[Giovanni Conti] – Due momenti di una visione unitaria (1968)
In AA. VV., “La democrazia repubblicana di Giovanni Conti”, Edizioni della Voce, Roma 1968, pp. 19-22.
Ho conosciuto Giovanni Conti, per la prima volta, nel 1943, quando il Partito d’Azione era già stato fondato e lanciato nella battaglia politica italiana. Mi accompagnava, nella visita, Oronzo Reale ed il colloquio non fu dei più facili. Giovanni Conti mi si rivelò immediatamente come una forte tempra di combattente democratico, legato, di amore assoluto ed intransigente, al patrimonio, alle tradizioni, alle battaglie della scuola repubblicana e del Partito che la esprime. Io manifestavo, allora, tutta l’ansia, che fu propria del Partito d’Azione, di un rinnovamento delle forze politiche, e di una nuova e più moderna impostazione dei problemi della società democratica. Oronzo Reale, che aveva già aderito al Partito d’Azione, doveva costituire il legame tra le due posizioni.
Il colloquio, tuttavia, non ebbe successo, e non ebbero neanche fortuna i successivi ripetuti tentativi, fatti sempre da me e Reale, di legare e unificare le due esperienze, la tradizionale e la innovatrice, e soprattutto la grande presa politica che, attraverso la Resistenza, il Partito d’Azione si era conquistata soprattutto nell’Italia settentrionale, e la grande presa politica che il Partito repubblicano italiano manteneva nelle zone tradizionali dell’Italia centrale-meridionale, oltre che nella Romagna. Vi furono, al riguardo, irrigidimenti in quella parte del Partito d’Azione che guardava al socialismo e irrigidimenti anche da parte di repubblicani (anche da parte di Conti) che diffidavano del nuovo partito e si ritenevano fermamente legati alla tradizione. E fu un gran male, poiché della creazione di un grande e forte partito democratico che non fosse ideologicamente né socialista né liberale, furono allora perdute le possibilità, ed è ora assai faticoso recuperarle, senza un prolungato, vasto e robusto sforzo.
Dissoltosi il Partito d’Azione, la confluenza di una parte degli azionisti, fra cui me e Reale, nel Partito repubblicano fu più che naturale, ed il problema di saldare le due esperienze si pose all’interno del Partito stesso. Debbo sinceramente ammettere che, nonostante il grande e forse decisivo apporto dato dal Partito d’Azione alla battaglia istituzionale, uno stato di quasi gelosa preoccupazione continuò a perdurare in Giovanni Conti, fin quasi alla soglia degli ultimi due anni della sua vita. E si sciolse soltanto quando egli comprese che non era il problema del potere o del governo, quello che più impegnava le energie provenienti dall’azionismo, ma il problema dello sviluppo della vita democratica del nostro Paese, fondato sulla doppia esperienza vissuta ed elaborata dalla corrente democratica del Risorgimento e dai suoi continuatori, l’esperienza appresa dalle grandi civiltà democratiche più avanzate dell’Occidente, dal corso storico delle quali il fascismo ci aveva isolato.
Mi si lasci dire che il punto di saldatura fra la grande coscienza democratica, fondata sulle dottrine della scuola repubblicana, di Giovanni Conti e una coscienza democratica, profondamente presa da quella tradizione, ma anche dalle indicazioni che le società democratiche moderne erano andate fornendo, fu raggiunto proprio in quel momento. Ed è stato un irreparabile danno per la democrazia, e per il Partito repubblicano italiano, che Giovanni Conti avesse abbandonato la vita proprio in quegli anni. Una piena e intensa collaborazione, per lungo tempo ancora, sulla base dell’integrazione delle due diverse esperienze di vita, avrebbe dato alla democrazia e al Partito frutti ben più vasti e copiosi di quelli che, in diversa e più difficile condizione, si sono potuti raccogliere.
In che consisteva, di fatto, l’esigenza di saldatura fra le due esperienze? Nessun uomo, più di Giovanni Conti, è riuscito a vivere le strutture dello Stato democratico, la vita stessa di una società democratica, quale il pensiero repubblicano era andato elaborando, come lui li viveva. Lo Stato, il Comune, la Regione, erano da Giovanni Conti concepiti, non come centri di potere e di comando, ma come organizzazioni di vita collettiva, al servizio dei cittadini, come amministrazione stessa operata dai cittadini, e da questa concezione fondamentale discendevano le configurazioni concrete degli istituti, quali egli, con Zuccarini, fece valere alla Costituente. Ma quando a questi istituti bisognava dare un compito, che fosse anche economico e sociale, nel significato più proprio di questa espressione, istintivamente il suo interesse si rivolgeva al liberalismo economico, come a quella concezione che gli pareva garantirlo contro le degenerazioni parassitarie dell’esercizio della funzione pubblica.
L’altra esperienza diceva che la società moderna non può risolvere i problemi di una democrazia economica attraverso il puro liberismo economico. Bisognava che gli istituti democratici non evadessero il problema di un indirizzo da dare alla vita economica e sociale, ma si arricchissero di nuovi compiti, non per opprimere i cittadini, o per ampliare zone di potere discrezionale, ma per assicurar loro una maggiore ricchezza di vita economica, sociale, culturale. Il passaggio da una semplice concezione autonomistica dell’organizzazione dello Stato e della società a una concezione autonomistica nel quadro di una visione globale dei problemi (dei quali è espressione moderna la programmazione), ha rappresentato grosso modo, il passaggio che Giovanni Conti non poteva ovviamente compiere ai suoi tempi e con la sua esperienza, ma della cui necessità egli cominciava ad essere convinto. Naturalmente si tratta di un passaggio fra i più difficili, nel quale si rischia o di rimanere nel vecchio principio autonomistico, senza comprendere il valore innovativo di una visione globale dei problemi, o di saltare a piè pari ad una visione globale dei problemi di carattere autoritario, dimenticando il principio autonomistico e di espressione di volontà alla radice, che costituisce la base stessa del vivere democratico.
Quei molti anni, nei quali la presenza viva di Giovanni Conti poteva servire a legare sempre più intimamente e con forte apporto critico le due esperienze, oggi fondamentali per il Partito, ci sono sfortunatamente venuti a mancare. Ma per chi deve vivere nel mondo attuale, con i problemi estremamente complessi e talvolta contraddittori che esso ci mette dinanzi, la presenza di Giovanni Conti, col patrimonio di idee della scuola repubblicana, quasi contenuto in un denso e concentrato breviario, è lì ad ammonirci. Ad ammonirci di non fare salti nella storia, e di legare la gloriosa esperienza del passato alle ferree necessità del presente, nella coscienza del divenire stesso del pensiero democratico.
Ugo La Malfa
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