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  1. #161
    Partito d'Azione
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    Predefinito Re: Ugo La Malfa (Palermo, 1903 - Roma, 1979)

    [Giovanni Conti] – Due momenti di una visione unitaria (1968)


    In AA. VV., “La democrazia repubblicana di Giovanni Conti”, Edizioni della Voce, Roma 1968, pp. 19-22.


    Ho conosciuto Giovanni Conti, per la prima volta, nel 1943, quando il Partito d’Azione era già stato fondato e lanciato nella battaglia politica italiana. Mi accompagnava, nella visita, Oronzo Reale ed il colloquio non fu dei più facili. Giovanni Conti mi si rivelò immediatamente come una forte tempra di combattente democratico, legato, di amore assoluto ed intransigente, al patrimonio, alle tradizioni, alle battaglie della scuola repubblicana e del Partito che la esprime. Io manifestavo, allora, tutta l’ansia, che fu propria del Partito d’Azione, di un rinnovamento delle forze politiche, e di una nuova e più moderna impostazione dei problemi della società democratica. Oronzo Reale, che aveva già aderito al Partito d’Azione, doveva costituire il legame tra le due posizioni.
    Il colloquio, tuttavia, non ebbe successo, e non ebbero neanche fortuna i successivi ripetuti tentativi, fatti sempre da me e Reale, di legare e unificare le due esperienze, la tradizionale e la innovatrice, e soprattutto la grande presa politica che, attraverso la Resistenza, il Partito d’Azione si era conquistata soprattutto nell’Italia settentrionale, e la grande presa politica che il Partito repubblicano italiano manteneva nelle zone tradizionali dell’Italia centrale-meridionale, oltre che nella Romagna. Vi furono, al riguardo, irrigidimenti in quella parte del Partito d’Azione che guardava al socialismo e irrigidimenti anche da parte di repubblicani (anche da parte di Conti) che diffidavano del nuovo partito e si ritenevano fermamente legati alla tradizione. E fu un gran male, poiché della creazione di un grande e forte partito democratico che non fosse ideologicamente né socialista né liberale, furono allora perdute le possibilità, ed è ora assai faticoso recuperarle, senza un prolungato, vasto e robusto sforzo.
    Dissoltosi il Partito d’Azione, la confluenza di una parte degli azionisti, fra cui me e Reale, nel Partito repubblicano fu più che naturale, ed il problema di saldare le due esperienze si pose all’interno del Partito stesso. Debbo sinceramente ammettere che, nonostante il grande e forse decisivo apporto dato dal Partito d’Azione alla battaglia istituzionale, uno stato di quasi gelosa preoccupazione continuò a perdurare in Giovanni Conti, fin quasi alla soglia degli ultimi due anni della sua vita. E si sciolse soltanto quando egli comprese che non era il problema del potere o del governo, quello che più impegnava le energie provenienti dall’azionismo, ma il problema dello sviluppo della vita democratica del nostro Paese, fondato sulla doppia esperienza vissuta ed elaborata dalla corrente democratica del Risorgimento e dai suoi continuatori, l’esperienza appresa dalle grandi civiltà democratiche più avanzate dell’Occidente, dal corso storico delle quali il fascismo ci aveva isolato.
    Mi si lasci dire che il punto di saldatura fra la grande coscienza democratica, fondata sulle dottrine della scuola repubblicana, di Giovanni Conti e una coscienza democratica, profondamente presa da quella tradizione, ma anche dalle indicazioni che le società democratiche moderne erano andate fornendo, fu raggiunto proprio in quel momento. Ed è stato un irreparabile danno per la democrazia, e per il Partito repubblicano italiano, che Giovanni Conti avesse abbandonato la vita proprio in quegli anni. Una piena e intensa collaborazione, per lungo tempo ancora, sulla base dell’integrazione delle due diverse esperienze di vita, avrebbe dato alla democrazia e al Partito frutti ben più vasti e copiosi di quelli che, in diversa e più difficile condizione, si sono potuti raccogliere.
    In che consisteva, di fatto, l’esigenza di saldatura fra le due esperienze? Nessun uomo, più di Giovanni Conti, è riuscito a vivere le strutture dello Stato democratico, la vita stessa di una società democratica, quale il pensiero repubblicano era andato elaborando, come lui li viveva. Lo Stato, il Comune, la Regione, erano da Giovanni Conti concepiti, non come centri di potere e di comando, ma come organizzazioni di vita collettiva, al servizio dei cittadini, come amministrazione stessa operata dai cittadini, e da questa concezione fondamentale discendevano le configurazioni concrete degli istituti, quali egli, con Zuccarini, fece valere alla Costituente. Ma quando a questi istituti bisognava dare un compito, che fosse anche economico e sociale, nel significato più proprio di questa espressione, istintivamente il suo interesse si rivolgeva al liberalismo economico, come a quella concezione che gli pareva garantirlo contro le degenerazioni parassitarie dell’esercizio della funzione pubblica.
    L’altra esperienza diceva che la società moderna non può risolvere i problemi di una democrazia economica attraverso il puro liberismo economico. Bisognava che gli istituti democratici non evadessero il problema di un indirizzo da dare alla vita economica e sociale, ma si arricchissero di nuovi compiti, non per opprimere i cittadini, o per ampliare zone di potere discrezionale, ma per assicurar loro una maggiore ricchezza di vita economica, sociale, culturale. Il passaggio da una semplice concezione autonomistica dell’organizzazione dello Stato e della società a una concezione autonomistica nel quadro di una visione globale dei problemi (dei quali è espressione moderna la programmazione), ha rappresentato grosso modo, il passaggio che Giovanni Conti non poteva ovviamente compiere ai suoi tempi e con la sua esperienza, ma della cui necessità egli cominciava ad essere convinto. Naturalmente si tratta di un passaggio fra i più difficili, nel quale si rischia o di rimanere nel vecchio principio autonomistico, senza comprendere il valore innovativo di una visione globale dei problemi, o di saltare a piè pari ad una visione globale dei problemi di carattere autoritario, dimenticando il principio autonomistico e di espressione di volontà alla radice, che costituisce la base stessa del vivere democratico.
    Quei molti anni, nei quali la presenza viva di Giovanni Conti poteva servire a legare sempre più intimamente e con forte apporto critico le due esperienze, oggi fondamentali per il Partito, ci sono sfortunatamente venuti a mancare. Ma per chi deve vivere nel mondo attuale, con i problemi estremamente complessi e talvolta contraddittori che esso ci mette dinanzi, la presenza di Giovanni Conti, col patrimonio di idee della scuola repubblicana, quasi contenuto in un denso e concentrato breviario, è lì ad ammonirci. Ad ammonirci di non fare salti nella storia, e di legare la gloriosa esperienza del passato alle ferree necessità del presente, nella coscienza del divenire stesso del pensiero democratico.


    Ugo La Malfa


    https://www.facebook.com/notes/ugo-l...1796282309362/
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    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

  2. #162
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    Predefinito Re: Ugo La Malfa (Palermo, 1903 - Roma, 1979)

    Lettera agli iscritti (1972)


    “La Voce Repubblicana”, 20-21 luglio 1972


    Cari amici,
    nella Direzione del Partito, che si riunì all’indomani delle elezioni politiche, ebbi a dichiarare che la fase politica che aveva portato il PRI dai quattro parlamentari del 1964 ai quindici deputati e cinque senatori del 1972, si poteva considerare esaurita. In questo periodo, che ha coinciso col periodo nel quale sono stato chiamato dalla volontà dei repubblicani a reggere la segreteria politica, l’espansione del Partito avrebbe potuto essere maggiore, se alcune circostanze come l’unificazione socialista (e non la seconda scissione) fossero perdurate. Comunque, un risultato quantitativamente e anche qualitativamente era stato raggiunto, e ciò rappresentava il consuntivo dell’azione svolta, e quindi il consuntivo della mia azione personale come segretario politico del Partito. Ho aggiunto, in occasione della stessa Direzione (ciò che ho ripetuto più o meno al Consiglio Nazionale) che il periodo in certo senso più facile e meno controverso della politica del Partito si poteva considerare chiuso e che, dalle elezioni in poi il Partito sarebbe entrato in una condizione assai più difficile e travagliata.
    Vale la pena che accenni alle condizioni che avevano reso meno travagliata la politica del Partito dal 1964 in poi. In sostanza, in tutto questo periodo, il Partito ha offerto agli altri partiti, e all’opinione pubblica, un modello di politica di centro-sinistra, di politica di sviluppo, di programmazione e di riforme, completamente alternativo a quel non modello che le altre forze di centro-sinistra andavano, giorno per giorno, concretando. E questo modello alternativo, oltre ad essere compreso dalla parte dell’opinione pubblica più illuminata, si andava rivelando il solo capace di evitare la crisi economica, finanziaria, sociale e anche istituzionale che si andava profilando all’orizzonte della nostra vita nazionale. Chi considera quello che i repubblicani hanno detto o scritto, sugli errori del centro-sinistra, dal 1964 in poi, e considera la drammaticità e l’acutezza della crisi che oggi si manifesta nel Paese, può stabilire come la politica di centro-sinistra avrebbe avuto ben diversa sorte e quanto la condizione del Paese sarebbe stata diversa e incomparabilmente migliore, se le indicazioni repubblicane fossero state seguite. Disgraziatamente i nostri suggerimenti e le nostre proposte sono state troppo spesso ignorate, e le conseguenze non potevano non essere quelle che sono state.
    In sostanza, dal punto di vista politico, abbiamo assistito alla crescente incapacità delle due maggiori forze che dovevano sorreggere la politica di centro-sinistra, la DC da una parte, il Partito socialista unificato dall’altra, di avere una strategia adeguata agli impegni assunti. Le lotte di potere, ammantate da contrasti ideologici del tutto epidermici, le questioni di puro schieramento, l’annebbiamento che ogni lotta di potere ed ogni questione astratta produce, rispetto alla necessità di vedere chiaro nella situazione del Paese, hanno accelerato una crisi che poteva esser evitata. Ed il PRI, non solo ne ha registrato puntualmente i momenti, come ha avuto modo di dimostrare nel discorso sulla fiducia al governo Andreotti, ma sempre ha cercato, con proposte concrete, di evitare che si andasse verso il peggio. Gli ammonimenti al gruppo dirigente della DC, alla sinistra democristiana sono ben noti. E sono noti anche gli avvertimenti al PSI. Quando questo partito si è scisso, il PRI, antivedendo le conseguenze di tale scissione, ha offerto un patto federativo al PSI e al PSDI, patto federativo che fu rifiutato allora e sembra essere quasi rimpianto oggi, se l’accostamento fra Saragat e De Martino ha un senso. De Martino è passato dalla teoria degli equilibri più avanzati alla rivendicazione dell’autonomia del suo partito e Saragat, dopo avere voluto la scissione, sembra oggi volere il contrario. Infine l’anziano senatore Nenni, respinto ieri dalle due parti, sembra rappresentare, sia per De Martino che per Saragat, una posizione di possibile riferimento.

    L’INCONCEPIBILE ostinazione, più sopra sommariamente descritta, nel perseguire una strada sbagliata, non solo ha prodotto la grave crisi nella quale il Paese è immerso, ma ha avuto conseguenze politiche assai gravi: ha rimesso in gioco forze che si consideravano ormai relegate all’opposizione, come il Partito liberale e ha fatto rinascere una presenza politica e una minaccia fascista, che erano del tutto sparite nella coscienza dell’opinione pubblica nazionale. Se gli avvertimenti del PRI fossero stati compresi in tempo, ciò non sarebbe avvenuto. Non compresi in tempo, la politica di centro-sinistra ha aperto la strada ad altre soluzioni politiche e soprattutto a minacce pericolose come quella del Movimento sociale italiano. È toccato ancora al PRI prendersi carico di questa nuova e pericolosa situazione, nella assoluta cecità e inconsapevolezza delle altre forze di centro-sinistra. La crisi del governo Colombo e l’ottenimento delle elezioni anticipate, costituirono l’atto politico responsabile del PRI per far fronte alla minaccia missina, ma furono anche l’occasione per la DC di una ripresa, che la sua condizione interna non le avrebbe consentito senza l’iniziativa repubblicana. I repubblicani per molti anni hanno cercato di salvare il centro-sinistra e non vi sono riusciti. Hanno cercato di salvare almeno le ragioni della democrazia contro la minaccia fascista e vi sono, almeno temporaneamente, riusciti.
    Quando il PRI giudica se stesso deve avere consapevolezza piena di quello che ha fatto, e di come ha operato in questi anni. Altrimenti si rischia di commettere gli errori di errata valutazione e di improvvisazione di cui altri partiti sono gravemente responsabili.

    È COMPRENSIBILE che, nel momento in cui gli errori della politica di centro-sinistra creano la possibilità di nuovi schieramenti, i repubblicani si trovino in difficoltà. Ma essi devono avere consapevolezza che hanno fatto di tutto per evitare quello che sta avvenendo. Sono certe correnti della DC ed è il PSI a portare la responsabilità di avere aperto la strada a nuovi schieramenti. Non è certo il PRI, che ha fatto di tutto per evitare ogni alternativa e per rendere “credibile” e seria la politica di centro-sinistra.
    Quando alcuni repubblicani, perciò, dopo le elezioni, hanno affermato che rivolevano la politica di centro-sinistra, non hanno considerato che riproponevano una formula che socialisti e certe correnti della DC avevano reso del tutto ostica a larga parte dell’opinione pubblica del Paese. Prima delle elezioni anticipate, si poteva correggere la politica di centro-sinistra e l’opinione pubblica avrebbe seguito con fiducia la revisione. Dopo le elezioni, il riprodurre la formula di centro-sinistra, avrebbe significato, per molti italiani, tornare alla vecchia politica, quindi ai vecchi errori, facendo ritenere inevitabile il collasso definitivo della società italiana. Lo sforzo fatto dai repubblicani, con la loro polemica sul piano Giolitti, era stato quello di presentare questo piano come garanzia di politica nuova. Avere detto, da parte socialista, che i repubblicani ne alteravano il contenuto, e ne facevano una interpretazione di comodo, è stata l’ultima occasione mancata dai socialisti per evitare quello che ineluttabilmente sarebbe avvenuto. La DC, consapevole di essersi salvata in corner dalla minaccia fascista, non sarebbe tornata facilmente alla stessa formula, e l’insistenza dei socialisti per tutta la campagna elettorale sulla assurda teoria degli equilibri più avanzati, teoria priva di ogni seria motivazione, ha facilitato il compito della DC. Agli errori passati si sono aggiunti questi ultimi errori, così da accelerare la svolta verso nuove situazioni.
    IL PRI, DOPO le elezioni, si è trovato di fronte a gravi problemi. Esso aveva acquistato voti e credibilità sulla base della presentazione all’opinione pubblica di una politica di centro-sinistra diversa da quella che era stata condotta in tutti gli anni passati. Esso non aveva nessuna carta per dire che avrebbe potuto ottenere, dagli altri partiti di centro-sinistra, una politica diversa da quella che è stata effettivamente condotta. I repubblicani che si riferiscono all’ultimo Comitato centrale del PSI per dire che qualcosa è mutato, non valutano evidentemente qual è la condizione attuale dell’opinione pubblica e qual è la condizione delicata del Partito. Dal 1953 in poi, il Partito si batté per una politica di centro-sinistra e quindi porta gravi responsabilità per quello che è avvenuto nel Paese. Esso ha suggerito tempestivamente una politica meno occasionale di quella concretamente svolta; ma non può tornare a dichiarare di volere un centro-sinistra, senza garanzie certe da offrire all’opinione pubblica. Legarsi per la seconda volta ad una formula, dopo aver detto che la prima formula era fallita, significa non comprendere nulla della funzione che il PRI ha avuto presso l’opinione pubblica. Significa giocare con leggerezza ed in un giorno la “credibilità” del Partito, costruita con anni di duro lavoro. In ogni modo il Segretario politico non può assumersi la responsabilità di una seconda indicazione senza le dovute garanzie. Il Paese è sull’orlo dell’abisso: minaccia di uscire dall’Europa, come suo ordinamento di fondo, senza sapere dove esattamente, come struttura politica economica e sociale, possa andare a collocarsi. Non si può chiedere, a uomini che hanno voluto portare il proprio Paese ad una democrazia avanzata di tipo occidentale, che essi assumano la responsabilità di proporre una formula che ha fatto regredire, e non progredire il Paese.

    NELLA SUA responsabilità, valutando tutte le circostanze, il Segretario politico, dopo le elezioni, ha proposto alla Direzione un governo di salute pubblica, in cui fossero presenti tutte le forze democratiche, e che rispondessero allo stato di emergenza del Paese. Questa formula, poi accettata dalla DC, avrebbe impedito ogni scelta tra centrismo e centro-sinistra, formule ormai superate, e avrebbe dato la possibilità ai socialisti di uscire dalla situazione in cui si erano cacciati. Unita all’altra formula, della presenza dei segretari politici al governo, avrebbe consentito il rinvio dei congressi, in cui altre gravi lacerazioni si produrranno e altre impossibilità di definire ed attuare chiare linee politiche.
    Se si guarda ai possibili svolgimenti del futuro, al rapporto nuovo e probabilmente non più scindibile creatosi fra DC e PLI, può apparire evidente che ancora una volta i repubblicani hanno visto chiaro nel futuro, e hanno saputo trovare tempestivamente la formula che avrebbe potuto salvare la politica di centro-sinistra dal suo insuccesso. Nella lettera a Mancini, prima del Comitato centrale del PSI, è stato chiarito che, tenendo fuori dalla maggioranza i liberali, si sarebbe costretto l’on.le Malagodi a definire il centro-sinistra come il vecchio centro-sinistra, e ciò avrebbe dato ulteriore spazio politico al MSI, facendo avallare la sua propaganda da una forza moderata, ma democratica, come il PLI, mentre occorreva isolare il MSI nella sua opposizione di destra. Comunque la scelta dei liberali è stata fatta, già prima delle elezioni, dai democristiani, non da noi e non avevamo alcun mezzo per impedirla. Si tratta di vedere se la DC ha fatto una scelta definitiva o no. Se è scelta definitiva, e noi abbiamo il sospetto che sia tale, il problema di come disimpegnarsi dai comunisti, pur non trovando più base d’accordo con la DC, diventa un grosso problema del PSI.

    IN RELAZIONE ad una situazione così difficile, percependo un certo stato d’animo del Partito, ma anche un’attesa dell’opinione pubblica verso il PRI, l’attesa di una sua diretta assunzione di responsabilità per il superamento della crisi (abbiamo detto durante le elezioni che saremmo andati al governo), dopo che si è respinto il governo di emergenza, ho proposto al Consiglio nazionale la formula che poi è stata approvata: partecipazione alla maggioranza in sostegno del governo Andreotti, senza partecipazione al governo, e formula aperta verso il PSI. È il massimo che si poteva fare, per tenere conto delle perplessità del Partito senza trascurare le attese dell’opinione pubblica. Faremo di tutto per far maturare in senso positivo la condizione di attesa in cui ci siamo posti, senza peraltro mancare di lealtà verso il governo Andreotti, di cui pur vediamo tutti i punti deboli. Ma non ci daremo a improvvisazioni o a speranze cervellotiche.
    Ho il dovere, infatti, di dire che, con la soluzione scelta, si sono salvate alcune ragioni essenziali del Partito, ma si è già perduta credibilità in parte dell’opinione pubblica. Se si facessero le elezioni politiche nei prossimi mesi, non prenderemmo certamente più i voti che abbiamo preso nel maggio 1972. Comunque, si è lasciata la via aperta verso il futuro. Ma questo futuro, il PRI deve sapere far maturare e valutare con grande senso di responsabilità. Se il terreno su cui il Partito intende muoversi non si dimostra un terreno solido, esso rischia di perdere in un giorno tutto quello che faticosamente ha guadagnato in questi anni. Il PSI – a mio giudizio – è in una situazione grave, dalla quale non gli sarà facile uscire. Il PRI può avere la stessa sorte, mentre più sicuro, dal suo punto di vista e per la politica che lo contraddistingue, appare il PSDI, che prende atteggiamenti ben concreti e lascia al solo senatore Saragat il compito dell’avanscoperta.

    LE SOMMARIE considerazioni che ho esposto hanno inteso dimostrare che quello che oggi non ci piace, non è stato determinato da noi, ma dai gravi errori altrui, di cui paghiamo le conseguenze. Si tratta di non pagare a troppo caro prezzo tali conseguenze. La via agevole di raccolta di consensi è finita per sempre. Il Partito – ripeto – può perdere, per i suoi errori, quello che faticosamente ha guadagnato in questi anni. Alcuni repubblicani, inconsapevoli di quello che ha voluto dire essere rappresentati da quattro deputati in Parlamento, intendono giocarsi la posizione attuale del Partito, con atteggiamenti e decisioni che sanno di improvvisazione e di poco meditata valutazione. Se il Partito dovesse avere un secondo grave declino elettorale, occorrerebbero molti e molti anni per riprendere l’ascesa. E non è facile trovare gli uomini e le energie per un secondo duro sforzo.
    Il Partito, da oggi in poi, come ho detto all’inizio, avrà una vita difficile. Dovrà avere una politica accorta e lungimirante, per rendere meno difficili i suoi giorni. Chiedo, quindi, che questa circolare interna sia valutata da tutti gli iscritti e da tutte le organizzazioni. Chiedo che ad essa ciascuno risponda con le argomentazioni di consenso o di dissenso che intende adottare. Alle argomentazioni di dissenso o di dubbio, intendo rispondere con un secondo documento. Ma per ciò fare, occorre che la discussione su questo primo documento sia chiara ed esauriente.


    Ugo La Malfa – Roma, 20 luglio 1972



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  3. #163
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    Predefinito Re: Ugo La Malfa (Palermo, 1903 - Roma, 1979)

    Una grande sinistra (1958)


    “Politica”, a. IV, n. 10 dell’1 maggio 1958


    Credo che sia sfuggito alla maggior parte degli osservatori politici il significato profondo della crisi ideologica e politica che, da qualche anno, investe tutto lo schieramento italiano di sinistra. Partendo dai quadri dirigenti, intellettuali e politici, del Partito comunista, tale crisi ideologica passa attraverso i due partiti socialisti; investe la formazione repubblicana e radicale e getta i suoi riflessi sugli stessi cattolici di sinistra. Ed essa pare avere un solo implicito significato: in quali condizioni ideologiche e politiche la sinistra può, per la prima volta, partecipare essa stessa, e far partecipare le masse popolari che rappresenta, alla vita dello Stato repubblicano, democratizzandolo e trasformandone, secondo i dettami della Costituzione, gli istituti politici e la struttura economica e sociale?
    La sinistra italiana non ha una brillante storia. Sconfitta nel Risorgimento, divenuta trasformistica nel post-risorgimento, con l’avvento del socialismo marxista si è divisa in due grandi tendenze: la massimalistica, che ha registrato più sconfitte che vittorie e si è assunta pesanti responsabilità di ordine storico; la riformistica che, abile e costruttiva sul terreno delle conquiste sindacali, salariali e previdenziali, non ha saputo mai incidere sulla struttura dello Stato e sui grandi problemi della vita collettiva. La costituzione e l’affermazione del Partito comunista dovevano rappresentare lo sbocco della crisi della sinistra, dandoci un partito moderno, anche se di formazione ideologica totalitaria. Ma l’esperienza di questi anni ha dimostrato che il Partito comunista, riformistico o massimalistico che fosse nella tattica, non aveva possibilità di dare, proprio per la sua natura ideologica totalitaria, un concreto sbocco alla sua azione politica.
    Sicché, dopo il fallimento di quel Partito comunista, che doveva rappresentare il superamento delle posizioni massimalistiche e riformistiche del socialismo marxista, siamo tornati a non avere più gli strumenti politici idonei ad una politica di sinistra. Esistono tuttora, con estese masse organizzate, il Partito comunista, il Partito socialista, il Partito socialdemocratico, esistono i radicali e i repubblicani, esistono i cattolici di sinistra. Ma che esista una sinistra capace di spostare concretamente e rapidamente l’asse della vita politica e sociale italiana, nessuno può onestamente sostenerlo.
    D’altra parte, se la sinistra, nelle sue varie e successive incarnazioni politiche, dal Risorgimento in poi, è fallita, noi dobbiamo considerare lo stato di disgregazione ideologica attuale e la confusione e la debolezza politica che ne sono conseguenza, come un elemento positivo della situazione. Se la sinistra, forse per molti anni ancora, non potrà porsi concreti obiettivi politici, il suo travaglio ideologico potrà finalmente consentire la costruzione di una formazione politica che senta tutti i problemi dello Stato e della società moderni come essi realmente si pongono, secondo un pensiero dottrinario e un’esperienza per tanti decenni estranei alla cultura del nostro Paese. Indicativo di questa ricerca ideologica aperta sono le diverse posizioni che i comunisti usciti dal partito, come Giolitti, come Onofri, come Calvino, come Muscetta, come Eugenio Reale, come altri, vanno assumendo nella pubblicistica di sinistra. Ma il fenomeno non si ferma agli ex comunisti, poiché gli stessi fermenti di nuova ricerca ideologica li troviamo fra i socialisti e i socialdemocratici, fra i radicali ed i repubblicani, e fra gli stessi cattolici di sinistra.
    Il problema concreto che sta sorgendo, sul terreno ideologico e politico, è come debba operare una grande formazione di sinistra per incidere sulle strutture politiche, economiche e sociali del nostro Paese, tenendo conto dei dati storici costitutivi della società italiana, del suo inserimento in un dato ambiente di civiltà, del carattere peculiare delle forze che si vogliono combattere. Un ripensamento, quindi, del problema italiano, secondo nuovi dati e nuove esperienze, con superamento di tutte le posizioni, dottrinarie e politiche, con cui i partiti di sinistra l’hanno finora affrontato.
    Bisogna guardare a questo travaglio, che ci porterà lontano, con estremo interesse e con acuta attenzione. La sinistra italiana non ha mai partecipato alla vita dello Stato, appunto perché i suoi presupposti ideologici e politici, e l’esame storico che essa faceva della società nazionale, erano così erronei, da non consentirle una cosciente e positiva azione politica. È la prima volta che la sinistra si pone in termini concreti e realistici il problema della conquista democratica dello Stato. Collaboriamo, con tutte le nostre forze, al processo di revisione e alla nuova costruzione.

    Ugo La Malfa



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  4. #164
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    Predefinito Re: Ugo La Malfa (Palermo, 1903 - Roma, 1979)

    Il primo passo per la concentrazione laica (1955)

    Sintesi del discorso di chiusura della campagna elettorale tenuto a Palermo il 2 giugno, pubblicata su “La Voce Repubblicana”, a. XXXV, n. 133 del 4 giugno 1955.

    L’Alleanza socialdemocratico-repubblicana è la prima attuazione di quella concentrazione laica di sinistra, che proposi ai partiti della sinistra democratica fin dal 1951.
    La Dc deve assumersi la responsabilità di dare un programma e un indirizzo politico al Paese, senza rifugiarsi o nell’alleanza con le forze di destra, come fa in Sicilia, o nell’alleanza con le forze democratiche laiche, come fa al centro. L’onorevole Scelba a Caltagirone ha detto che in Sicilia si è fatto il governo con la destra perché non vi era alternativa, mentre a Roma, esistendo l’alternativa di centro, il governo con le destre va respinto. Con questa concezione il governo di centro non deriva da un’intima vocazione della Dc, ma dal fatto che l’esistenza di un’alternativa democratica non trova unita la Dc in una scelta di destra.
    Per questo auspico la fine della formula quadripartita e il passaggio dei repubblicani, dei socialdemocratici e dei liberali di sinistra alla opposizione. La crisi del Pci, resa ancora più evidente dall’episodio Vitali, e la posizione autonoma presa dal Psi, rendono necessaria la costituzione di una opposizione laica di sinistra, che assuma posizione critica rispetto alla Dc e difenda tutti i maggiori problemi, da quelli della cultura ai problemi della scuola e della vita dello Stato.
    Per quanto riguarda le elezioni siciliane, non si tratta di creare a Palermo un secondo governo con i poteri accentrati e burocratici che hanno contraddistinto l’attività del governo nazionale, ma si tratta di vivificare tutte le energie locali. L’autonomia ha significato e valore se riesce a interpretare i bisogni dei piccoli Comuni rurali, se, resistendo alla tentazione di arricchire la capitale siciliana di grosse e più o meno belle opere, riesce a dare scuole, strade e abitazioni decenti alle popolazioni rurali che ancora oggi vivono in misere borgate.
    La riforma agraria, e la liberalizzazione degli scambi, combattute dalle forze di destra hanno rappresentato per il Mezzogiorno la possibilità di avere mezzi e beni strumentali a buon mercato. La legge sui petroli, oggi in discussione, risponde alle insufficienze della legge attualmente in vigore, ferma restando la necessità che nel Centro-Sud si attui, nella ricerca e nello sfruttamento delle risorse petrolifere, un effettivo regime di libera e piena concorrenza.

    Ugo La Malfa


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  5. #165
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    Predefinito Re: Ugo La Malfa (Palermo, 1903 - Roma, 1979)

    Impressioni di Sicilia (1955)

    “La Voce Repubblicana”, a. XXXV, n. 140 del 12 giugno 1955. Con il voto del 5 giugno in Sicilia la Dc aveva registrato un notevole successo, passando dal 36,4 per cento al 38,6 per cento e ottenendo 37 seggi. L’Alleanza tra repubblicani e socialdemocratici aveva ottenuto il 3,1 per cento e due seggi.

    Le elezioni regionali hanno dato occasione alla stampa di dedicare una certa attenzione ai problemi siciliani e ai progressi che l’isola ha compiuto in questi ultimi anni. D’altra parte, la vittoria democristiana è stata messa in relazione sia con la politica di rapide realizzazioni condotta dai governi nazionale e regionale, sia col nuovo linguaggio fatto di cose concrete, col quale si parla ormai nell’isola. Da qui molte scoperte e molti osanna. L’isola sarebbe ormai entrata in una fase di rapide e decisive trasformazioni, in una sorta di rivoluzione che ne muterebbe la fisionomia economica e sociale.
    Estremo fautore di una politica per le aree depresse e della Cassa del Mezzogiorno, sono tornato anch’io, nell’isola, con l’ansiosa aspettativa di notarvi modificazioni radicali e profonde. Conosco troppo bene la condizione siciliana fin dall’infanzia, ho rivisitato la Sicilia quasi completamente durante la battaglia istituzionale, per non essere in condizione di misurare sufficientemente il grado dei progressi compiuti.
    Debbo confessare che sebbene le cifre parlino chiaro, e accanto ai chilometri di strade si possano allineare i chilometri di acquedotti costruiti o le migliaia di aule scolastiche, l’impressione generale e l’analisi di situazioni particolari mi han portato a conclusioni tutt’altro che ottimistiche. Vi è in Sicilia, specialmente nelle zone interne, e nei piccoli comuni rurali, una situazione di arretratezza, di miseria, di “inciviltà”, che poco si differenzia – ripeto – da quella che per anni ho conosciuto. E, sebbene la politica per le aree depresse sembri da Roma un fattore innovativo estremamente importante, collocato nel mare della miseria e dell’arretratezza del Mezzogiorno, essa si perde. Quando non diventa una qualsiasi politica di lavori pubblici, e per giunta assai poco coordinata e fortemente dispendiosa.
    Prendiamo le strade. Certamente il sistema stradale costiero è ottimo e bello. Ma proponetevi di fare la strada che da Palermo conduce a Caltanissetta, e troverete modo di domandare all’Azienda statale e alla Regione perché tale strada sia lasciata in così pessime condizioni, nel pieno della stagione primaverile. La stessa impressione ricevete recandovi da Agrigento a Palermo, soprattutto se scegliete la via di Sciacca. Quando udite parlare della necessità di costruire un’autostrada fra Palermo e Catania, affrontando miliardi e miliardi di spese, e riflettete alla possibilità di impiegare questi miliardi per migliorare la rete stradale esistente, avete una prima idea della megalomania che affligge il nostro Paese, anche quando deve affrontare problemi seri come quelli del Mezzogiorno.
    Le strade costiere sono belle, dicevo, e magnifica è la strada Palermo-Messina. Ma a poco più di 80 chilometri da Palermo, abbandonate la costa e prendete la strada (pessima) per Sciara. Passerete da un mondo all’altro: dalla civiltà alla desolazione più nera. Sciara è in condizioni spaventose di abitabilità, di strade, di fognature, di vita. E se a Sciara si può ancora uccidere un socialista, che combatte per dare una vita dignitosa ai suoi simili, vuol dire che non molto è stato cambiato nei costumi e nell’ambiente sociale, oltre che economico, dell’isola.
    Ma procediamo. È vero che ad Agrigento è stato costruito un acquedotto, si è speso oltre un miliardo, e l’acqua non è stata poi trovata?
    Ma abbandoniamo Agrigento e rechiamoci a Prizzi. Prizzi è un comune a mille metri di altitudine, sulla strada che da Palermo porta ad Agrigento. Le condizioni di fognatura e di viabilità di questo comune sono tuttora miserande. Le acque di scolo corrono per le strade in molte zone del paese, e quando sopraggiunge l’inverno, è difficile transitare per le cosiddette vie cittadine. Ebbene, a Prizzi, non so se a cura del ministero della Pubblica istruzione o della Regione, è stata costruita un’ampia scuola. È il primo segno di una civiltà che sopravviene. Ma – ed ecco l’incredibile – la scuola è stata costruita senza impianto di termosifoni. Prizzi – come dicevo – è a mille metri, su un cocuzzolo, nel mezzo di un vasto e meraviglioso paesaggio naturale. D’inverno, è impossibile per i bambini stare in aula senza riscaldamento. Gli abitanti ancor prima che il progetto fosse eseguito hanno implorato, tempestato, perché si colmasse la lacuna. Ma la scuola, in ossequio al detto che il principe non può sbagliare, è nata senza termosifoni.
    A Prizzi sono stati anche costruiti alcuni appartamenti dall’Ina-Casa. In verità, se qualcuno si fosse occupato seriamente di quello che c’è da fare in ogni comune, avrebbe, a Prizzi, prima rifatto le strade e le fognature, e poi la scuola e gli appartamenti dell’Ina-Casa. Ma accettiamo pure l’ordine di priorità come il caso ce l’ha segnalato. Sebbene continuino a mancare le fognature, Prizzi può consolarsi con le case Ina. Ma dove sorgono queste belle case? Nella parte più scoscesa del paese, dove non esistono strade, dove si ha un vero e proprio letamaio, in saliscendi. Nessuno potrà andare ad abitare quelle case, se lo scoscendimento, fatto di detriti, non sia ridotto a sistema stradale. E qui comincia il palleggiamento di competenze e responsabilità: a chi spetta fare le strade e le fognature? Al Comune, alla Regione, all’Ina-Casa, alla Cassa del Mezzogiorno, al Ministero dei lavori pubblici? Non so entrare in questo labirinto. So che si fanno scuole, a mille metri, senza termosifoni, case senza strade circostanti.
    L’esemplificazione potrebbe continuare. I piccoli e medi Comuni rurali dell’isola continuano a essere in condizioni di arretratezza insopportabili in qualsiasi altra regione d’Italia, che non sia la Sicilia, la Calabria, la Sardegna o la Lucania. D’altra parte, la riforma agraria ha poco operato. E l’interno dell’isola, oltre ad avere condizioni di abitabilità e d’igiene spaventose, ha una vasta e deserta landa latifondistica o quasi, che ancora lo caratterizza.
    Naturalmente, Palermo, capitale come Roma, sia pure di una regione, ha progredito. La Regione, le banche, gli istituti di assicurazione, lo Stato vi hanno costruito grandi e sontuosi palazzi; immobilizzando in opere inutili centinaia di miliardi.
    L’isola progredisce. Ma il problema è anche di non dilapidare miliardi in cose del tutto inutili o mai concepite e di andare incontro ai bisogni di coloro, e sono i più, che vivono ancora in condizioni disonorevoli per la nostra civiltà: Mezzogiorno sì, politica delle aree depresse sì, ma anche buona e razionale amministrazione, e senso di giustizia, senza spagnolismi, e corruttele che ci disonorano.

    Ugo La Malfa


    https://www.facebook.com/notes/ugo-l...7663934389261/
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

  6. #166
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    Predefinito Re: Ugo La Malfa (Palermo, 1903 - Roma, 1979)

    Organizzare la democrazia (1952)

    di Ugo La Malfa - «La Nazione», 24 giugno 1952


    https://www.facebook.com/notes/ugo-l...4831208005865/
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    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

  7. #167
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    Predefinito Re: Ugo La Malfa (Palermo, 1903 - Roma, 1979)

    Democrazia e repubblica (1946)

    di Ugo La Malfa – Testo del discorso tenuto a Palermo il 19 marzo 1946 e pubblicato in opuscolo a cura del Movimento della democrazia repubblicana.

    Come rappresentante della corrente democratica in seno al Partito d’azione che, dopo la crisi del partito, ha costituito il Movimento della democrazia repubblicana io debbo chiarire anzitutto su quali ragioni di ordine storico politico e sociale questa corrente ha impostato i problemi della resurrezione democratica del paese.
    Questa corrente, che è venuta da una travaglio e da una lotta antifascista, condotta soprattutto nel periodo clandestino, ha sempre, dentro e fuori il Partito d’azione, impostato con estrema decisione il problema istituzionale; ha ritenuto, cioè, che la resurrezione democratica dell’Italia, l’avvenire del nostro paese, fossero legati ad una trasformazione d’ordine istituzionale repubblicano. Ma questa corrente ha altresì affermato che non è possibile rifare una democrazia in Italia senza giungere a profonde trasformazioni nel campo della grande organizzazione industriale e agraria, senza equilibrare le condizioni economiche e sociali fra nord e sud, senza dare un ampio sviluppo ai processi autonomistici locali.
    Una vera democrazia deve considerare i problemi delle masse popolari, del loro benessere, del progresso della loro vita civile, come una condizione dell’esistenza stessa di questa democrazia.
    Questa impostazione programmatica non può essere venuta dall’arbitrio degli uomini che hanno scelto questo programma.
    È venuta in primo luogo da una meditazione profonda, meditazione ed esplorazione condotte nel periodo fascista, delle condizioni in cui dal Risorgimento in poi si è svolta la società italiana. Meditazione che fonda soprattutto su un presupposto di ordine storico, che in questa città, in quest’isola, in cui io ebbi i natali, deve essere maggiormente intesa. Infatti la tradizione del Risorgimento è fusa presso di noi alle tradizioni più vive e più vicine della nostra storia, tradizioni che noi siciliani possiamo ricordare con orgoglio perché il Risorgimento in quest’isola ha dato la sua passione, al sua fede, ha dato i suoi migliori uomini. Ma quando, uscendo dal Risorgimento e seguendo la storia di settant’anni di vita italiana, arriviamo al fascismo, noi dobbiamo confessare che il processo di questa vita politica unitaria nazionale è stato un processo di decadenza. Non possiamo allora considerare il fascismo come un accidente della vita italiana.
    Se noi pensassimo questo commetteremmo una grande leggerezza, che ci farebbe andare incontro a gravi pericoli futuri. Il fascismo non è un fenomeno accidentale della vita italiana, poiché il fascismo conclude un processo di decadenza della vita nazionale.
    Non si parte da una situazione politica e da un moto politico, quale è quello risorgimentale, che si impone al rispetto delle nazioni civili del mondo, non si parte da una classe politica che porta i nomi di Mazzini, di Cavour, di Cattaneo, di Garibaldi, di Spaventa per arrivare a Facta. Se ciò è accaduto bisogna pur dire che nella nostra vita sociale e politica, nelle nostre istituzioni c’è qualche cosa, o c’è stato qualche cosa, che non funzionava. Questo il problema critico che noi italiani dobbiamo avere presente, che dobbiamo rendere chiaro alle nostre coscienze per poi giustificare come da questo splendido Risorgimento, da questo splendido fatto unitario, da questa resurrezione della nazione italiana, che nel secolo scorso fu forse la pagina più bella della storia del mondo, da quest’altezza morale e politica siamo caduti in una vita parlamentare grama e misera che ha permesso a Mussolini di accamparsi in Italia. Dobbiamo confessare che qualche cosa di questo patrimonio che c’è stato consegnato, che molto di questo patrimonio, è stato sperperato. Per quanto insigni uomini, insigni correnti politiche abbiano governato l’Italia fino al 1922, noi non possiamo non stabilire responsabilità nel passato. E ciò non per il piacere di stabilire responsabilità nel passato, ma per una guida e ammaestramento nel futuro. Noi popolo italiano abbiamo il dovere di fare oggi questo processo.
    La storia soprattutto recente di grandi nazioni ci sarà da guida in questo processo. Nell’Ottocento, in un momento dell’Ottocento, l’Inghilterra ebbe i Gladstone e i Disraeli; in questo secolo, in un momento estremamente grave della sua storia, l’Inghilterra trovò i Churchill. I grandi popoli, grandi non per vasti territori, ma perché ricchi di forza morale, non esprimono isolati uomini di genio, ma hanno classi politiche che, nei momenti più gravi della vita nazionale, nei grandi momenti tragici della storia di un popolo, sanno sempre offrire uomini atti a condurre la nazione a superare ogni difficoltà.
    La storia dei grandi popoli è fatta di questo senso di responsabilità politica.
    Se noi guardiamo alla progressiva decadenza della nostra classe politica che ci ha condotto fino alla catastrofe e alla rovina, se noi guardiamo alle conseguenze di questo continuo diminuire dei nostri costumi politici e sociali, se noi guardiamo alla frattura che si è sempre più determinata nel paese fra nord e sud, non possiamo non soffermarci a riflettere profondamente sulle nostre istituzioni. Poiché la coscienza di una necessità democratica in Italia presuppone l’esame delle istituzioni politiche e sociali e in primo luogo di quella monarchica. La condanna qui della monarchia, l’affermazione dell’idea repubblicana non è il risultato di un processo astratto ma di un processo della profonda decadenza della classe politica italiana.
    Tutti conoscete la storia recente di Francia, la storia dei Daladier e dei Chautemps, la storia di una classe politica che non ha più rispetto di se stessa, il rispetto del proprio popolo; classe politica, quella francese, però assai meno colpevole della nostra se non altro perché la sua decadenza è stata più rapida e ha inciso per breve tempo nella storia di quella nazione.
    Ebbene il popolo francese che pur non ha perduto la guerra, che pur avendo subito una grossa disfatta ha saputo tuttavia battersi e figurare fra le nazioni vincitrici, il popolo francese ha condannato questa vecchia classe politica.
    Senza avere gravi problemi, come quelli che il popolo italiano deve affrontare, la Francia ha oggi una costituente. La Francia rivede la costituzione del 1875 perché ha il senso che da questo travaglio, da questa immane crisi mondiale, non si esce raccomodando situazioni e cose del passato, tornando alle battaglie elettorali di basso conio. Un popolo oggi può superare la crisi che attraversa solo affrontando le responsabilità che derivano da questa situazione eccezionale, conoscendo i suoi doveri verso il mondo. Dev’essere la costituente francese un ammaestramento per noi, che abbiamo avuto una crisi incomparabilmente più grave di quella della terza repubblica in Francia. La nostra crisi è stata la più profonda che possa immaginarsi nella storia di un popolo; il patrimonio del Risorgimento è stato quasi interamente dilapidato, le nostre istituzioni inquinate, la vita politica e sociale distrutta. Noi che per vent’anni abbiamo dato un certo spettacolo al mondo non possiamo uscire da questa situazione con piccoli accomodamenti. Questo vorrebbe dire solo che il nostro popolo non ha più coscienza di sé, della sua civiltà, che il nostro paese è tornato ai costumi del Settecento, all’Arcadia.
    Il rinnovamento delle istituzioni politiche e sociali del paese, la ricerca di una coscienza democratica è anche un problema che ha i suoi riflessi religiosi. Di conseguenza interessa quella parte, notevole, e direi la maggioranza degli italiani che si ispirano alla religione cattolica. Nel quadro delle rinnovate istituzioni sociali e politiche i giusti civili rapporti fra la Chiesa e lo Stato italiano devono essere ben chiari tali che la posizione della Chiesa non sia sospetta in Italia. Essi non saranno stabiliti con accordi fra monarchia e Vaticano e certe classi sociali, accordi che sacrificherebbero, o per lo meno danneggerebbero, lo sviluppo democratico del popolo italiano. Noi vogliamo stabilire tali rapporti rendendo chiaro che lo spirito democratico in Italia possa in essi farsi valere, poiché un’affermazione repubblicana non sarà mai in contrasto con gli interessi universali della Chiesa cattolica, poiché sarà possibile alla Chiesa cattolica vivere e sviluppare la sua attività religiosa in Italia e nel mondo accanto al regime repubblicano, senza che una democrazia repubblicana significhi menomazione per la Chiesa stessa e neanche la Chiesa menomazione della società italiana.
    Questo è l’aspetto, il presupposto storico della nostra impostazione democratica.
    Vi è inoltre un aspetto sociale, un dispiegamento di forze sociali che ci porta a valutare che cosa debba essere la democrazia in questo paese.
    Io sento molto dire che una democrazia repubblicana fa paura, perché può essere quella di Nenni o di Togliatti. La repubblica è da alcuni osteggiata, come manifestazione democratica progressiva, in quanto essa è intesa come repubblica socialista.
    Io debbo dire che il giuoco delle forze politiche e sociali, che oggi si svolge in Italia, è la negazione di questa facile affermazione. La repubblica in Italia non nasce da una posizione o da una imposizione di Pietro Nenni o di Palmiro Togliatti; nasce dall’equilibrio di diverse forze che oggi agiscono in Italia. La repubblica sarà il risultato di questo libero contrasto di libere forze democratiche e potrà avere come realtà di riferimento Cattani, segretario del Partito liberale, potrà vedere De Gasperi capo del governo o Pietro Nenni o Palmiro Togliatti. A quei signori che predicono che per l’Italia la repubblica sarà un salto nel buio io dico che come oggi in Italia i partiti, le tendenze, le varie forze politiche insomma, esercitano l’uno sull’altro un controllo, così anche in regime repubblicano lo stesso controllo sarà possibile.
    La repubblica di domani non potrà essere quindi la repubblica del signor Nenni, o anche quella del signor Togliatti, ma sarà la repubblica che deriva dall’impegno e dalle posizioni che le grandi correnti politiche, esistenti nel paese, prenderanno su tutti i problemi di ordine strutturale e costituzionale che nel paese saranno posti. La repubblica non sarà, dunque, un salto nel buio, ma il maturarsi delle situazioni a cui grandi correnti politiche aderiranno.
    A questo punto io debbo dire che vi è un problema più vasto che precede questo giuoco di grandi correnti politiche. Vi ho parlato del Partito liberale e del Partito democratico cristiano, dei partiti socialista e comunista, ma non ho parlato dei partiti direttamente democratici, quale a mio giudizio doveva essere il Partito d’azione se non avesse avuto un orientamento socialista, e quali sono le correnti democratiche minori del paese.
    Queste correnti direttamente democratiche se hanno avuto ed hanno difficoltà materiale di sviluppo nel paese, presentandosi esse come correnti critiche, hanno pure diritto di vita nella vita avvenire della Nazione. Sempre però che la situazione sociale, che io vorrei con vostra pazienza esaminare brevemente, abbia gli sviluppi necessari a un’organizzazione veramente democratica.
    Nella struttura sociale del nostro paese vi sono delle importanti stratificazioni sociali che possiamo chiamare di ceti intermedi. È difficile infatti sostenere che questo paese trovi la sua forza sociale nelle grandi masse accentrate nelle industrie o in una numerosa borghesia capitalista.
    Chi voglia stabilmente organizzare la vita politica e sociale italiana su questi due presupposti, cioè di un paese governato da alte classi sociali o di un paese governato dai gruppi operai della grande industria, io credo incorra in un gravissimo errore.
    Il nostro paese offre infinite articolazioni di posizioni intermedie. Se questi ceti intermedi avessero la possibilità di autoeducarsi politicamente la struttura sociale del nostro paese sarebbe struttura ideale per una società democratica. Dagli intellettuali ai professionisti, dagli impiegati agli artigiani e operai specializzati, l’Italia presenta una quantità di posizioni individuali che socialmente hanno un grandissimo peso. Questi ceti intermedi costituiscono la struttura fondamentale del paese: struttura potenzialmente democratica che non riesce a farsi valere, perché non riesce ad organizzarsi politicamente.
    In questa disorganizzazione politica dei ceti medi, è la crisi vera del paese; la crisi che ci ha dato il fascismo.
    Questi ceti intermedi sono rimasti sempre politicamente incerti; talora si sono polarizzati in posizione estreme; hanno pencolato ora a destra, ora a sinistra; quando hanno temuto, infatti, la rivoluzione sociale si sono precipitati a destra, facendo così il giuoco di posizioni reazionarie; poi, tranquillizzati, si sono spostati su altre posizioni, a sinistra, dando così instabilità al governo e alla società italiana. Questi ceti devono oggi finalmente prendere quella coscienza delle proprie responsabilità sociali che mai hanno avuta. Devono sentire che essi rappresentano la forza vera, la forza equilibratrice e stabilizzatrice della vita politica, che su di essi posa l’avvenire democratico del paese.
    I ceti medi italiani hanno dunque il dovere non di sentire il qualunquismo, che è la maniera più facile di fare politica, ma il dovere di sentire come nel mondo moderno si fa politica. Tutti i grandi paesi democratici e l’Inghilterra anzitutto, trovano il loro equilibrio sociale e politico nella fermezza della posizione di questi ceti. La Francia, altro esempio, ha il suo migliore momento politico e sociale quando questi ceti, attraverso il Partito radicale, vanno alla direzione politica del paese.
    Questo problema dell’inquadramento politico dei ceti medi, della modernizzazione politica dei ceti medi è il problema che costituisce il presupposto della costruzione democratica in Italia. Se intendiamo questo, se noi intendiamo la nostra responsabilità di assicurare una struttura politica e sociale al nostro paese, struttura che consenta progressi effettivi e veri, che ci disancori dalla difesa di interessi tradizionali, che non sono gli interessi della maggioranza del popolo italiano e non sono soprattutto gli interessi dei ceti medi, abbiamo compiuto, a mio giudizio, un’opera utile. Avremmo in tal caso fatto quel solo processo politico che dà fondamento e stabilità alla società umana e allo sviluppo democratico. Non si trova infatti democrazia moderna, sia nella Svizzera, sia nel Nord Europa, che non sia fondata sulla fermezza delle posizioni politiche dei ceti medi.
    La crisi tedesca o la crisi francese sono state crisi dell’incertezza e ambiguità in un dato momento storico delle posizioni politiche di questi ceti.
    Questo dei ceti intermedi è un problema politico la cui risoluzione avrebbe nel nostro paese grandi riflessi di estrema importanza, per tutto il Mezzogiorno.
    Un movimento di democrazia repubblicana allora, essendo un movimento di democrazia progressista, dovrebbe trovare la sua ragion d’essere non solo nei precedenti stessi della vita dello Stato unitario ma anche e soprattutto nella struttura fondamentale del paese e se questo movimento di democrazia non dovesse trovare appoggio, se dovesse di conseguenza fallire, non fallirebbero solo correnti politiche, o uomini politici che questa corrente incarnano, ma fallirebbe l’esperimento stesso della democrazia in Italia, il solo esperimento che, a mio giudizio, tuteli un avvenire di civiltà, di pace e di benessere alla Nazione.
    Questa possibilità di democrazia noi possiamo oggi valutarla attraverso il giuoco stesso dei partiti politici. Sarò su questo terreno molto esplicito e molto chiaro. Oggi abbiamo grandi schieramenti politici. Il liberale, il grandissimo schieramento politico democristiano, abbiamo socialisti, abbiamo comunisti. Tra queste situazioni abbiamo delle formazioni democratiche: il vecchio glorioso tradizionale Partito repubblicano italiano; il Partito d’azione; abbiamo quel movimento democratico, che è indipendente dal Partito liberale, i cosiddetti liberali di sinistra.
    A mio giudizio la maniera con cui il Partito d’azione ha impostato il problema politico in Italia, sebbene questo partito non abbia potuto compiere la sua vera funzione politica, ha costretto il Partito liberale a prendere la sola posizione politica, che esso può avere nel paese: infatti il Partito liberale, così come ha agito dalla liberazione in poi, si è mostrato partito conservatore. Ed è bene che la società italiana abbia un partito conservatore, piuttosto è male che il Partito liberale non abbia il coraggio di dichiararsi tale. La lotta politica italiana acquisterebbe più chiarezza. Il Partito liberale è stato il partito su cui la società italiana si è costruita. Settant’anni fa era il partito della democrazia italiana. Con lo svilupparsi della situazione sociale del paese, col venire sulla ribalta politica delle forze del grande partito cattolico, il suo centro di gravità si è spostato. Già nel prefascismo il Partito liberale non era più al centro della vita politica italiana. Difendeva le sue posizioni su un terreno di conservazione. Il primi successi del fascismo dipendono molto da questo suo atteggiamento; la responsabilità del Partito liberale sta nel non aver sentito e nel non sentire che in Italia esso conforta e soccorre posizioni di interessi tradizionali; che questa sua posizione è legittima, ma appunto perché legittima è posizione conservatrice. Oggi il Partito liberale ha questa funzione conservatrice. I democratici tutti devono essere coscienti di questo, cioè che la funzione della democrazia in Italia non può essere una funzione parallela a quella del Partito liberale.
    In tutti i momenti nella vita dei governi del Comitato di liberazione nazionale, e credo di poterne parlare con cognizione di causa perché sono stato nel comitato centrale a rappresentare il mio partito e ho vissuto in questi governi, il Partito liberale ha fiancheggiato l’azione del Partito cattolico, è stato la copertura di questo Partito cattolico, a destra di esso. Funzione questa che noi dobbiamo ritenere utile solo se essa si appalesi quale realmente è: conservatrice.
    Non fa meraviglia che il presidente Bonomi, che ha avuto per molti mesi in mano l’avvenire d’Italia, senza aver saputo comprendere il significato di questa nuova democrazia, oggi tenti di formare una grande concentrazione democratico-liberale che dovrebbe raccogliere, insieme ai liberali, la democrazia del lavoro e la democrazia repubblicana. Una concentrazione che, per la presenza di non pochi conservatori, dovrebbe avere una posizione agnostica sul problema istituzionale. Bonomi mostra così di aver poco compreso la situazione politica italiana, perché queste forze, per la loro eterogenea formazione, non starebbero tra il blocco cattolico e il blocco social-comunista, ma a destra del blocco cattolico, a rafforzare una posizione tradizionale della società italiana.
    Se questo ci è chiaro i veri democratici, ed io intendo per democratici coloro che hanno coscienza di un nuovo equilibrio politico, potrebbero raccogliersi solo in un blocco di dichiarata coscienza democratica e repubblicana. Essi soli avranno coscienza degli interessi dei ceti medi italiani, degli interessi della piccola e media proprietà agricola, degli interessi di una infinità di attività medie del paese, interessi che non potranno mai essere legati a quelli del grande gruppo conservatore italiano.
    Ecco quindi che quando noi esaminiamo le grandi correnti liberale e cattolica, socialista e comunista dobbiamo avere l’esatta convinzione che fra i due sistemi, fra quello liberale e cattolico, e quello socialista e comunista, c’è la necessità di una terza formazione che possa raccogliere tutte le forze progressiste italiane e impedire che la lotta politica e sociale si polarizzi ai due estremi. Polarizzazione che porterebbe a una nuova rottura nel paese, a una nuova esperienza fascista.
    Dopo questo esame dello schieramento delle forze politiche, le posizioni dovrebbero essere chiare. Ciascuno di noi che abbia coscienza delle responsabilità politiche, senza che questa coscienza sia distrutta dal giuoco elettorale, non deve equivocare su queste posizioni.
    In un momento in cui l’Italia e il mondo continuano a essere tormentati da una crisi economica e sociale, in cui la pace e l’ordine internazionale non sono ancora stabilizzati, è necessario che tutto questo sia chiaro.
    Dobbiamo infatti esaminare questa situazione e affrontare le responsabilità relative ad essa, ponendo ogni questione in termine di problema politico.
    Questo è soprattutto necessario a un popolo, poiché un popolo deve grande parte della sua educazione civile al modo di fare la politica.
    A questo proposito, a proposito del modo di fare politica, debbo dire che è stato un male che il problema del referendum abbia permesso ad alcuni partiti di dichiarare che in una lista per le elezioni alla costituente si possano pure includere insieme candidati repubblicani e candidati monarchici. È questa una manifestazione di irresponsabilità politica, che considero estremamente pericolosa. In una lista non possono andare insieme monarchici e repubblicani, conservatori e democratici, democratici e comunisti, cattolici e comunisti. Esiste fra queste posizioni perfetta distinzione. Un vantaggio della legge del giugno ’44 era quello appunto della responsabilità costituzionale che dava i membri direttamente eletti dal popolo. Il sistema del referendum per la questione istituzionale è un sistema democratico. In un paese, infatti, di lunga tradizione democratica certamente il referendum è il miglior mezzo di espressione democratica. Ma io dubito che il popolo italiano, che non viene da un recente esperimento democratico, dopo venti anni di dittatura possa decidere, sulla base di una scheda, del suo maggiore problema, del suo avvenire. Ogni partito deve dire su questo problema come è indirizzato. I partiti politici che non possono, né devono essere organizzazioni di clientele, ma strumento di vita politica nazionale, devono assumere la loro responsabilità sul problema istituzionale. Il paese decide del suo avvenire con il referendum ma non soltanto con il referendum, anche coi partiti che manderà alla costituente.
    Ecco perché ho chiesto che alcuni partiti chiarissero alcune posizioni. Sarebbe gravissima jattura se il referendum dovesse dare una repubblica col 52%, una monarchia col 55% dei suffragi. Non si fa una repubblica al 52% o una monarchia al 55%; repubblica o monarchia devono avere il consenso della chiara maggioranza del popolo italiano. E perché questa chiara maggioranza si formi, tutti i partiti che hanno responsabilità politica prendano posizione prima delle elezioni e prendano una posizione politica. Perché se vi sono partiti che aspirano alla monarchia lo esprimano chiaramente, se non possono si dichiarino allora per la repubblica.
    Non creino con il loro agnosticismo una situazione di equivoco, che potrebbe portare a tragiche conseguenze. Noi non decidiamo in quest’anno piccoli fatti parlamentari, abbiamo la responsabilità di chiudere un ciclo storico in Italia e aprirne un altro.
    O vittoriosi, o sconfitti la coscienza di ognuno di noi deve essere a posto, e lo sarà se si è fatto il proprio dovere. Chi ha difeso queste idee fino in ultimo ha compiuto il suo dovere, ma chi ha creato una situazione equivoca si è addossato uguali e identiche responsabilità di coloro che ieri aprirono la via al fascismo.
    Un aspetto che sfugge a molti degli italiani è l’aspetto esterno della nostra costruzione democratica. L’Italia è guardata molto da vicino dalle nazioni più grandi e dalle nazioni confinanti.
    A questo proposito molte volte ho sentito dire che gli alleati proteggono la monarchia. Per ragioni della mia attività politica a Roma e nei ministeri ho avvicinato ogni sorta di alleati: essi hanno la coscienza che esiste un problema democratico dell’Italia. Essi non appoggiano la monarchia, ma se essi appoggeranno la monarchia è perché non crederanno alla capacità democratica degli italiani.
    Il problema dei rapporti fra noi e gli alleati è un problema di rispetto reciproco. Quando le posizioni sono chiare, nessuno degli alleati intende interferire sui problemi politici e sociali italiani. Debbo dire che sulla crisi che portò Parri fuori del suo partito, dopo averlo portato fuori del governo, pochi italiani, pochi nostri giornali se ne occuparono. Ho letto, invece, un articolo del «Times», un articolo redazionale non una corrispondenza; in quell’articolo il grande giornale inglese valutava la tragedia e il travaglio di Parri come quello di un uomo che ha dato molto alla causa della democrazia in Italia e che conserva il rispetto del pensiero democratico delle nazioni civili. Ciò sta a significare che si guarda all’Italia non con leggerezza, ma con estremo interesse. Ai fatti di casa nostra tutti guardano perché non si deve dimenticare che l’Italia ha avuto il fascismo e non c’è nazione a noi confinante che non abbia assaporato il fascismo. La Spagna illustre anticipatrice; la Francia; la Jugoslavia; l’Albania e la Grecia; possiamo così fare il giro intorno all’Italia. I problemi della nostra costruzione democratica interessano questi paesi, come i problemi della vita morale delle nostre casa interessano i nostri vicini.
    Noi non possiamo dunque prescindere dall’opinione che possono formarsi di noi nazioni a noi vicine che hanno sofferto nel passato delle nostre vicende e delle nostre avventure. Non è da meravigliarsi, dunque, se nazioni vicine accorgendosi del congresso del partito qualunquista non hanno visto molto chiaro nell’attuale situazione italiana. Del resto a noi italiani meraviglierebbe molto sentire che è nato un partito qualunquista in Inghilterra. Penseremmo la democrazia e la libertà inglese ridotte in cattive condizioni se in Inghilterra nascesse il qualunquismo.
    Quando allora vogliamo giudicare la nostra situazione politica prendiamo i nostri fenomeni e trasferiamoli nelle grandi nazioni democratiche: essi ci farebbero arricciare il naso e storcere la bocca. Alle nazioni che guardano al nostro svolgimento politico non dobbiamo dunque offrire situazioni facili. Quando diamo spettacoli di faciloneria non possiamo rivendicare il diritto di avere da parte degli alleati un migliore trattamento, che ritengo sacrosanto. Bisogna però dare l’impressione di avere trovato la via buona, così soltanto potremo difendere la nostra giusta causa.
    Se l’Italia conserverà intatta la vecchia struttura della sua società, manifestazione sostanziale della monarchia, e intorno ad essa manterrà grosse caste militari e industriali, essa avrà fatto il giuoco di queste forze. Se ad una monarchia che ha perduto una guerra sarà permesso di sopravvivere per cacciarsi magari in altre avventure noi offriremo alle nazioni che ci circondano una equivoca situazione di democrazia, della quale non si potrò che diffidare. Noi ci potremo apertamente difendere solo quando la nostra situazione politica sarà limpida e chiara, quando potremo dare precise assicurazioni che fascismo, militarismo, centralismo, caste militari e le loro avventure sono per sempre finiti. Quando questo processo di decomposizione sarà compiuto allora solo saremo in grado di potere fare rispettare i nostri diritti nel mondo, allora solo potremo dire di aver compiuto il nostro processo di ricostruzione democratica, allora solo avremo il rispetto degli alleati piccoli e grandi. Perché una nazione, piccola o grande, si rispetta non solo nella forza, ma nella qualità morale, nella saldezza politica, nella capacità di risolvere situazioni sociali interne e di frattura.
    In questo quadro di vita nazionale, il problema del Mezzogiorno si presenta molto grave. A questo punto mi sia permesso fare una piccola divagazione di ordine personale.
    Sono uscito da quest’isola in giovane età, come molti siciliani poveri escono in cerca di lavoro. Conosco questa tragedia degli intellettuali e dei lavoratori del braccio siciliani.
    Essi non trovano sempre nella loro isola i mezzi di vita e di sviluppo: isola popolata, ricca di ingegno e di non grandi risorse. Io conosco il problema di molti giovani che vivono in quest’isola, so la tragedia di coloro che devono cercare altrove un più ampio respiro. Quando sono uscito dalla Sicilia ho incontrato a Roma Giovanni Amendola. Ero allora giovanissimo.
    Sentii in Giovanni Amendola un grandissimo italiano, l’ultimo dei più grandi difensori della democrazia italiana nei confronti del fascismo. Egli era un meridionale, e opponeva al fascismo la forza morale, l’energia, la devozione alla causa di un meridionale, quella grandezza di pensiero che solo i meridionali hanno. Ne vissi da vicino la lotta, e mi lasciò enorme impressione. La storia d’Italia si compendia nella tragedia di quest’uomo, che vidi morire bastonato dai fascisti.
    Sentii in lui che c’è nel Mezzogiorno una forza che il nord riconosce, quando vogliamo farla valere.
    Dopo Giovanni Amendola ho conosciuto, fra Roma e Milano, uomini di tutte le correnti politiche, in carcere e fuori del carcere, in esilio e al confino. La mia ambizione nel momento in cui ero lontano da quest’isola, mentre qui amici lottavano per la stessa causa, era di essere un modesto rappresentante, una modesta espressione di un pensiero e di una dignità meridionali. Da ciò si comprenderà come io possa vedere il problema del separatismo. Il separatismo è una manifestazione rudimentale e infantile di pensiero politico, poiché i rapporti fra Sicilia, Mezzogiorno e nord sono rapporti virili di forze politiche. Non è necessario nei tempi moderni, in cui contano le grandi organizzazioni politiche nel giuoco della politica mondiale, non è il caso di parlare di separazione per rischiarare l’avvenire di quest’isola.
    Il problema così come il separatismo ha tentato di impostarlo è un problema di massimalismo politico, è un aspetto di quella lotta politica che può portare a incendiare case e municipi.
    Sono queste manifestazioni che non portano a duraturi risultati politici. Nei rapporti fra Mezzogiorno e nord c’è un equivoco fondamentale: esso dipende dalle due situazioni politiche e sociali. Il nord ha un’organizzazione politica e sociale poderosa, ha organizzazioni di partito, e ha organizzazioni di difesa di interessi collettivi. Come avviene nella lotta per la vita il nord fa valere le sue armi. Il sud ha una sola maniera di contrapporsi: organizzando le sue forze politiche e sociali in un fronte unico, facendo cioè valere i suoi diritti e interessi in un rapporto di parità. Si deve trattare col nord da pari a pari. Se il sud ha diritti da far valere si tratta di organizzarli in modo da non andare a Roma a questuare favori personali o di clientele, ma a porre problemi politici e sociali. Ogni volta che interessi meridionali saranno difesi con questa certezza del proprio diritto, con questa fierezza e dignità del proprio diritto, questi interessi meridionali devono passare. E non è per me necessario, credo anche d’intendermi di problemi economici e finanziari, non è necessario per rivendicare la forza di certe posizioni economiche dell’isola di rivendicarle in sede di indipendenza assoluta. Per far valere questi interessi bisogna portare al centro tutto il peso di essi, bisogna condurre a Roma battaglie politiche per la difesa di questi interessi. Finché però le masse del sud, la società del sud, vengono considerate solo come massa elettorale ciò non può accadere. La monarchia può allora acquistare, spendendo cento milioni, così come i conservatori del nord possono acquistare, candidati che si contentano di distribuire favori personali. La lotta del sud sarà vana finché è fondata su questi presupposti.
    Come i diritti dell’Italia si fanno valere rispetto agli alleati con la serenità e la fermezza delle posizioni politiche, così i diritti del sud si faranno valere con altrettanti mezzi. Ma fin quando la Sicilia e i siciliani accetteranno dai conservatori del nord e dalla monarchia i cento milioni per agitare interessi che non sono i loro, essi non avranno il diritto di protestare. Ci saremo venduti per un piatto di lenticchie.
    È più facile comprendere che il nord sia monarchico e il sud repubblicano, perché l’autonomia, a cui il sud aspira, è un fatto connesso alla nuova struttura dello stato democratico che non può essere garantita se non da una costituzione repubblicana, non certo da una costituzione monarchica, essendo la monarchia per sua natura accentratrice. Ma quando a Roma mi si dice che per fare la lotta ai repubblicani basta spendere qualche milione nel Mezzogiorno a favore della monarchia, io allora, se fosse ciò vero, non capirei più niente, perché se fosse ciò vero, la nostra battaglia sarebbe disperata, se non perduta. Nel caso, infatti, che il sud si dichiarasse monarchico, le isole monarchiche, allora non solo i problemi della vita nazionale, ma i problemi della vita meridionale e isolana non avrebbero possibilità di soluzione nell’avvenire. E a noi non resterebbe che ritirarci a vita privata e dire che il nostro paese ha mancato ad una grande occasione politica.

    Ugo La Malfa
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

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    Predefinito Re: Ugo La Malfa (Palermo, 1903 - Roma, 1979)

    Don Sturzo e i partiti laici (1955)

    di Ugo La Malfa - «Il Mondo», a. VII, n. 41 (347) dell’11 ottobre 1955.

    Caro Direttore,
    penso che tu abbia letto l’articolo di Luigi Sturzo pubblicato sul «Giornale d’Italia» del 29 scorso che porta il titolo I partiti e le elezioni del 1956 [https://www.facebook.com/donsturzo/p...31471013566276]. È un articolo di una crudezza e di una franchezza, che rasenta quasi la brutalità e, inquadrato nell’insieme degli scritti e dei commenti che accompagnano compiacentemente, ormai, l’attività e le decisioni dei partiti minori, fa una certa impressione. Il mio amico Spadolini e Missiroli e il giovane direttore del «Messaggero» Alessandro Perrone, ne sarebbero certo scandalizzati. Ma è bene che l’articolo sia stato scritto, e i partiti laici vi possono meditar sopra. Luigi Sturzo dice quello che molti cattolici pensano, e solo dalla conoscenza esatta di questo pensiero si può trarre qualche utile insegnamento per l’avvenire.
    Scrive, dunque, Luigi Sturzo che un partito serio, in tanto potrà avere un avvenire in quanto può aspirare a divenire «vera e larga espressione della volontà elettorale»; se rimane sempre ai margini della rappresentanza nazionale sarà più o meno un’agenzia di affari o il simbolo di ideologie tramontate: non sarà mai il punto di convergenza di molti per arrivare dall’opposizione al potere o per mantenere salda la posizione di governo già acquisita. Noi in Italia – egli aggiunge – non abbiamo per ora quella che si dice l’alternativa al potere; il partito che potrebbe aspirarvi (il social-comunista) non formerà mai un’alternativa, perché segnerebbe la fine della democrazia e l’avvento di una dittatura, come lo fu il fascismo nel ’22. Gli altri partiti fuori della Dc sono tutti «minori», nessuno di questi è quel «minorenne» che abbia la prospettiva di diventare, presto o tardi «maggiorenne». L’essere «minori» per intero destino toglie fede nell’avvenire. Ed eccoci al punto, aggiunge Luigi Sturzo; coloro che vorrebbero evitato il duello democrazia-comunismo (che si traduce nel duello Democrazia cristiana-comunismo) debbono dirci quale possa essere l’alternativa di una terza forza autonoma, che sul serio venga a incunearsi fra i due, polarizzando verso di sé una parte dell’elettorato italiano, specie quello dissipato verso partiti minori e le relative frazioni. Questa terza forza non esiste oggi e non è ancora in prospettiva… Il circolo vizioso della nostra democrazia e del nostro regime costituzionale è proprio questo e non c’è finora un uomo, né un nucleo di uomini, che abbia la possibilità di disincantare la fatalità di tale circolo, ridestando, così, il senso di fiducia nell’avvenire delle istituzioni parlamentari e delle sorti del Paese.
    Trovo, caro direttore, che per partiti i quali nel 1947, come dimostrerò in seguito, hanno salvato la società italiana da una svolta pericolosa, e perciò hanno adempiuto a una grande missione storica, la qualifica di «agenzie di affari» o «simboli di ideologie tramontate» sia un po’ troppo brutale e non deponga sulle virtù cristiane dei rappresentanti del nostro grande partito cattolico. Ma quel che importa, nel giudizio di Sturzo, è l’affermazione che un partito serio, intanto potrà avere un avvenire in quanto può aspirare a diventare una vera e larga espressione della volontà elettorale. E ciò, non in quanto sia vero in senso assoluto, ma come verità relativa alla situazione italiana.
    In Francia, nessun partito riesce a guadagnare la maggioranza assoluta, o una grande maggioranza relativa: e quindi il frazionamento tra molti partiti trova compenso nella impossibilità di qualunque partito di affermare un suo deciso predominio sugli altri. In Italia l’esperienza del 1948, riconfermata dall’esperienza del 1953, dice che ormai esiste un partito che o può aspirare alla maggioranza assoluta o avrà sempre una larga e preponderante maggioranza relativa. D’altra parte, il peso politico di tale partito è aumentato dalla esistenza di un forte Partito comunista e dalla particolare situazione in cui si trova il Partito socialista italiano.
    In presenza di tali eccezionali condizioni è indispensabile, è doveroso creare politicamente una condizione migliore. L’elettore che non vota Democrazia cristiana ha bisogno di credere, se non a una formazione che tolga la maggioranza relativa alla Dc a una formazione capace di seriamente controllarla e contenerla. E poiché ciascuno dei partiti minori non può, con tutta la buona volontà, adempiere a questa funzione, ecco la necessità di uno sforzo comune, di un vincolo associativo, pur nel rispetto dell’autonomia ideologica e dottrinaria di ciascuna delle forze minori. Il problema mi si è posto fin dal 1951, quando i repubblicani stavano soli al governo colla Dc e da allora mi assilla. Il non avermi ascoltato, il non avere avvertito in tempo utile tale fondamentale esigenza, l’avere sprecato tempo e fatica nella difesa di motivi particolari, anche se nobili, di ciascun partito, ha rappresentato un errore irreparabile e un indebolimento notevole della nostra vita democratica. E se, ancor dopo le elezioni del 1948 si poteva ritenere che gli elettori avrebbero compreso il fine politico che i partiti minori si davano, le elezioni del 1953, confermando il loro insuccesso e la capacità di resistenza della Dc, avrebbero dovuto togliere ogni illusione. Ciò che purtroppo non è avvenuto.
    Naturalmente Luigi Sturzo non ignora la mia insistente proposta e la campagna che «Il Mondo» ha condotto al riguardo. Ma egli, che, penso, da buon democratico sente la mancanza di un’alternativa, si affretta, dopo avere demolita l’alternativa di Nenni, a demolire l’alternativa laica. «I teorici del lato democratico di tali partiti, egli scrive, cercano nella comune laicità la bandiera della loro fede. Ma la laicità non è una fede, è una negazione polemica in confronto alla Dc con la quale i partiti minori sono costretti dagli eventi a collaborare».
    Non ho bisogno di dire quale è il punto debole del ragionamento, al quale, del resto, ogni buon democristiano deve necessariamente far ricorso. La laicità non è un espediente polemico escogitato per ammassare forze in alternativa alla Democrazia cristiana. È una fede ed una convinzione, fede e convinzione nell’atto di nascita dello Stato italiano, dello Stato risorgimentale. Per quanto i rapporti tra mondo laico e mondo cattolico siano mutati dal Risorgimento in poi, ed io sono il primo a riconoscerlo, questo mutamento non implica che le correnti politiche laiche manchino di fede nelle origini ideali dello Stato nazionale. La Dc, divenuta grande partito, deve trovare il giusto punto di inserimento nello Stato nazionale, con noi. Non siamo scaduti fino a servirci della laicità come pretesto di differenziazione verso la Dc.
    Ma l’asserzione di Luigi Sturzo non sarebbe grave se essa non trovasse appoggio ed avallo (ed ecco un altro punto di forza per la Dc) nelle dichiarazioni di molti socialisti a caccia di… colloqui. Tutta la corrente socialista, da Faravelli a Mazzali, ritiene che il problema della laicità, come elemento connettivo di determinate forze, non esista. Ed esista invece l’aspetto sociale dei problemi.
    Non ho mai trascurato questo aspetto e ho considerato che se la laicità deve essere l’elemento connettivo, rispetto alla Dc per assicurare continuità alla vita del nostro Stato nazionale (il discorso del socialdemocratico ministro Rossi ha qualche importanza al riguardo) le esperienze sociali più avanzate del mondo occidentale moderno, devono contraddistinguere il nuovo raggruppamento. E se queste esperienze comportano una revisione delle concezioni economiche dei liberali, tutti sanno (salvo forse il Psdi) quante revisioni comportino nel campo della tradizione marxista o socialista massimalista. Ma una certa grossolanità di pensiero dei nostri socialisti, li induce a pensare che uccidendo la laicità sia facile ammansire «la bestia». Ciò che l’articolo di Sturzo, col suo massiccio attacco alla cosiddetta apertura a sinistra, precisamente non dimostra.
    Sturzo non si ferma a giudicarci severamente solo in quanto cerchiamo il tessuto connettivo nella laicità. Aggiunge che i laici non sono d’accordo sulla libertà dei liberali, sulla socialità dei socialdemocratici e sul mazzinianesimo dei repubblicani. Ho già risposto implicitamente a questo argomento quando ho trovato il possibile punto di convergenza in esperienze sociali moderne del mondo occidentale. E se Sturzo, facendo nomi, aggiunge che è difficile mettere d’accordo Villabruna, Faravelli e La Malfa, io affermo che sul problema dei petroli, dei patti agrari, della riforma dell’Iri, vi è oggi più accordo fra liberali di sinistra, repubblicani e socialdemocratici e forse socialisti del Psi di quanto non ve ne sia tra Pella e Vanoni, tra Togni e Pastore, fra l’una e l’altra corrente della Dc.
    La Dc non è più unita, ideologicamente e sui problemi concreti, di quanto non possa essere unito un raggruppamento di sinistra democratica. Essa è unita dalla fede cattolica, come i laici potrebbero essere uniti dalle convinzioni laiche. Per di più i laici potrebbero facilmente trovare l’accordo su un programma politico, economico e sociale comune, mentre dubito che una discussione di questo genere possa aver esito positivo per i cattolici. I liberali di sinistra, i repubblicani, i socialdemocratici respingono la corrente dell’onorevole Malagodi, mentre i cattolici non potrebbero pensare di estromettere la loro destra senza correre il pericolo della dissoluzione del partito.
    La Dc è tenuta unita dalla convinzione che mantenendosi tale può conservare la forza conquistata nel 1948. D’altra parte continuando ad essere disuniti i democratici laici, essendo handicappata da responsabilità storiche la destra, essendo relegata in posizione di opposizione extracostituzionale l’estrema sinistra, il potere può essere manutenuto indefinitamente, senza che mai sorga una seria alternativa alla Dc.
    Ed è tale il vantaggio che alla Dc deriva dalle caratteristiche della situazione italiana, che estremamente difficile si fa l’azione del Partito socialista italiano, anche se le sue intenzioni apparissero più chiare e più nette di quanto oggi non appaiano.
    Ma a proposito del 1948, è bene dire a Luigi Sturzo e ai democratici cristiani, una verità che essi dimenticano spesso, nel loro orgoglio di partito. Afferma Luigi Sturzo, e affermano spesso i democratici cristiani, che la Dc è, da dieci anni, il partito guida, perché è ritenuta, ancora oggi, l’unico partito atto a impedire l’avvento del comunismo.
    Ora, la massa elettorale che la Dc ha schierato, contro i comunisti, da alcuni anni a questa parte, è davvero imponente. Ma nel momento in cui la vita politica italiana era dominata dalla lotta tra democratici cristiani e comunisti, quelli che decisero per la vittoria della democrazia, sia pure interpretata prevalentemente dai democratici cristiani, furono i laici. Bastava che i laici si fossero messi da parte o si fossero addirittura schierati in un fronte popolare, perché la Democrazia cristiana, appesantita dal peso delle tradizioni anticlericali, si trovasse nel più completo isolamento e in una difficile battaglia. E i precedenti del fascismo indicano la pericolosità di simili situazioni.
    I democratici laici hanno fatto il loro dovere e hanno preferito una zoppa democrazia alla minaccia di una spietata dittatura. Il Paese non si è accorto che ancora una volta, come contro il fascismo, i democratici laici avevano scelta una coraggiosa posizione di battaglia. Ma il giudizio elettorale del Paese non va confuso col giudizio storico e l’uomo di parte Sturzo non deve cancellare l’uomo di studio.
    I «laici» col loro atteggiamento hanno deciso storicamente della sorte del comunismo in Italia. E se il comunismo oggi è in difficoltà, lo si deve al coraggioso comportamento allora assunto.
    Ma i laici non devono dimenticare che allora hanno scelto tra democrazia e comunismo, non fra Democrazia cristiana e comunismo. Superata la fase critica della democrazia italiana, ridotto il fatto comunista alle reali proporzioni, essi non devono lasciare l’Italia alla Democrazia cristiana e non devono accettare la posizione di inferiorità politica e ideale che Luigi Sturzo dipinge così brutalmente ma così efficacemente.
    La svolta storica del 1947 ha significato d’importanza se i «laici» sanno sentire i nuovi problemi politici e i nuovi ideali. Se una volta allontanato il pericolo comunista sanno affrontare il problema del peso prevalente della Dc e della necessità di un’alternativa. Nessun Paese è dominato, nella vita democratica, da un solo partito, come l’Italia. Nessun Paese ha bisogno di creare più normali condizioni di vita democratica.
    I partiti laici ufficiali non hanno sentito finora la necessità di questa seconda fase della loro azione. Bisogna che se ne accorgano. Altrimenti i sacrifici compiuti finora avranno perduto il loro significato ideale e politico. E lo spregio dei cattolici più spregiudicati nonché il giudizio negativo del Paese accompagneranno la loro ulteriore azione.

    Ugo La Malfa
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