismo di Lucio Luzzatto. Inversamente il socialismo di Lussu è più vicino all’ideologia tradizionale di Longo e Secchia, che non al revisionismo di Giolitti e Onofri.
    In ciò, pertanto, consiste il sommovimento ideologico di tutta la sinistra. La crisi del Partito comunista, il processo revisionistico che in esso ha luogo, scuote tutto l’edificio dalle fondamenta. Dal Risorgimento in poi, l’Italia non ha mai avuto una sinistra capace di porsi in termini concreti e reali il problema del rinnovamento della vita politica e sociale del Paese.
    Noi abbiamo avuto una sinistra riformistica incapace di affrontare, con metodo e coraggio, problemi di struttura; abbiamo avuto una sinistra massimalistica che è andata al di là di ogni impostazione concreta di problemi. Col Partito comunista è entrata sulla scena una forza non massimalistica nel metodo, massimalistica e astratta nel fine. Praticamente, la società e lo Stato italiani sono sempre rimasti fuori da un’influenza coerente, sistematica e profondamente innovatrice di una grande forza di sinistra.
    Avremo, da oggi in poi, una possibilità politica che non abbiamo mai avuta nel passato? Avremo perciò l’inserimento dell’Italia nel mondo moderno? È difficile dare una risposta certa a queste domande. Nella lotta fra revisionismo e dogmatismo, fra pensiero moderno e certezze acritiche, occorre che la vittoria sia dei primi. E in questo senso le migliori forze della sinistra devono lavorare.


    Ugo La Malfa




    https://www.facebook.com/notes/ugo-l...4026562086336/
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  3. #143
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    Predefinito Re: Ugo La Malfa (Palermo, 1903 - Roma, 1979)

    Un Curiazio solo (1957)



    “La Voce Repubblicana”, a. XXXVII, n. 181 del 31 luglio 1957. Articolo non firmato.


    “L’Osservatore Romano” ha potuto credere per un momento, nella polemica con noi, col liberale Manlio Lupinacci e con “Il Tempo” di essere – e lo ha scritto – come il leggendario Orazio Coclite contro i tre Curiazi. Ma sono bastate poche battute, e l’equivoco si è del tutto e tranquillamente diradato.
    Manlio Lupinacci si è affrettato a replicare affermando che non è intervenuto, ohibò, perché credesse che “La Chiesa intende proporre, nelle condizioni del mondo moderno, a sé medesima e al partito che la rappresenta, un programma di integralismo e di Stato confessionale”. Niente affatto: egli questa preoccupazione infondata la lascia ai repubblicani. È intervenuto perché l’evidente tendenza della Chiesa a patrocinare, nei suoi partiti, le vocazioni socialiste costituisce “un pericolo attuale per la società italiana”. “L’Osservatore Romano” ci darà atto che noi saggiamente avevamo profetizzato questa sostanziosa conclusione liberale. In quanto a “Il Tempo”, non ci voleva molto per comprendere che la sua posizione era fondamentalmente uguale a quella del liberale Manlio Lupinacci e le preoccupazioni le medesime: la collaborazione diretta o indiretta coi socialisti – esso ha scritto nel numero di sabato – comporterebbe per i cattolici l’impegno della trasformazione dello Stato, e perciò la scelta “tra la propria concezione interclassista e quella strettamente classista dei marxisti”.
    Notando d’incidenza che così Mario Missiroli e Giovanni Spadolini sono serviti a dovere nelle loro preoccupazioni laicistiche, sia a destra che a sinistra, sia da parte dei liberali conservatori che dei socialisti, rimaniamo noi soli, umile curiazio, nella lotta contro tanto Orazio. Ed egli – Orazio – ci deve riconoscere, come ci ha riconosciuto, che se i cattolici mostrarono spirito di tolleranza e di democrazia collaborando con i laici, altrettale prova diedero i laici collaborando, senza preconcetti e pregiudizi, con i cattolici. Ma, osserva a questo punto il nostro autorevole contraddittore, non possono essere proprio i repubblicani a vantare quel merito laicista, perché furono, appunto, essi i primi a rinunciarvi: “i primi a dar prova della propria dogmatica intolleranza laicista e della propria natura anticlericale, quando è loro parso che la DC accettasse o subisse supinamente una tendenza verso la clericalizzazione dello Stato”. Quella opinione – aggiunge l’organo vaticano – non fu condivisa né dai liberali né dai socialdemocratici, che rimasero nella coalizione centrista, per staccarsene soltanto nella ultima crisi “per tutt’altri motivi”.
    Ora, “L’Osservatore Romano” non sa quale conforto e quale sostegno ci dia questa sua considerazione. Una delle ragioni per cui noi ci siamo staccati dalla coalizione e da certi rapporti politici con Partito liberale e con la socialdemocrazia, è stata la loro tiepidezza, finché stavano al governo, rispetto ai problemi, per noi fondamentali, della laicità dello Stato. “L’Osservatore Romano” fa bene a ricordare la nostra primogenitura, ma farebbe anche bene, per una ragione di obiettività e di giustizia, a ricordare che noi, se abbiamo trattato questi problemi da più lungo tempo, li abbiamo trattati sempre con serietà e con ponderazione, senza dar prova di intolleranza faziosa e di spirito preconcetto. Mentre altri partiti hanno atteso di uscire dal governo per assumere un tono e un atteggiamento anticlericali, che essi avevano accuratamente evitato prima (se si escluda qualche dichiarazione, forse fatta più a titolo personale che di partito, dell’onorevole Malagodi).
    Detto questo, non ci dispiace proprio di essere rimasti soli, e col marchio della maggior anzianità, nella polemica. Ma vorremmo che “L’Osservatore Romano”, a togliere consistenza alla nostra posizione e alle nostre preoccupazioni, non usasse parole e manifestazioni di semplice buona intenzione, ma citasse fatti e usasse argomenti. Noi di fatti abbiamo abbondantemente nutrito la nostra polemica. Mesi fa abbiamo citato monsignore Castellano e il cardinale Siri, nelle loro manifestazioni di avversione al pensiero moderno, e quindi al pensiero che sorregge la nostra scuola politica, e “L’Osservatore” ci ha risposto eludendo il quesito. Abbiamo citato la pagina culturale del “Popolo”, gli esempi di Balducci o di Rigobello e non abbiamo avuto risposta. In questi giorni abbiamo citato il discorso di monsignor Socche, vescovo di Reggio Emilia, e “L’Osservatore Romano”, dopo averlo con compiacenza riprodotto, oggi prudentemente tace.
    Ma, insomma, che cosa vuole “L’Osservatore Romano”? Che noi, per amore di tolleranza, e per non essere tacciati di anticlericalismo, accettassimo le stupefacenti affermazioni del suddetto vescovo, secondo cui “tutti coloro che non sono comunisti, il laicismo illuministico, il rigurgito dell’anticlericalismo ottocentista, il rinato radicalismo… tutti costoro fanno il gioco del comunismo, ne sono anzi preziosi alleati”? Principio fondamentale della democrazia è che si possa combattere una ideologia avversaria, ma non si debba ad essa togliere legittimità: noi combattiamo il liberalismo e non siamo socialisti, ma ci guardiamo bene dal togliere legittimità a queste dottrine. Monsignor Socche crede di avere dalla parte sua tutta la verità, l’intera verità, e “L’Osservatore Romano” si scandalizza se noi consideriamo questo atteggiamento prova di integralismo, anzi di totalitarismo dogmatico? Ma allora, secondo “L’Osservatore Romano”, che cosa è il totalitarismo? E monsignor Socche, invece di preoccuparsi di dottrine e scuole politiche che non costituiscono affare suo, perché non si occupa con linguaggio cristiano di religione e di cura di anime? Perché entra, con l’altezzosità sprezzante che fu di marca nazista (ci si perdoni il confronto) in contese che politiche sono e restano e che, comunque, vanno trattate altrimenti?
    Ciò per quanto riguarda la propaganda dogmatica. Ma vuole “L’Osservatore Romano” che citiamo i casi di ingerenza politica indiscreta e spiritualmente assai poco edificante esercitata da prelati presso ministri, prefetti, questori, autorità civili in genere?
    All’esigenza, da noi sommessamente avanzata, di ottenere garanzie sia dalla DC sia e soprattutto dalla Chiesa, “L’Osservatore Romano” risponde che “la Chiesa non aspira a nulla più di quel che l’articolo 7 della Costituzione prevede”. “L’Osservatore” sa che quell’articolo fu strappato a un regime illiberale, ed è questa provenienza giuridica e politica assai sospetta, che non fa certo grande onore alla Chiesa e al suo spirito democratico. Tuttavia noi riconosciamo che quell’articolo è stato fatto proprio dalla Costituzione e intendiamo lealmente rispettarlo. Ma è sicuro “L’Osservatore” che le autorità ecclesiastiche rimangano strettamente nell’ambito di quell’articolo e non vadano ogni giorno, sia ideologicamente sia praticamente, oltre il suo esatto contenuto?
    “L’Osservatore” mediti bene prima di darci una risposta.


    [Ugo La Malfa]



    https://www.facebook.com/notes/ugo-la-malfa/un-curiazio-solo-1957/914911901997802/
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  4. #144
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    Predefinito Re: Ugo La Malfa (Palermo, 1903 - Roma, 1979)

    ​Come fare l'Europa (1949)


    “Il Mondo” del 4 giugno 1949. La Malfa risponde ad Altiero Spinelli che con l’articolo “Un’Europa da farsi”, pubblicato sul n. 14 del 21 maggio dello stesso settimanale, lo aveva accusato di scarso spirito “federalista”.



    È con molta abilità, ma con altrettanta arbitraria interpretazione del mio pensiero, che Altiero Spinelli, a nome del federalismo ufficiale, mi pone sul banco degli accusati e mi condanna alla decapitazione.
    In verità, quando sono andato a Firenze per ascoltare i federalisti a congresso, l’ho fatto con spirito innocente e col desiderio di manifestare la mia riconoscente simpatia per il loro meritorio sforzo. Era lontana da me l’idea di intervenire nel loro dibattito o di rappresentare in esso la parte… dell’ufficioso governativo che Altiero Spinelli mi attribuisce e che reputo estranea al mio temperamento. Tuttavia le cose che ho ascoltato in quel congresso mi hanno allarmato al punto, che non ho fatto complimenti quando l’assemblea cortesemente e unanimemente mi ha invitato a parlare. Ciò che mi ha messo in condizione di immediato contrasto con la maggior parte dei congressisti è stata appunto la constatazione del loro astratto radicalismo, di quella posizione critica a ogni costo, che riesce infruttifera, inoperante e fastidiosa. I federalisti hanno diritto di considerare incompleto ogni sforzo che gli Stati dell’Europa occidentale fanno per conseguire un minimo di unità, ma non hanno diritto di considerare tali sforzi come altrettanti grossolani errori, il percorrimento di una via totalmente sbagliata. Fra l’altro, una impostazione di questo genere, pessimistica e “irosa”, porta al solo risultato di screditare quel poco che sul terreno europeo si riesce a fare, per sostituirvi una vana declamazione.
    Se questo male del radicalismo astratto di molti amici federalisti dovesse durare (ma vi sono buoni segni di guarigione), si manifesterebbe ancora una volta, e sul terreno internazionale, quella incapacità di svolgere e portare avanti una situazione politica, che così clamorosamente si è manifestata sul terreno politico interno. Il radicalismo astratto ha ucciso il Partito d’azione, ha fatto franare il Partito socialista e minaccia di rovinare i socialdemocratici. Prodotto della lotta antifascista e delle resistenze esso nuoce a molti nobili spiriti, li porta a un sinistrismo che non è né democratico né comunista, si infiltra nei partiti e dà dei sottoprodotti, come il congresso della pace n. 2 testé svoltosi a Parigi (con la partecipazione di Sartre e altri intellettuali di “sinistra” francesi e, fra gli italiani, di un uomo che stimo molto ma non comprendo sempre, l’amico Garosci).
    È chiaro a esempio che l’Europa non può dirsi veramente unita se gli Stati non pervengono a una limitazione della loro sovranità. Ma si può propagandare questa idea e sollecitare questo ulteriore passo in avanti, senza aggredire e incriminare i più prudenti passi che i governi compiono in sede ufficiale e responsabile. Si può ritenere che i poteri del consiglio o dell’assemblea europea di nuova formazione risultino troppo limitati e si può mobilitare il movimento federalista e l’opinione pubblica per invitare i governi ad accettare un’estensione di tali poteri. Ma gridare che il consiglio o l’assemblea non servono a nulla, considerarli come manifestazioni di un functional approach (si dice così amico Rollier?), affermare che Sforza è un “azzeccagarbugli”, o addirittura un colonialista, un quasi imperialista, quando “La libertà” lo accusa di europeismo ideologico, significa confondere le idee del prossimo e portare vasi alla… Samo nazionalista.
    La situazione europea presenta tutte le difficoltà che Altiero Spinelli illustra. Persistenza di spirito nazionalistico negli Stati e nell’opinione pubblica, tradizioni che non hanno più nulla da vedere con i problemi e le necessità di una Europa unita, miopia di governanti e di correnti politiche, ignoranza della grave situazione in cui si trova l’Europa dopo la seconda guerra mondiale, tutto ciò esiste. Ma come superare tante difficoltà se non apprezzando quel poco di buono e di costruttivo che viene fatto, e nello stesso tempo incitando, sospingendo, correggendo senza pronunciare terribili scomuniche?
    Se i movimenti federalisti avessero milioni di aderenti, legioni di credenti, una vasta risonanza nell’opinione pubblica, essi potrebbero compiere la… rivoluzione federale: essi potrebbero cancellare d’un tratto il potere sovrano dei singoli Stati, promuovere la costituente d’Europa. Ma essi non hanno tanto. Essi debbono educare lentamente e gradualmente strati crescenti di opinione pubblica al pensiero europeo, debbono superare prevenzioni, ostilità e resistenze, illuminare sui nuovi aspetti dei problemi. Perché non farlo con la moderazione, l’ottimismo, la simpatia umana che devono accompagnare siffatta opera di propaganda? Perché non comprendere che anche i governi, i partiti, le correnti di opinione hanno i loro problemi, incontrano le loro difficoltà, sono attardati nel loro cammino da innumerevoli attriti? È la posizione mentale dei federalisti, quale ho creduto di intravedere al congresso di Firenze, che io condanno; non il loro diritto (che è poi un dovere) a spingere avanti le soluzioni, agendo da pattuglia (o esercito) di punta.
    Altiero Spinelli mi domanda se sarà possibile all’OECE di elaborare un piano di ricostruzione europea finché essa sarà costituita di rappresentanti di Stati sovrani, ciascuno dei quali conserva il diritto di elaborare un piano di ricostruzione per proprio uso e consumo. Evidentemente no! Ma se l’OECE dovesse d’acchito elaborare un piano di ricostruzione europea, imponendolo ai singoli Stati nazionali, si troverebbe assai imbarazzata. I singoli piani nazionali servono all’OECE come punto di partenza per costruire un piano europeo, che sia un piano concreto e se non una gratuita congettura. E se Altiero Spinelli avrà letto, come io non dubito, il Rapporto internazionale sul programma di ricostruzione europea dell’OECE, si sarà accorto che la necessità di un coordinamento dei vari piani nazionali è stata fortemente sentita in seno all’organizzazione economica europea e ha già dato luogo a deliberazioni del consiglio.
    Patto atlantico? Anche qui la critica è facile. Ma io non dimentico che i federalisti sono stati per molto tempo contrari al Patto atlantico, che federalisti come Mondolfo hanno portato questa ostilità in seno al Partito socialista dei lavoratori, che altri federalisti rimangono tuttora fortemente avversi al patto. Essi non si sono accorti di quale grande contributo all’unificazione europea potesse essere portatore un patto del genere. Si critichino aspramente i governi, ma quando si commettono errori così gravi di valutazione politica, non si ha il diritto di emettere sentenze assolute, così come i federalisti spesso ne emettono. Se ancora alla vigilia della firma del Patto atlantico uomini altamente responsabili della politica italiana erano incerti sulla opportunità o meno di aderirvi, la posizione dei federalisti entra in questa incertezza per qualche cosa. E come affermare che Pacciardi farà una “meschina politica di riarmo nazionale” se il collegamento sul piano europeo delle forze armate nazionali è presupposto di ogni difesa europea degna di questo nome?
    Con posizioni così aprioristiche, tutto diventa gratuito nei federalisti. Il bene in loro, il male negli altri, la verità nelle loro impostazioni, l’errore nelle impostazioni altrui. Non mi sono mai nascosto che il processo di unificazione europea sarà lento e faticoso, incontrerà molti ostacoli, urterà molte avversioni. So, per contro, che bisogna far presto, che l’Europa non ha molto tempo davanti a sé se vuole superare la sua crisi storica, non ignoro, come non lo ignorano i federalisti, che gli europei spesso dimenticano la precarietà della loro condizione, le pressioni formidabili cui sono sottoposti, la quantità di problemi quasi insolubili ereditati da due guerre mondiali e da altrettante sconfitte.
    Ma chiedo ai federalisti un po’ di carità, di pazienza e di ottimismo. Non si spinge avanti un pesante carro, gridando dannazione a coloro che cercano di trainarlo. Si aiuta piuttosto a togliere qualche sasso e a evitare il terreno molle.
    Gli uomini della democrazia europea si dividono oggi in due schiere: quelli che cercano di fare qualche cosa e quelli che aiutano a disfare il poco che si è fatto. Non vorrei che i federalisti si raccogliessero tutti nella seconda schiera.


    Ugo La Malfa
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  5. #145
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    Predefinito Re: Ugo La Malfa (Palermo, 1903 - Roma, 1979)

    Nel groviglio (1957)



    “La Voce Repubblicana”, a. XXXVII, n. 186 del 6 agosto 1957. Articolo non firmato.


    L’organo della Santa Sede ha risposto, venerdì, lungamente e amabilmente al nostro ultimo articolo [“Un curiazio solo”, https://www.facebook.com/notes/ugo-l...4911901997802/, ndr]. Ma, a nostro giudizio, ha risposto in maniera da non uscire dalle contraddizioni guadagnando libero spazio, ma da cacciarsi ancor di più in un groviglio inestricabile, che è il groviglio stesso del pensiero religioso quando sia trasportato in sede politica.
    Alla nostra domanda che individua, in verità, l’essenza della polemica (Ma, insomma, che cosa vuole “L’Osservatore Romano”, che noi, per amore di tolleranza e per non essere tacciati di anticlericalismo, accettassimo le stupefacenti affermazioni di monsignor Socche?) “L’Osservatore” ha risposto che quelle affermazioni non sono stupefacenti, poiché noi, temendo più del comunismo il confessionalismo, facciamo in definitiva il gioco del primo e ne diventiamo preziosi alleati, nell’ovvio senso che “l’alleanza, l’aiuto, il credere condizioni vantaggiose è un fatto indipendente dal volerlo e persino dal crederlo; è un fatto che si avvera anche con la piena buona fede e la riluttanza di chi non lo vorrebbe…”. Ora noi non abbiamo detto che temiamo il confessionalismo più del comunismo: abbiamo detto che temiamo ambedue in eguale misura. Ed è sintomatico che mentre “L’Osservatore”, con i cardinali e i vescovi, ci accusa, per la nostra lotta contro il confessionalismo, di fare il giuoco del comunismo, i comunisti, alla loro volta, ci accusano, per la nostra lotta contro il comunismo, di fare il giuoco del confessionalismo. Ha scritto il comunista Ottavio Pastore sull’ “Unità” di sabato: “ciò (la trasformazione in senso confessionale della società italiana) è avvenuto dietro la maschera dei cosiddetti partiti minori, i quali non solo non hanno resistito, ma in molti casi hanno facilitato la clericalizzazione”.
    Non sembra indicativo, e non dovrebbe indurre la Chiesa a serie meditazioni e a una vigorosa autocritica, il fatto che i comunisti rivolgano ai democratici laici le stesse accuse (rovesciandole) che i cardinali e vescovi rivolgono loro e che “L’Osservatore Romano” così tenacemente e imprudentemente avalla? Che strana posizione è la nostra! Ognuna delle due parti rivendica il diritto di propinarci merce ideologica assai discutibile, non decantandone apertamente e francamente le eventuali qualità, ma dipingendo a tinte assai nere e fosche le qualità della merce ideologica avversaria. Ora, noi non siamo grandissime potenze come il comunismo e il cattolicesimo, e non possiamo rivolgerci gli elogi che Lenin, Togliatti e “L’Osservatore Romano” recentemente si scambiavano. Ma abbiamo abbastanza giudizio per intravvedere i pericoli del comunismo senza il grido d’allarme e l’intermediazione di monsignor Socche, e i pericoli del confessionalismo senza l’intervento del senatore Pastore. In ogni caso una cosa non riusciamo a comprendere: il dogmatismo ideologico del comunismo è di natura prettamente politica e perciò si trasforma in totalitarismo; il dogmatismo ideologico del cattolicesimo è di origine e natura prettamente religiosa, e potrebbe rimanere, legittimamente, tale. Perché la Chiesa e gli organi della Chiesa non sanno e non vogliono fare lo sforzo necessario per rimanere nel loro campo di azione, e per non essere coinvolti nel dogmatismo ideologico di carattere politico, e quindi in quella più limitata sfera di interessi umani, nella quale può allignare il totalitarismo?
    D’altra parte, dobbiamo dire francamente all’ “Osservatore Romano” che questo argomento, secondo cui il pensiero e le correnti democratiche laiche farebbero il giuoco del comunismo, sa assolutamente di ripiego. Il comunismo è un fatto del 1917; ma la lotta della Chiesa contro le correnti laiche è ben anteriore a questa data. Quando fu scritto da somme autorità vaticane il Sillabo, di comunismo non vi era nemmeno l’ombra; ma l’intransigenza ideologica della Chiesa non era minore, e la sua lotta conto le correnti laiche liberali, democratiche e socialiste, forse più aspra.
    La Chiesa può obiettare (e suole obiettare) che se, ai tempi del Sillabo, il comunismo non vi era, esistevano tutte le premesse ideologiche per arrivarci. Ma neanche questo argomento è valido. Se nel pensiero laico vi sono state tutte le premesse ideologiche per arrivare al comunismo, vi sono state altresì tutte le premesse logiche per arrivare al fascismo. Perché la Chiesa non l’ha condannato? Se poi il fascismo, come altri regimi totalitari, si fa discendere da una commistione di pensiero laico e cattolico, ecco che la responsabilità della Chiesa diventa ancora maggiore.
    Ma poi è filosoficamente e logicamente corretto far discendere dalle dottrine della libertà le ideologie di carattere totalitario? La libertà non può che produrre la libertà; il dogmatismo e il fanatismo non possono che produrre il totalitarismo. Alla luce di queste elementari considerazioni, il cardinale Siri e monsignor Socche, prendendosela col pensiero laico a proposito del comunismo, si danno la zappa sui piedi: mettono in luce le affinità fra cattolicesimo e comunismo dal punto di vista dogmatico; non dimostrano certo il contrario.
    La salvezza (in senso ideologico) della Chiesa e dei suoi organi è di rimanere sul terreno strettamente religioso; di non scendere mai, e per nessuna ragione, in campo politico, anche quando si tratti del comunismo. La Chiesa deve combattere i movimenti politici laici e lo stesso comunismo, in quanto intendano limitare la sua libertà di magistero spirituale: non perché siamo movimenti politici non cattolici. Se la Chiesa non osserva strettamente questo confine e se, non controllandosi, lo supera, verrà coinvolta, prima o poi, nelle lotte politiche e perderà, qualunque cosa faccia o tenti, di prestigio e di autorità. D’altra parte, è solo questo atteggiamento che può dare legittimità ai movimenti politici cattolici. Se nella sola sede religiosa il cattolicesimo è assoluto e dogmatico, e nella sede politica è adogmatico, critico e di ispirazione laica, il cattolicesimo politico può resistere e inserirsi nella dialettica delle forze democratiche. Altrimenti, esso prima o poi coinciderà col dogmatismo comunista.
    Ma questo scritto è già lungo e non ha esaurito tutti gli argomenti ai quali l’ “Osservatore” ci invita. Ne parleremo in un prossimo articolo se “L’Osservatore Romano” avrà la pazienza di seguirci.


    [Ugo La Malfa]
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  6. #146
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    Predefinito Re: Ugo La Malfa (Palermo, 1903 - Roma, 1979)

    Dipaniamo (1957)



    “La Voce Repubblicana”, a. XXXVII, n. 188 dell’8 agosto 1957. Articolo non firmato.


    Nell’articolo precedente [“Nel groviglio”, https://www.facebook.com/notes/ugo-l...7838235038502/, ndr] abbiamo messo in rilievo le contraddizioni in cui la Chiesa cade quando, in sede politica, condivide le posizioni così grossolanamente propagandate e propinate da monsignor Socche e suoi simili. Ne riassumiamo le conclusioni.
    Non si possono attaccare le posizioni democratiche laiche con la scusa che esse favoriscono l’affermazione del comunismo, per la semplice ragione che la Chiesa ha condotto quegli attacchi anche quando di comunismo, come regime politico, non vi era nemmeno l’ombra. Se si vuole dire che il pensiero laico moderno è stato l’incubatore dell’ideologia comunista, si dimentica che le dottrine della libertà non possono produrre il loro contrario e che comunque la stessa funzione incubatrice, il pensiero laico dovrebbe avere avuto verso fascismo, nazismo e franchismo; perché la Chiesa non è stata così severa verso questi movimenti come lo è stata verso le correnti democratiche laiche e verso il comunismo? Infine non dice nulla, alla Chiesa, che il comunismo rivolga ai democratici laici la stessa accusa (rovesciandola) che essa loro rivolge? Non è questa la riprova di una analogia di posizioni su cui la Chiesa dovrebbe meditare?
    In verità, sono le argomentazioni di monsignor Socche, fatte proprie dalla Chiesa, che ci portano, riluttanti, alla conclusione che l’ideologia cattolica, anche quando è trasportata in sede politica, rimane dogmatica, totalitaria e acritica, così come l’ideologia comunista. Se tutto il pensiero moderno è negato, se tutti i movimenti politici che derivano dal pensiero moderno sono condannati e scomunicati, qual è l’ideale politico di monsignor Socche e dei prelati come lui? Un immenso esercito di cattolici, senza neanche un reprobo, che amministri lo Stato, in nome dei diritti e dei dogmi della Chiesa: quindi uno Stato di cattolici completamente asservito agli interessi della Chiesa. Che altra alternativa contiene, infatti, il pensiero così profondo e così autenticamente democratico di monsignor Socche? Se in un qualunque Stato, se nel nostro Stato, niente, per monsignor Socche, è legittimo che non sia nell’alveo del pensiero e della dottrina cattolici, che altro ci resta da fare se non combattere questo totalitarismo, del tutto simile al totalitarismo comunista?
    Se i prelati come monsignor Socche volessero decentemente conciliare le loro convinzioni religiose con i principi che governano una democrazia, dovrebbero dire che ferma restando, in sede religiosa, la negazione di ogni dottrina che non accetta i dogmi della Chiesa cattolica, è legittima, in sede politica, la coesistenza di dottrine che non si ispirano alla sola dottrina cattolica: dovrebbero cioè fare, in sede politica, professione di liberalismo e di democrazia. Ma sfidiamo “L’Osservatore Romano” a citarci il caso di un cardiale o di un vescovo capaci di fare un discorso così moderato e così assennato.
    D’altra parte, senza questo discorso, l’intera posizione dei movimenti politici cattolici diventa contraddittoria e sospetta. Un partito è democratico perché ideologicamente accetta le regole della democrazia. Noi pensiamo che un democratico cristiano, pur tenendo fede alle sue idee, non tolga legittimità al Partito repubblicano o al Partito socialista. Ma se dietro il democratico cristiano, che accetta o mostra di accettare la dialettica della vita democratica, vi è un monsignor Socche che la nega, perché noi dovremmo aver fede nel democratico cristiano? Anche i comunisti parlano, in Italia, di libertà e democrazia, e noi abbiamo il dovere di non prenderli sul serio, quando essi stessi ci denunciano l’ademocraticità del loro regime. Ma se non prendiamo sul serio un comunista, dobbiamo prendere sul serio un democratico cristiano, interpretato, nelle sue reali finalità da monsignor Socche o dal cardinale Siri? Anche questa è un’analogia, sulla quale è bene che “L’Osservatore Romano” si soffermi.
    Il buffo è poi che, in tutto questo, monsignor Socche e la Chiesa si dimenticano dei cattolici militanti in partiti diversi dal cattolico. Ma, insomma, qual è la sorte che la Chiesa riserva a un cattolico repubblicano o a un cattolico liberale? Essi, in sede religiosa, credono ai dogmi della Chiesa; in sede politica respingono fermamente le argomentazioni di Socche e di altri. Se Socche fosse in una posizione coerente, accettata completamente dalla Chiesa, il cattolico repubblicano o il cattolico liberale dovrebbero essere sconfessati e scomunicati. Se non lo sono, vuol dire che monsignor Socche sostiene delle cose assurde e senza senso comune. Ma perché la Chiesa le fa proprie e le avalla?
    E, per finire, che ne direbbe la Chiesa se noi l’attaccassimo in sede religiosa, come monsignor Socche ci attacca in sede politica? Noi potremmo scrivere, ad esempio, che la dottrina cattolica è un campionario di superstizioni diretto a imbottire il cranio degli uomini e questa affermazione, in sede religiosa, avrebbe la stessa finezza, eleganza e rispetto delle convinzioni altrui, lo stesso valore liberale che hanno le affermazioni di monsignor Socche e del cardinale Siri e di altri in sede politica. Noi non abbiamo mai scritto goffaggini del genere. Ma gli insigni prelati della Chiesa le hanno disinvoltamente scritte e “L’Osservatore Romano” le ha, compiacentemente, riprese. Dopo questo, siamo noi anticlericali e mangiapreti, o non sono il cardiali e i vescovi che sfidano la nostra pazienza?
    In verità, a noi sembra che la Chiesa debba aggiornare la sua posizione circa i movimenti ideologici che reggono il mondo moderno. Ma soprattutto deve sapere accuratamente distinguere fra posizioni religiose e posizioni politiche. Senza di che, essa e noi, andremo tutti, prima o poi, alla catastrofe e allo sbaraglio.


    [Ugo La Malfa]
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  7. #147
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    Predefinito Re: Ugo La Malfa (Palermo, 1903 - Roma, 1979)

    I laici e la Chiesa (1957)



    “La Voce Repubblicana”, a. XXXVII, n. 203 del 28 agosto 1957. Articolo siglato.


    In uno dei suoi recenti articoli in polemica con liberali e socialisti, “L’Osservatore Romano” ci accusa di non avere a suo tempo risposto all’invito di convalidare con fatti, episodi, prove, l’accusa, da noi ripetutamente rivolta alle autorità ecclesiastiche, di ingerirsi indebitamente negli affari che riguardano il potere civile, lo Stato e la politica. Potremmo rispondere non solo con le parole del segretario politico della DC nel suo discorso a Valsugana, ma con le stesse parole dell’ “Osservatore Romano” (23 agosto) quando accusava giovani correnti cattoliche di credere quello che noi stessi crediamo. Se alcune giovani correnti cattoliche hanno, esse stesse, l’impressione che le autorità ecclesiastiche esorbitino dalla loro spirituale funzione e invadano il campo di un’attività che non è loro propria e pertinente, si può considerare la loro testimonianza ben più efficace di qualsiasi prova o fatto che noi possiamo, da oggi in poi, addurre.
    Ma non di questo argomento vogliamo valerci oggi, iniziando una polemica sui fatti; ma degli argomenti ideologici che abbiamo abbondantemente riesposti con gli articoli del 6 [“Nel groviglio”, https://www.facebook.com/notes/ugo-l...7838235038502/, ndr] e dell’8 [“Dipaniamo”, https://www.facebook.com/notes/ugo-l...8271648328494/, ndr] agosto scorsi, e ai quali l’autorevole organo della Città del Vaticano non ha mai replicato.
    In sostanza, noi domandavamo in quegli articoli come era possibile conciliare l’esclusivismo ideologico, di cui tutte le autorità ecclesiastiche danno prova nelle loro manifestazioni verbali e scritte, con la tolleranza politica che è l’essenza stessa della democrazia. Se i prelati come monsignor Socche volessero decentemente conciliare – dicevamo in quegli articoli – le loro convinzioni religiose con i princìpi che governano una democrazia, dovrebbero dire che ferma, in sede religiosa, la negazione di ogni dottrina che non accetta i dogmi della Chiesa cattolica, è legittima, in sede politica, la coesistenza di dottrine che non si ispirano alla sola dottrina cattolica; dovrebbero cioè fare, in sede politica, professione di liberalismo e di democrazia. E sfidavamo “L’Osservatore Romano” a citarci il caso di un cardinale o di un vescovo capaci di fare un discorso così moderato e così assennato.
    Ora a questi argomenti, e ad altri ben più gravi (quali ad esempio l’atteggiamento delle autorità ecclesiastiche rispetto a cattolici non militanti nel partito dei cattolici), “L’Osservatore Romano” non ha risposto. E finché risposta non vi sia, è difficile procedere avanti nella discussione e nella chiarificazione e affrontare nuovi e meno fondamentali argomenti.
    Il nostro sospetto è che l’esclusivismo ideologico della Chiesa traligni dalla sede religiosa alla sede politica e si concreti in totalitarismo vero e proprio. L’organo della Città del Vaticano si affanna a dimostrarci l’assoluta inconsistenza di questo nostro sospetto. Ma non ci ha mai dato le spiegazioni necessarie perché noi si percepisca e si comprenda attraverso quali elementi e quali argomentazioni ideologiche la Chiesa arriva alla distinzione fra campo religioso e campo politico.
    Finché questo chiarimento non vi sia, è inutile, a nostra impressione, esortare a non sviluppare le polemiche fra partiti che ieri o domani potranno collaborare. Il problema dei rapporti fra Chiesa e Stato, fra Chiesa e partiti politici esiste, si è aggravato in questi ultimi anni, nonostante la collaborazione, e dovrà essere in qualche maniera risolto. Noi comprendiamo che molti cattolici autorevoli, militanti nel campo politico, abbiano tutto l’interesse di metterlo in sordina. In definitiva questi anni sono stati, per la costruzione politica cattolica, fra i più felici e fruttuosi che essi abbiano registrato nella non lunga storia dello Stato italiano: ed è inutile stuzzicare il “can che dorme”. Ma se ai cattolici politicamente militanti si addice la prudenza e la moderazione nel corso della loro eccezionale ascesa, al laici spetta il compito di veder chiaro, e di approfondire i problemi relativi alla vita dello Stato, allo scopo e significato delle ideologie che lo investono. Senza di che essi rischiano di morire, prima di aver percepito il loto diritto alla vita.


    U[go] L[a] M[alfa]
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  8. #148
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    Predefinito Re: Ugo La Malfa (Palermo, 1903 - Roma, 1979)

    Tribuna politica - Conferenza stampa del segretario del PRI Ugo La Malfa (1966?)


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  9. #149
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    Predefinito Re: Ugo La Malfa (Palermo, 1903 - Roma, 1979)

    La prova (1957)


    “La Voce Repubblicana”, a. XXXVII, n. 209 del 4 settembre 1957. Articolo non firmato.


    Come sospettavamo, vi era un punto centrale delle nostre argomentazioni e delle argomentazioni dell’ “Osservatore Romano”, che avrebbe messo a nudo l’insanabile contrasto di tesi e questo punto centrale è venuto fuori.
    Alla nostra domanda perché la Chiesa e gli organi della Chiesa non sanno e non vogliono fare lo sforzo necessario per rimanere nel loro campo di azione, e per non essere coinvolti nel dogmatismo ideologico di carattere politico, e quindi in quella più limitata sfera di interessi umani nella quale può allignare il totalitarismo, l’ “Osservatore” risponde rilevando che “la Chiesa e gli organi della Chiesa non concepiscono interessi umani che si distinguano dagli interessi religiosi e morali. Separarne le sfere come estranee l’una all’altra, così che gli interessi religiosi e morali non sarebbero umani, non è difendere il laicismo, ma l’assurdo. Donde ovvio, vero e ragionevole e umano che la Chiesa e gli organi suoi pensino di rimanere nel loro campo d’azione quando intendano tutti gli interessi umani ancorati a quelli supremi dello spirito”.
    Noi non avevamo detto che gli interessi religiosi e morali non fossero umani, noi li avevamo, soltanto e semplicemente, separati dagli interessi politici, attribuendo i primi alla sfera della Chiesa, i secondi alla sfera dello Stato e dei partiti. Ma per la Chiesa e per i suoi organi – ci dice esplicitamente l’ “Osservatore Romano” – qualsiasi interesse politico è subordinato all’interesse religioso e quindi al dogma cattolico. E poiché vi possono essere interessi politici che non obbediscono, o non promanano dai dogmi della Chiesa, ecco che questi interessi politici diventano estranei al suo mondo e alle sue concezioni, diventano false ideologie da combattere e da distruggere. Noi avevamo suggerito la distinzione fra interesse politico ed interesse religioso, per tentare un estremo componimento, per non arrivare definitivamente alla conclusione che il dogmatismo religioso della Chiesa è anche dogmatismo politico, e quindi totalitarismo. “L’Osservatore Romano” non solo rifiuta il nostro tentativo e la nostra volontà di distinzione, ma proclama fieramente i diritti “integrali” della Chiesa.
    Perché continuare allora la polemica su altri punti, parlare dell’atteggiamento liberale delle forze cattoliche in questa o quella contingenza, o prendere atto di certe benemerenze di monsignor Socche (e ne prendiamo volentieri atto)? Il problema non può ridursi a questi aspetti particolari, ma deve ricondursi all’atteggiamento ideologico fondamentale e alle conseguenze ultime che esso finisce col produrre. La Chiesa ci conferma, attraverso la nota fondamentale dell’ “Osservatore Romano”, che qualunque ideologia politica, non improntata direttamente al pensiero cattolico, le è estranea e nemica. Non le è estraneo il solo comunismo o il socialismo marxista, ma il repubblicanesimo, il liberalismo, lo stesso socialismo democratico. D’altra parte, ed è questa la confessione più grave, anche se “L’Osservatore Romano” non affronta direttamente il problema, non si può essere cattolici e repubblicani, cattolici e socialisti, cattolici e liberali, essendo in pace con la propria coscienza religiosa. Dal dogma religioso la Chiesa fa discendere conseguenze in ogni campo: e se un repubblicano ha creduto di conciliare la sua fede religiosa con una milizia politica, esso ha fatto ciò arbitrariamente in violazione della concezione integrale della Chiesa. Così un’ideologia politica come quella repubblicana, non interferendo sul problema religioso, crede di rispettare la coscienza dei militanti; ma la Chiesa non è paga di questo e vuole che la dogmatica sua integrale permei l’ideologia del Partito: pretende cioè che il Partito repubblicano non sia più tale. Come conseguenza ultima, la Chiesa riconosce come suo, come sua filiazione diretta, un solo partito, e questo è il partito politico dei cattolici, caratterizzato come tale.
    Domandiamo all’ “Osservatore Romano” se i militanti di alte ideologie politiche possono accettare una posizione del genere, o non debbono, conoscendo l’inesorabilità del dogma della Chiesa in tutti i campi, predisporsi tempestivamente alla lotta; domandiamo altresì all’ “Osservatore Romano” di chi è la responsabilità della lotta, se di quelli che vogliono riservarsi il campo politico dell’attività umana, riservando alla Chiesa la sfera religiosa, o di chi, con l’argomentazione che il morale non può separarsi dal politico, vuole controllare tutto, e quindi l’intera società e lo Stato.
    Certo, i partiti cattolici accettano dovunque le regole della democrazia, e non mandano a morte i loro avversari, estromettendoli da ogni attività politica. Ma questo è l’aspetto più superficiale e immediato dell’attività dei cattolici. Dietro i partiti politici cattolici vi è la Chiesa; e la Chiesa non riconosce nessuna legittimità ai partiti politici che non siano cattolici. Essi rappresentano non il momento dialettico necessario della libertà e della democrazia: ma l’errore, ma la non coscienza morale, e quindi la non coscienza politica, ma il male. Non potranno essere fisicamente soppressi. Ma la Chiesa ha ben altre armi per ridurli o sopprimerli: se in essi militano cattolici, ha l’arma del turbamento della coscienza, se in essi militano non cattolici ha l’arma della pressione religiosa, e della pressione totalitaria di ordine politico (non sono forse totalitari i democratici cattolici quando devono perseguire altre fedi religiose?); se in essi militano non credenti, ha l’arma della iniqua lotta alla religione e alla Chiesa.
    In definitiva, se la Chiesa rimanesse sul terreno religioso, tutto funzionerebbe secondo una logica, che i laici potrebbero accettare. Non rimanendo sul terreno religioso, la Chiesa trasporta la lotta su un terreno, che se dà armi poderose di pressione a essa, dà ai laici armi di opposizione, che più sacrosante e legittime non potrebbero essere.
    La delicatezza del momento attuale consiste in ciò, che o la Chiesa esamina meglio il problema dei rapporti fra campo religioso e campo politico, o sarà responsabile in prima persona di una battaglia della quale sarebbe ardito fissare, fin da ora, i limiti e la gravità. “L’Osservatore Romano” chiude le sue note con un accenno cortese e simpatico alla collaborazione che i repubblicani hanno dato ai governi democratici. Noi ringraziamo del cortese ricordo: tuttavia le questioni ideologiche non sono questioni fondamentali, sui cui la transigenza è inammissibile soltanto per la Chiesa: lo sono anche per noi. Ed ecco perché l’impossibilità di trovare un punto d’incontro ideologico potrà, prima o dopo, avere gravi conseguenze di ordine pratico e politico.


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    Predefinito Re: Ugo La Malfa (Palermo, 1903 - Roma, 1979)

    I repubblicani in prima linea nell’opera per la costruzione dello Stato democratico (1950)


    Sintesi del discorso pronunciato a Roma nel teatro Quirino il 30 aprile 1950 e pubblicato sulla “Voce Repubblicana” del 3 maggio 1950 con questo titolo. Il discorso di La Malfa era stato preceduto da quello di Giulio Andrea Belloni. La manifestazione era stata organizzata dalla sezione “Centro” del PRI di Roma. Il 27 gennaio si era costituito il nuovo governo presieduto da Alcide De Gasperi, con la partecipazione dei rappresentanti della DC, del PRI e del PSLI e con l’esclusione del PLI. La Malfa era entrato nel governo come ministro senza portafoglio.



    Sarebbe facile parlare soltanto di unità di questa Italia che ha combattuto contro il fascismo ed il nazismo, che ha combattuto per la sua libertà e per lo spirito del suo risorgimento.
    Sarebbe facile parlare retoricamente di unità ma sarebbe altrettanto facile dimenticare completamente questa unità.
    In verità il 25 aprile ha visto l’unità del popolo italiano di tutti i partiti politici contro il fascismo; la grande unità del popolo libero contro l’avventura ventennale è stata realizzata ed è su questa unità, su questa posizione di battaglia che è nata la repubblica italiana, le sue radici sono nella resistenza e nella lotta contro il fascismo. E questo spiega perché tutti i partiti antifascisti al governo si trovano su una posizione sola: il fascismo non deve più ritornare. Nella storia del nostro paese il fascismo deve essere decisamente cancellato.
    Proprio recentemente questa posizione è stata riaffermata, proprio in occasione della commemorazione del 25 aprile; è stato chiaro che per qualsiasi governo democratico esiste nella costituzione, esiste nella Legge della Repubblica italiana una condizione assoluta di difesa e di estromissione di qualsiasi ritorno nostalgico: la posizione per cui il fascismo è un precedente storico nella nostra vita nazionale, che è una esperienza vissuta che non si può ripetere nella nostra vita politica.
    Questo è stato affermato di recente nella “Voce Repubblicana” riaffermato dal governo, questa posizione è stata solennemente dichiarata dal ministro Scelba alla Camera anche se non ha avuto il necessario rilievo.
    Nessuno dei deputati del Partito comunista o socialista fusionista e purtroppo neanche l’onorevole Calamandrei, che parlava spesso di un’opposizione costituzionale socialista ed a cui, in quell’occasione, ho mandato un biglietto, nessuno, neanche l’oppositore costituzionale onorevole Calamandrei, ha sentito il dovere di rilevare che era stato preso un impegno che – all’infuori dei conflitti politici – era un atto importante della vita parlamentare. Questo dice come, molte volte, le passioni politiche e le lotte politiche sono governate da altri elementi che non quelli che si portano alla ribalta!
    Io mi domando se proprio tutti i partiti che conducono la lotta democratica, vogliano veramente che il fascismo sparisca dalla vita politica, o non considerino che il risorgere di una situazione fascista faccia precipitare le forze politiche da una parte, portando a una rottura come nel 1922, e alla dittatura!
    Mi domando se veramente i partiti politici che oggi lottano nella vita politica italiana sono sempre governati dal vero e perenne interesse democratico del popolo italiano! Ma se il fascismo è un antecedente storico della nostra vita politica, è pure un’esperienza vissuta e condannata dal popolo italiano. Questo bisogna tenere presente perché la nostra lotta sia ferma e seria.
    Nella lotta politica italiana, che cosa è stata l’unità del 25 aprile nella lotta di resistenza? Che cosa è stata questa unità delle forze antifasciste?
    Qui è l’origine della crisi attuale o della lotta politica attuale. Non è vero che, essendo uniti nella lotta antifascista, noi fossimo uniti in una missione costruttrice della democrazia in Italia; se fossimo stati uniti in questa missione, non saremmo stati dei partiti politici, ma degli elementi di un nuovo partito totalitario.
    Ricordo la lotta degli elementi repubblicani in seno al Comitato di liberazione nazionale e la dialettica delle varie forze politiche, che si orientavano perché l’Italia, costituzionalmente, assumesse un determinato volto.
    Alcuni scrittori liberali del “Mondo” accusano il Partito repubblicano di sacrificare le sue idealità con la partecipazione al governo. Ma io ricordo che quegli scrittori erano i più tenaci difensori della monarchia nel Comitato di liberazione.
    Ed ancora mi voglio riferire a una recente polemica dell’onorevole Togliatti: egli era stato uno dei difensori della luogotenenza nel Comitato di liberazione nazionale. L’onorevole Togliatti è troppo intelligente perché gli si possa muovere l’accusa di essere filo-monarchico! Ma, se non avessimo noi combattuto per la repubblica, oggi avremmo in Italia uno schieramento politico tale che il nostro Paese sarebbe già condannato. Perché, se oggi ci fosse la monarchia, i repubblicani avrebbero potuto oggi prendere responsabilità di governo in difesa della democrazia nel nostro Paese? Si sarebbe visto invece un forte schieramento repubblicano, comandato dall’onorevole Togliatti, ed un forte schieramento monarchico comandato dalle forze reazionarie italiane. E le forze dell’onorevole Togliatti sarebbero state più estese di quanto non siano attualmente.
    Il consolidamento delle istituzioni democratiche repubblicane è possibile soltanto con la collaborazione di democristiani, socialisti e repubblicani. A questo proposito ricordo una polemica del 1945 con Pietro Nenni: sosteneva allora che i socialisti non si potevano disinteressare delle sorti della repubblica, e se oggi la vita della repubblica è più grave e faticosa di quanto noi pensassimo, questo non è torto del Partito repubblicano, non è un errore di Saragat, ma è un errore del Partito socialista di Pietro Nenni.
    Quanto sono artificiose le costruzioni politiche che si vogliono basare sulla così detta unità della classe operaia; la verità è che i ceti non si determinano secondo le classi cui appartengono, ma secondo i partiti.
    Il fatto è, che Togliatti pensava di dare un ordinamento all’Italia che non è il nostro e pensava di inserire il nostro paese in un ordine costituzionale, in un gruppo di paesi che noi chiamano del sistema orientale.
    Noi avevamo il dovere di lottare per il nostro ideale e di sconfiggere, politicamente – perché noi non abbiamo odii personali – coloro che volevano un tipo di Stato che non risponde alla nostra concezione.
    Se voi considerate l’attuale situazione dell’Italia dal punto di vista interno ed internazionale troverete che noi abbiamo risolto i problemi interni ed internazionali insieme con le nostre concezioni occidentali di vita. Voi non potete pensare che Mazzini, se oggi fosse materialmente in vita, come in vita è nello spirito, o Cattaneo, se dovessero essi combattere oggi preferirebbero alla repubblica democratica svizzera, o francese la repubblica cecoslovacca attuale. Quando sui giornali del fronte popolare si dice, quando l’onorevole Togliatti a me ha detto alla Camera che Mazzini non sarebbe stato nella lotta politica nell’atteggiamento dei repubblicani si dice il falso, perché Mazzini avrebbe scelto l’occidente.
    La democrazia sul terreno interno ed internazionale ha una vita difficile e dico che ancora non è consolidata nel nostro paese: e perciò quelle nazioni con le quali abbiamo affinità di civiltà e con le quali ci siamo allineati non ci possono chiedere ulteriori sacrifici. Noi non rivendichiamo Trieste perché è italiana né Gorizia perché è italiana: noi rivendichiamo il territorio libero di Trieste. Noi lo rivendichiamo in nome della democrazia, in nome delle norme del Trattato di pace, delle responsabilità che abbiamo assunto.
    Siamo contro posizioni di estremismo nazionalista, noi abbiamo preso impegni e li manterremo, ma sappiamo che se gli Stati Uniti, la Francia, l’Inghilterra per andare dietro ad un dittatore che gioca una avventura sacrificano la democrazia, avranno frutti amari da questa politica. L’Italia avrà una grave crisi e la crisi italiana, come almeno due volte nella storia, non sarà una crisi che i popoli liberi potranno facilmente sopportare.
    L’Italia ha bisogno di un socialismo democratico, e, per parte nostra, abbiamo offerto a questo socialismo una collaborazione nel raggiungimento di particolari scopi della democrazia. Siamo troppo fieri della nostra autonomia e del nostro passato e pensiamo che ogni partito deve mantenere il rispetto delle sue tradizioni; ma vi possono essere cambiamenti di politica interna ed economica che possono volere un accostamento fra repubblicani e socialisti. Si faccia, si dia l’impressione al paese che accanto alla Democrazia cristiana si costituisce una forza democratica laica! Ed allora, molti dei problemi che ci angustiano, molte difficoltà che ci tormentano, molte di queste crisi spirituali, che sono al di là dei problemi politici concreti, che sono qualcosa che è nel nostro sentimento, molti travagli di oggi sarebbero superati.
    Noi chiediamo a tutti coloro che vivono nello spirito democratico, che sentono la democrazia come esigenza profonda, di prendere le loro responsabilità e di prenderle in comune; perché, di fronte a questo grande partito che governa la vita italiana, di fronte alle forze dell’onorevole Togliatti, noi abbiamo il dovere di presentare un fronte unico. Non possiamo dilettarci, amico Silone, amici Romita e Saragat, in piccole questioni; mettiamoci intorno ad un tavolo e consideriamo questo momento decisivo del nostro paese. Sappiamo dove andare. Noi sentimmo che la formula del 18 aprile era caduta; noi sentimmo che qualche cosa doveva essere mutato. Nelle nostre conversazioni con De Gasperi, noi abbiamo presentato una alternativa governativa e democratica: o possibilità di unire Democrazia cristiana e liberali, o di unire la DC coi repubblicani e i socialisti.
    Noi non aprimmo questa alternativa perché avevamo fame di posti al governo ma perché si ponevano in quel momento dei problemi di ordine sociale e costituzionale molto difficili e complessi, perché noi dovevamo scegliere fra l’altro se fare una politica per il Mezzogiorno e una politica economica che non aumentasse il numero dei disoccupati, una politica economica più viva, meno contabile. Noi avevamo il problema del decentramento regionale e vedevamo che tutti questi problemi dovevano essere affrontati nella loro interezza.
    La crisi di gennaio fu risolta nel senso di un impegno preciso del governo per la riforma agraria, regionale e per la politica del Mezzogiorno; in pochissimo tempo il governo ha precisato i suoi punti di vista definendo un vasto e concreto programma di lavoro.
    Il progetto Segni di riforma agraria è un impegno del governo rispondente all’accordo tra i partiti della coalizione e non possono essere ammesse quindi manipolazioni, come si vorrebbe fare con il progetto di Martino. Progetto per la Cassa del Mezzogiorno: cento miliardi l’anno non sono molti, ma si è creato uno strumento nuovo, efficace, che per la prima volta affronta il problema del Mezzogiorno e quello della riforma agraria ponendoli su un piano di interesse nazionale.
    Soltanto in una situazione anormale è possibile mobilitare la campagna propagandistica in atto contro la riforma agraria, in difesa degli ottomila proprietari colpiti dal progetto Segni.
    In Italia ogni cosa nuova è un salto nel buio, tutto secondo alcuni dovrebbe restare fermo; o dovrebbe precipitare in soluzioni estreme: qui o vi è reazione o si è sovversivo. Noi siamo contro questo spirito massimalista: qui sta il significato della nostra lotta.
    La costituzione di un paese democratico è una grande battaglia, e non basta avere scritto una costituzione ed avere un presidente della repubblica, per dire che le istituzioni sono consolidate, che l’avvenire è assicurato! Questi sono tempi di ferro e di battaglia e, in ogni momento, quello che avete costruito può cadere come un castello di carta! Se noi repubblicani, e siamo i più degni, vogliamo essere fedeli allo spirito del nostro Risorgimento, se vogliamo rispettare lo spirito dei nostri padri, noi, che abbiamo avuto in consegna dal sacrificio italiano questa repubblica – vogliamo essere al governo o all’opposizione – abbiamo il dovere di difendere la repubblica e gli ideali democratici contro qualsiasi dittatura, qualsiasi totalitarismo di destra o di sinistra.


    Ugo La Malfa
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

 

 
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