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  1. #21
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    Predefinito Re: Ugo La Malfa (Palermo, 1903 - Roma, 1979)

    Al XIX congresso nazionale del PRI *





    * Sintesi (pubblicata sulla “Voce Repubblicana” del 22 gennaio 1947) dell’intervento di La Malfa tenuto il 18 gennaio al XIX congresso nazionale del PRI, svoltosi a Bologna dal 17 al 19 gennaio 1947. Al termine del congresso La Malfa era eletto nella direzione nazionale del PRI. La mozione conclusiva dei lavori protestava contro “l’imposto e iniquo trattato di pace”, faceva propri i punti programmatici definiti nel documento dell’8 settembre ’46 al momento della confluenza nel partito della Concentrazione democratica repubblicana, ribadiva l’assenza di pregiudiziali circa la partecipazione al governo. La settimana precedente si era svolto il congresso del PSIUP risoltosi con la scissione dell’ala saragattiana e la nascita di un nuovo partito socialista, il PSLI. Nenni, seguito dagli altri ministri socialisti, aveva rassegnato le dimissioni dal governo. Il 19 gennaio l’on. De Gasperi, presidente del consiglio, aveva rimesso il mandato e aperto la crisi di governo.




    Dichiaro ed affermo che do ragione all’onorevole Conti quando dice che il PRI è un partito, il solo partito di democrazia che oggi esista in Italia, che non abbia bisogno di chiamarsi socialista.
    Però devo dire all’onorevole Conti che non è affatto vero che manchi uno sviluppo di forze economiche che portino alla creazione di grande potenza economica in seno allo Stato. Io, che non sono socialista, questo lo debbo affermare. Le forze economiche si concentrano, ed una delle ragioni, a mio giudizio, della crisi europea, e forse delle due guerre, è che nella civiltà occidentale si sono formate delle potenze economiche che hanno compresso la libertà e hanno impedito lo sviluppo della democrazia; e questo è il vero problema della nostra civiltà. Sono delle forze economiche in questo senso, ed io debbo ricordare all’on. Conti un punto fondamentale: esatto quanto lui dice, che in fondo al problema della civiltà moderna, intesa in senso moderno, è la liberazione dal bisogno. Ma questa voce venne da un grande democratico che combatté le formazioni rustiche in America, da Roosvelt. Venne da una coscienza democratica e non socialista; il che vuol dire che c’è anche un problema di passaggio di certe forze e di certe potenze economiche, di una certa concentrazione di capitali nelle mani private ad altre mani. E qui io devo parlare, permettetemi, come repubblicano, come giovane, giovanissimo repubblicano, per dire una parola ai repubblicani. La parola è questa: il passaggio di una certa potenza economica dai privati allo Stato è un fatto ineluttabile della civiltà moderna e non ha nulla a che fare, non ha da confondersi con la statolatria e con il collettivismo di tipo russo.
    Da quando noi abbiamo rovesciato la monarchia e con essa abbiamo capovolto un giudizio deciso su molti aspetti della vita sociale e politica del nostro Paese, ci siamo posti in questa condizione: di avere in un certo senso una creta da modellare secondo la nostra coscienza democratica e secondo il nostro ideale democratico. Sì abbiamo una creta da modellare, abbiamo qualcosa da creare in tutti i campi perché si possa dire che la struttura del nuovo Stato democratico sia fatta. Un processo riformista potrà cominciare in quella struttura. Non possiamo essere riformisti su di un terreno sociale incerto. Noi sappiamo di essere un partito di democrazia e di popolo, di interessi popolari, di lavoratori che caratterizzano la democrazia italiana. Questo basta per la nostra coscienza democratica.
    Il socialismo, quindi, non c’entra. Quando una corrente socialista esce dall’alveo marxista, questo è un indice che si avvicina alla nostra coscienza democratica e può essere anche un indice che la nostra posizione debba essere una posizione salda e ferma, perché c’è in essa una verità fondamentale. Ma non possiamo ignorare questo aspetto, questo sviluppo dell’economia moderna. Non possiamo ignorare che lo Stato oggi prende una gran parte del risparmio nazionale e lo destina esso direttamente a scopi collettivi.
    Chi volesse pensare che la ricostruzione del nostro paese si possa fare con iniziative private o iniziative dello Stato soltanto, sarebbe fuori dalla storia attuale del nostro paese e dalle prospettive attuali del paese stesso.
    Ecco i due aspetti del problema che si pone a noi repubblicani circa il programma economico-sociale.
    Si tratta del contemperamento di due posizioni: non siamo socialisti, non siamo collettivista, ma come democratici dobbiamo contemperare due posizioni e dobbiamo sentire che dobbiamo liberare, sia pure attraverso le nazionalizzazioni e gli interventi dello Stato, dobbiamo, dunque, liberare il Paese, le libertà del Paese dal dominio di gruppi monopolistici.





    Da Ugo La Malfa. Scritti 1925-1953, Mondatori, 1988
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

  2. #22
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    Predefinito Re: Ugo La Malfa (Palermo, 1903 - Roma, 1979)

    Errata corrige

    Citazione Originariamente Scritto da Frescobaldi Visualizza Messaggio
    Tradizione repubblicana e Mezzogiorno *

    ...De Viti, De Marco...
    De Viti De Marco

    Citazione Originariamente Scritto da Frescobaldi Visualizza Messaggio
    Al XIX congresso nazionale del PRI *

    ...formazioni rustiche in America...
    trustistiche
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  3. #23
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    Predefinito Re: Ugo La Malfa (Palermo, 1903 - Roma, 1979)

    IL TESTAMENTO DI LA MALFA




    di Giovanni Spadolini



    11 dicembre 1978. Siamo alle ultime battute dell’aspra polemica per l’adesione dell’Italia al sistema monetario europeo. Il presidente del Consiglio, Andreotti, non ha ancora scoperto le sue intenzioni; è tornato pochi giorni prima da Bruxelles con qualche incertezza o preoccupazione. Gli inviti alla prudenza dei tecnici – molti avversi allo Sme, e spesso i più insospettabili – si uniscono alle riserve dei politici. L’equilibrio, già acrobatico della maggioranza di emergenza è in forse, corre sul filo del rasoio sempre più sottile. Il “no” dei comunisti non conosce più le chiazze e le riserve di qualche mese prima: anche se il termine “eurocomunismo” si è un po’ logorato, quasi appannato. L’europeismo di fondo dei socialisti stenta a esprimersi almeno nella scelta monetaria, e nelle implicazioni che ne derivano.
    Ugo La Malfa rinnova, dalle colonne della Voce Repubblicana, il suo ultimatum al governo. “Se non avremo l’adesione immediata allo Sme, le nostre strade si separeranno: la storia dirà poi chi avrà avuto ragione e chi torto”: scrive sul suo giornale, il quotidiano che poche settimane dopo dovrà sospendere le pubblicazioni, refrattario com’è a ogni aiuto o finanziamento surrettizio tipo Sipra, lasciando un gran vuoto nello statista repubblicano, abituato da trent’anni a confidare a quelle i suoi scatti, i suoi sdegni, i suoi umori e malumori. “Ma non vi ricordate di De Gasperi?”: usava dire in quei giorni Ugo La Malfa a ogni democristiano che incontrava. L’uomo non conosceva, per il suo stile schietto e altero, mezzi termini o circonlocuzioni o eufemismi. Combattente nato, lottatore indomito (era stato così, tutto d’un pezzo, con una punta di intransigenza risorgimentale, nella battaglia della Resistenza e in quella per la Repubblica) La Malfa identificava tutto se stesso, consumava tutte le sue energie per l’obiettivo che di volta in volta si prefiggeva di raggiungere. In quei giorni parlava solo di Europa. Qualche mese prima, durante i cinquantaquattro terribili giorni della detenzione di Aldo Moro, a chi lo incontrava, a chi gli chiedeva un colloquio magari per una o per l’altra questione specifica o marginale, parlava soltanto del “no” alle ipotizzate, o auspicate, trattative con le Brigate rosse, sostava sulla sofferenza che provocava in lui il non poter fare niente per la salvezza dell’amico e del collega di tante battaglie confinato nel fondo di quella prigione del popolo da cui partivano segnali enigmatici, inattendibili, contradditori. Entrambe le esperienza, quella della battaglia europea e quella dell’angoscia per il delitto Moro, tornano nel volume che la devozione dei figli e l’affetto degli amici ha realizzato nel giro di due mesi dalla sua scomparsa, quasi la drammatica chiusura di un ciclo, e che riunisce, con la testa della Voce che gli fu cara, gli scritti più significativi, fra attività giornalistica e parlamentare, dell’arco di dodici mesi, drammaticamente e quasi emblematicamente compiuti, che va dal 16 marzo 1978 al 23 marzo 1979, il giorno in cui firmò l’ultima lettera ad Andreotti, quella che accompagnava gli appunti per il programma economico del nuovo governo tripartito, rigidamente ancorati al programma triennale e all’opzione europea. Questo libro, dal titolo così patetico, così intensamente drammatico, L’avvenire che ho voluto, era nato nelle ultime tese settimane di vita dell’uomo politico repubblicano. Esattamente il 5 marzo 1979, nello studio di Ugo La Malfa, a piazza de’ Caprettari, qualcuno propone una raccolta degli scritti e degli articoli del presidente del partito anche in vista dell’ormai incombente competizione elettorale: l’ultimo tentativo serio di evitare il fallimento della legislatura, il governo a presidenza laica nell’ambito dello spirito e degli scopi della solidarietà nazionale, è stato fatto fallire dalle maggiori forza politiche, in particolare dei partiti della sinistra (che non hanno colto l’occasione storica, unica e irripetibile, almeno in questa fase della vita italiana). La Malfa non dice né sì né no: è incerto e riluttante. “Le mie pagine più rappresentative sono già riunite, un po’ nella ‘Caporetto economica’ e un po’ nell’‘Altra Italia’: a cosa servirebbe un’edizione aggiornata e integrata sia pure fino a oggi?”. Dichiara di non avere assolutamente tempo per dedicarsi a una nuova antologia; mi chiede un consiglio. Dal dibattito, cui partecipano un po’ tutti gli amici presenti, emerge un’indicazione: limitare la raccolta agli scritti dell’ultimo anno, successivi alla svolta, che anche per La Malfa è stata decisiva, del 16 marzo 1978. “A partire dal rapimento Moro”, è l’intesa che si raggiunge quella sera, dopo una scelta ben meditata. L’accordo è preciso: aprire la raccolta col discorso del 16 marzo 1978 alla Camera, quel discorso che aveva lasciato una traccia indimenticabile in chiunque l’aveva ascoltato. “Che cosa potevano colpire più in là di quello che hanno colpito? Il traguardo cui si mirava per colpire lo Stato è stato raggiunto. Abbiamo visto allontanarsi da noi una delle più alte figure della nostra vita democratica, consentitemi di dire, un personale amico…”. E’ il diario lamalfiano del dramma e della crisi dell’emergenza, quello che affiorava la sera del 5 marzo dall’incontro in piazza de’ Caprettari, frammento di storia vivente. Le testimonianze parlamentari per Moro: la rivendicazione coraggiosa del “pensiero e azione” della terza forza repubblicana, nella decomposizione di tutti i valori, nella crisi d’identità che aveva investito i grandi partiti, che aveva portato marxisti e non marxisti a interrogarsi su se stessi e sulle ragioni di fondo della propria ideologia; il rapporto fra il modello di sviluppo democratico e la collocazione della sinistra in Occidente; gli interrogativi continuamente rivolti a socialisti e comunisti, senza risposte adeguate; lo sforzo quotidiano, combattuto dopo Moro e spesso in sua sostituzione, di animare le ragioni dell’incontro di salute pubblica tra le forze costituzionali, non sul piano di una spartizione del potere, ma di un impegno rigoroso e coerente per affrontare i nodi del sottosviluppo e dell’arretratezza economica del paese, delle sue contraddizioni, delle sue ingiustizie, delle sacche parassitarie, delle strozzature e degli squilibri fra Nord e Sud. E poi tutta la battaglia, combattuta fra il marzo e il dicembre del ’78, per arrestare l’estendersi dello “Stato assistenziale”, nonostante gli impegni consacrati nel patto dell’emergenza ma poi sempre elusi o disattesi; i richiami coraggiosamente rivolti al mondo sindacale; il dialogo, pieno di fiducia, con Lama; l’impegno prodigato per l’impostazione del piano triennale di sviluppo, un piano in cui determinante era stata l’impronta di La Malfa. Il futuro teorico del “patto sociale” ritrova le sue radici nella battaglia, combattuta, giovanissimo, nelle file dell’“Unione democratica nazionale” di Giovanni Amendola: un’epserienza che sarà decisiva nella sua vita, che ispirerà tutta la sua azione di cospiratore e di statista, che alimenterà perfino, nella somiglianza formale, quella “concentrazione democratica repubblicana” che nascerà nel marzo del ’46 dalla scissione del partito d’azione, insieme con Ferruccio Parri, e che sarà destinata di lì a pochi mesi a confluire nello storico, glorioso partito repubblicano. Nel primo articolo del Mondo amendoliano, nel giugno 1926, alle soglie della integrale soppressione della libertà di stampa e di associazione da parte del fascismo, La Malfa invita la borghesia industriale, con accenti che sono insieme – una volta tanto – gobettiani e amendoliani, a non cedere alle tentazioni funeste dell’autarchia o del nazionalismo: “su un terreno sempre più concreto d’azione dovranno condurla quelle correnti di borghesia industriale – sono parole testuali di La Malfa – che comprendono come la funzione delle classi capitalistiche presupponga un regime di libertà. Negare la libertà significa per la borghesia negarsi ogni ulteriore funzione socialmente utile e legittimare l’idea socialista del parassitismo borghese”. “In questo senso – ripeto che l’articolo è scritto il 29 giugno 1926, sono già scomparsi Amendola, Gobetti, oltre Matteotti – la democrazia non è morta, come non è morto il socialismo”. “Queste correnti politiche – incalza con parole che costituiscono il filo immutabile di tutta una vita, perfino orgogliosa e altera nella sua coerenza – vogliono spingere la borghesia ad un miglioramento dell’apparato produttivo. Intenda la borghesia l’ammaestramento ed esplichi la sua funzione di classe dirigente non parassitaria”. C’era in La Malfa una base di intransigenza e di rigorismo che, nella differenza dei caratteri e delle culture, lo riportava sempre al suo primo maestro, a Giovanni Amendola. A quell’Amendola che egli aveva conosciuto poco più che ventenne. “Il fascismo, aveva detto quel ragazzo al primo e ultimo congresso dell’Unione democratica nazionale di Amendola, nel giugno del 1925, durerà vent’anni: prepariamoci a una battaglia lunga e dura”. La stessa previsione, press’a poco, di Piero Gobetti. E Gobetti aveva solo due anni più di La Malfa.




    Da G.Spadolini – L’Italia dei laici. Da Giovanni Amendola a Ugo La Malfa (1925-1980), Le Monnier, Firenze, 1980
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  4. #24
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    Predefinito Re: Ugo La Malfa (Palermo, 1903 - Roma, 1979)

    L’ossessione programmatica e la speranza nelle larghe intese


    di Andrea Manzella - "L'Unità", 23 marzo 1999



    Vent’anni fa, la sera prima del colpo mortale, Ugo La Malfa stava progettando, con il suo capo di gabinetto, Vincenzo Caianiello e con un altro amico, un giro di conferenze nelle capitali d’Europa per le prime elezioni dirette del Parlamento di Strasburgo-Bruxelles.
    Fu il suo ultimo progetto. L’idea dello “spazio politico europeo” gli era già chiara e naturale, precorrendo i tempi, al di là dei dubbi che sarebbero poi venuti dai politologi e dai giuristi. Così come aveva avuto solo certezze pochi mesi prima quando aveva minacciato l’immediata crisi di governo se l’Italia non avesse aderito al Sistema monetario europeo (che vedeva ostilità e freddezza a sinistra ma anche in Banca d’Italia). Ma che ci stava a fare Ugo La Malfa al terzo piano di Palazzo Chigi, vicepresidente del Consiglio e ministro del Bilancio di un governo Andreotti dal quale erano stati appena esclusi, con sua grave pubblica contrarietà, due ministri tecnici del valore di Romano Prodi e Rinaldo Ossola? E nel quale Bruno Vicentini aveva rifiutato di dirigere il ministero delle Partecipazioni statali? Egli, in questi ultimi giorni di combattente politico, si sentiva propriamente il garante di una formula politica che si ostinava a considerare non finita. Era la formula della “solidarietà nazionale” per la quale era stato ucciso Aldo Moro. Su di essa aveva imperniato, appena pochi giorni prima, dal 22 febbraio al 2 marzo, l’incarico, datogli da Sandro Pertini, di formare un governo (“ il tentativo La Malfa” come lo chiamò un breve libro del Mulino in cui sono racchiuse le sue riflessioni su quel febbrile negoziato). Quando rinuncerà per il cumulo di visibili errori politici e veti sotterranei che gli finì addosso, lo dirà con amara ironia parlando al Quirinale, di se stesso come d’altra persona: “L’uomo che ha sempre dato priorità ai problemi del programma rispetto alle formule, ha dovuto invertire il corso delle sue consultazioni…”. Ma la posta in gioco valeva l’inversione. Nella formula della solidarietà nazionale (come Moro, come Berlinguer) Ugo La Malfa aveva visto due cose essenziali per la rottura del muro contro muro (comunismo – anticomunismo) della prima storia della Repubblica. Innanzitutto riuscire a fare “esprimere politicamente l’energia morale che la società italiana aveva accumulato con la lotta di Liberazione e che aveva disperso con la scissione del partito d’Azione o che aveva usato in direzione sbagliata con la politica stalinista o prosovietica del Pci” (così nella celebre “intervista sul non-governo ad Alberto Ronchey nel 1977). E poi, di fronte all’aggravarsi della situazione internazionale, creare un pieno consenso nazionale sulla politica estera del paese. E’ lo sforzo che lo condurrà, nella breve stagione del compromesso storico, il Pci ad accettare in Parlamento le due scelte di fondo dell’Italia: la collocazione atlantica e l’integrazione europea. Su questo punto, con diretto appello “patriottico”, Ugo La Malfa continuerà fino all’ultimo a chiedere assicurazioni ai comunisti, ossessionato soprattutto dalla previsione del cedimento della struttura federale jugoslava alla morte di Tito. Gli risponderà significativamente Giorgio Amendola in una intervista a “la Repubblica” del 27 febbraio: “il fatto che siano scoppiate guerre in paesi diretti da partiti comunisti è sconvolgente, ed è espressione della crisi che travaglia il mondo contemporaneo. Che l’Unione Sovietica possa avere le sue responsabilità nella creazione di tale situazione è problema che non ci rifiutiamo di esaminare…”. Sono dunque ragioni “repubblicane” – nel senso alto e pregnante che la parola ha ora nella cultura mondiale – quelle che spingono La Malfa a considerare non chiusa la partita della solidarietà nazionale. Neppure dopo che il Pci ha ritenuto insufficiente una sua originale proposta di continuità istituzionale: il vertice dei partiti del compromesso storico come comitato permanente di garanzia sul governo da lui presieduto (con una specie di astensione costruttiva del Pci in Parlamento). Egli accetta dunque di entrare nel governo Andreotti che già si sa di breve durata, pur di mantenere il filo di quella formula. Ed il filo sarà – in un testa-coda con cui l’uomo rientra nella corsia che gli è naturale – il programma, la “garanzia programmatica”. La politica di solidarietà democratica non si riannoderà se non intorno ad un piano: quello stesso preparato dal governo di compromesso storico. Dirà ai sindacalisti: “E’ stata una grave iattura il venir meno della politica di solidarietà democratica. Ma in questo vuoto di responsabilità politiche, la politica di solidarietà è rappresentata proprio dai sindacati”. In questo audace progetto di sostituzione dell’accordo dei partiti con la concertazione sociale vi è la estrema duttilità dell’uomo. Ugo La Malfa è assai avvertito dai limiti pratici e concettuali della concertazione. E’ lui che ha lanciato la fulminante definizione: “L’Italia fa le riforme con spirito corporativo, quindi fa controriforme”. Ma nell’ultima stagione sembra ritornare la polemica che l’oppose alla “programmazione tecnocratica” di Antonio Giolitti, in nome appunto della concertazione tra le parti sociali: “Non basta avere gli economisti. Bisogna avere anche chi interpreta politicamente gli economisti”. Questa volta, però, i sindacati sono investiti, nella sua concezione, di un compito più alto: interpretare – o almeno non permettere che si perdano – le ragioni della svolta politica più importante, sino allora, della Repubblica. Con lui, finì dunque anche questa prospettiva che, pur lungimirante, sembrò però suonare anche come lugubre campana per la forma partito. Cominciavano infatti gli anni Ottanta ed il primato dell’esecutivo “decisionista” su partiti sempre più stanchi, sino alla crisi della Repubblica. Una crisi di cui solo gli accordi del luglio 1993, la “grande concertazione” del governo Ciampi, riuscirono ad evitare le estreme conseguenze. Vent’anni dopo è persino troppo facile cogliere il “profetismo” del pensiero lamalfiano. Era nel giusto quando denunciava il “bisogno di una conversione della sinistra dall’ideologismo al pragmatismo”. E anche quando, con analisi cui il tempo trascorso e i fallimenti riformisti hanno aggiunto fascino e suggestione, diceva che “c’è un rapporto necessario, in ogni società fra la struttura produttiva e la struttura amministrativa. Così non si possono sviluppare gli apparati istituzionali, senza tener conto della base produttiva”. E di qui la necessità di una “teoria politica coerente dei tempi di sviluppo dell’economia e della società”. Con il linguaggio d’oggi, Ugo La Malfa sarebbe un politico-intellettuale precorritore della “terza via” (o della “centunesima”, correggerebbe Dahrendorf). Con tutta la sua straordinaria capacità di “non essere nemico dell’economia (direbbe Schroeder) ma di capirla – anche nelle sue esigenze di sbocco e di governo delle crisi, quelle che non può risolvere da sola – meglio di tanti imprenditori (come già aveva dimostrato nella favolosa stagione della liberazione degli scambi).
    In una prospettiva d’oggi, nel sistema italiano che nel 1994 tumultuosamente nell’era del maggioritario e della obbligata scelta bipolare, l’uomo che aveva sempre vissuto in un regime proporzionale, con la sua armoniosa pattuglia avanzata, lungo le frontiere e le intersezioni della politica – seguendo il senso e il metodo dell’equilibrio “repubblicano” – avrebbe certo subito capito da che lato il sistema sbandava. E tutta una vita l’avrebbe condotto, senza preoccuparsi per il “suo particulare” a collocarsi, con intatta autonomia critica, dal lato opposto.
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  5. #25
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    Predefinito Re: Ugo La Malfa (Palermo, 1903 - Roma, 1979)

    Abbiamo un solo patrimonio: la tradizione morale di questo Paese, la tradizione risorgimentale che soffriamo ogni giorno. I nostri padri ci hanno assegnato qualcosa che vale più di una potenza straniera, che vale più di interessi costituiti: i valori morali che hanno fatto l’Italia.



    Forlì, 1958
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  6. #26
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    Predefinito Re: Ugo La Malfa (Palermo, 1903 - Roma, 1979)

    Ugo La Malfa al XXXIII Congresso del PRI – Roma, giugno 1978 (Parte I)

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    Predefinito Re: Ugo La Malfa (Palermo, 1903 - Roma, 1979)

    De Gasperi: un esempio di cattolicesimo liberale *

    * “L’Europeo” del 2 aprile 1953. In un’inchiesta tra uomini politici dal titolo “Processo a De Gasperi” il settimanale diretto da Arrigo Benedetti aveva raccolto dichiarazioni contro De Gasperi (Alicata, Almirante, Gasparotto e Pertini) e a suo favore (Bellavista, Giannini, Pupini, Vigorelli e La Malfa).


    Non credo che si possa dare un giudizio sull’opera di De Gasperi in questi ultimi sette anni, senza rievocare i più importanti avvenimenti politici del periodo e valutarli. Questo potrebbe essere lavoro del futuro storico, ma non mio che, occupando la posizione politica che tutti sanno, mi troverei a giudicare di una condotta politica che ho apprezzata e condivisa considerandola, date le condizioni generali di lotta in Italia, l’unica atta al mantenimento e allo sviluppo della democrazia. Potrei dirle piuttosto ciò che, a mio avviso, rappresenta la figura di De Gasperi in questo momento della vita italiana: ma si tratta di un discorso assai diverso da quello che “L’Europeo” mi chiede.
    L’aspetto più importante della personalità di De Gasperi consiste nella perfetta fusione del cattolicesimo politico con la nostra tradizione liberale e democratica. Nella fusione di queste due fedi trova fondamento la grande rappresentatività di lui, il suo valore indicativo, la sua modernità. Che la cultura e le tradizioni cattoliche abbiano trovato così modo di rafforzare le basi della democrazia italiana, rovesciando situazioni storiche, non è senza importanza anche per noi laici che, pur non riconoscendoci in quella tradizione e in quella cultura, ci sentiamo spinti a ritrovare nella profondità della coscienza quei valori universali senza i quali libertà e democrazia perdono ogni forza vitale.
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    Predefinito Re: Ugo La Malfa (Palermo, 1903 - Roma, 1979)



    Candore di Nenni? *



    * “La Voce Repubblicana” del 28 marzo 1952








    Ci eravamo da gran tempo abituati a non sorprenderci più delle tesi e degli articoli di Pietro Nenni. Ma quello di ieri in verità (“Replica a Gonella”), forse per essere straordinario nella serie, ha avuto ancora la virtù di farci trasalire e riproporre l’eterna domanda se in Pietro Nenni il candore supera la scarsa responsabilità rispetto alle situazioni politiche o viceversa.
    Dunque Nenni ammette (e non era necessario per questo invocare il giudizio di Gramsci e Gobetti) che la Democrazia cristiana rischia di sbandare a destra, ammette anche (ammissione strana per l’esponente di una coalizione di opposizione che ha fatto ricorso a qualunque arma e a ogni genere di falsità nell’attaccare i governi democratici di questi quattro anni) che oggi De Gasperi è addirittura considerato dentro e fuori del suo partito troppo liberale, cita la riforma agraria e le resistenze che solleva la paura del comunismo, e le tendenze totalitarie che provoca la questione di Trieste e il romanticismo patriottico, come elemento di appoggio verso la involuzione a destra della Democrazia cristiana, ma come rimedio a un tale stato di cose, come correttivo a una situazione che può portare in pericolo gli istituti democratici, come suo contributo politico a un’azione più responsabile e consapevole, egli offre… il mantenimento della proporzionale!
    Pietro Nenni non si domanda quanto l’atteggiamento cieco e fazioso, incomprensibile da ogni punto di vista, dell’opposizione di sinistra, abbia contribuito all’indebolimento presente delle forze democratiche, non si domanda se la politica del tanto peggio tanto meglio, che egli ripudia oggi, non sia stata la politica costante dell’opposizione socialista, oltre che di quella comunista, in questi quattro anni, non si domanda se quello sforzo riformatore, che oggi rende De Gasperi “troppo liberale”, nel giudizio di molta parte arretrata della società italiana, non meritasse qualche rispetto se non da parte comunista, da parte dei socialisti nenniani, non si domanda se la politica atlantica che le forze democratiche fanno con prudenza e con sincero spirito di pace non possa essere sostituita da una politica diversa e aggressiva, non si domanda infine come al costante e totale travisamento di tutti i fatti della recente storia italiana, si possa rimediare con un singolo atti di buona volontà.
    Ma quel che è peggio, Pietro Nenni non si domanda se il mantenimento della proporzionale non possa giovare a quelle forze di destra della vita italiana che egli a parole così bene vuole combattere. E’ qui il candore o l’insidia della sua tesi. Non è affatto vero – come egli afferma – che una legge elettorale fondata su un sistema diverso dal proporzionale sia favorita e voluta dalle forze di destra.
    E’ vero esattamente il contrario, ed è vero altresì che i partiti democratici debbono fronteggiare oggi, ad uguale titolo di pericolosità, movimenti di destra e di sinistra. E se questa nostra visione realista deve essere spinta fino in fondo, dobbiamo dire che, nonostante la compattezza mostrata dalle forze di estrema sinistra, non vi è alcun pericolo che esse conquistino la maggioranza, ma vi è grande probabilità che, senza uno stretto accordo tra le forza democratiche, la maggioranza sia conquistata da forze di destra.
    Pietro Nenni non si batte oggi, puramente e semplicemente per la proporzionale. Egli darebbe, con questa sua ultima battaglia, un suggello definitivo alla politica del tanto peggio tanto meglio, che ha così brillantemente e tenacemente seguito in questi anni. Egli ed il suo partito dichiarino una politica conseguente ai pericoli che la situazione comporta, mostrino con i fatti di volere quella difesa delle istituzioni democratiche e repubblicane che, con tante buone parole, proclamano, facciano finalmente un atto positivo di responsabilità politica.
    Le forze democratiche sapranno apprezzare il significato di un tale mutamento di politica.
    Ma pretendere, restando accuratamente lontani da ogni precisa indicazione politica, di dettare alle forze democratiche le leggi per la loro difesa contro gli assalti totalitari, è presumere troppo di sé stessi e della propria formale abilità dialettica.
    Se le forze democratiche vinceranno la battaglia del ’53, consolideranno definitivamente la repubblica e le istituzioni democratiche, poiché i benefici della politica fin qui seguita con grande sacrificio e con grande amore di patria saranno più evidenti al popolo italiano col trascorrere del tempo.
    Barattare questa chiara visione del problema fondamentale del nostro paese, con le suadenti parole (se sono solo parole) con cui Nenni accompagna la sua recentissima battaglia, sarebbe imperdonabile errore.

    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

  9. #29
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    Predefinito Re: Ugo La Malfa (Palermo, 1903 - Roma, 1979)

    Pilo Albertelli *


    * L’ “Italia Libera” n. 23 del 5 giugno 1944.


    Conobbi Pilo Albertelli in carcere, nel lontano 1928. Si era alla prima grande azione fascista contro intellettuali, per lo più giovani intellettuali. Il governo era ancora incerto se colpire spietatamente o attenuare. Preferì attenuare non senza avere prima inventato un complotto. Dopo non ebbe più scrupoli. Il Tribunale Speciale infierì e molti italiani singoli, intellettuali, operai, contadini, ne conobbero la dura e spietata funzione.
    Albertelli era giovanissimo. E già filosofo, penetrante, tormentato filosofo. La sua figura era bella, esile, fine e, insieme, fermo e severo, egli colpiva. Quel suo sguardo dolce, quel suo occhio impercettibilmente imperfetto, gli dava un fascino che la sua ricchezza spirituale aumentava. Prediligeva Kant, ma cercava irrequietamente in ogni campo della cultura. La società gli poneva problemi, e la vita morale gli dava ansia e volontà di ricerca. Fummo intimamente amici, fra una partita di scacchi e un libro di storia. Fummo amici, come si può essere in una cella in giovane età, col sogno di una vita più grande e più bella.
    Poi ci perdemmo di vista. La scuola, il lavoro ci staccarono, portandoci in giro per l’Italia. Ma Albertelli era lì, nel pensiero, italiano di un’Italia rinata.
    Il Partito d’azione ci riunì. Senza discussioni, senza motivati propositi, ci ritrovammo dove molte coscienza liberali, aperte ai problemi di una nuova vita sociale, si ritrovarono. Ci vedevamo a Roma, in una delle tante riunioni clandestine, lui silenzioso, assorto e quasi turbato, altri ricchi di passione e di azione ma sommamente devoti al suo spirito.
    Dopo l’8 settembre Albertelli visse una vita di kantiano dovere. I quartieri popolari conobbero questo giovane filosofo, questo profondo spirito critico, in giro per le case, per i magazzini, per i nascondigli a trattare armi, esplosivi, a organizzare squadre, a preparare l’azione. In questa fuzione egli cadde, come un soldato. Le squadre Caruso lo braccarono, lo presero, lo massacrarono. Albertelli, il nostro Albertelli, sofferse pene terribili. Egli sapeva moltissimo. Ma nessuno di noi ebbe un minimo dubbio che egli cedesse.
    Il 24 marzo, da Regina Coeli, dove il suo corpo martoriato lentamente riprendeva, egli veniva condotto, con gli altri, alla fossa di S. Callisto. Il piombo nazista lo fulminava.
    Ora egli non è più. Nessuno di noi può pensare a lui, senza che l’anima gli tremi. Egli era una grande coscienza, un nobile italiano. Egli portava in sé la purezza degli spiriti del Risorgimento, quel dono per cui l’Italia, avvilita che sia, non sarà mai una nazione volgare.
    L’Italia rinasce e Albertelli non è più. Daremmo noi stessi per lui. Daremmo noi stessi per quel suo sguardo dolce e severo, che ora sappiamo quanto rispecchiasse la tragedia. Ora egli non sarà più con noi. Egli ha raggiunto i Matteotti, gli Amendola, i Gobetti, i Rosselli, egli ha raggiunto Leone Ginzburg. Egli e i suoi 320 compagni di martirio hanno fermentato col loro sangue la nuova storia d’Italia.




    Da Ugo La Malfa. Scritti 1925-1953, Mondadori
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    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

  10. #30
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    Predefinito Re: Ugo La Malfa (Palermo, 1903 - Roma, 1979)

    Dal volume della collana “ Il pensiero dei padri costituenti” (edizioni Sole 24 ore) di Paolo Soddu su Ugo La Malfa alcuni documenti sugli anni fra la fine della guerra e i primi governi De Gasperi, con l' esperienza azionista e l' insediamento nel partito repubblicano. In particolare la posizione nei confronti del liberalesimo e del socialismo. Appare chiaro come identificasse la sua posizione come terza ad entrambi

    IL MANIFESTO DI DEMOCRAZIA REPUBBLICANA NELL' ANNIVERSARIO DELLA MORTE DI UGO LA MALFA (26 3 1979) | novefebbraio.it

 

 
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