Ma non basta. Sugli stessi media che fanno da grancassa quotidiana alla campagna di delegittimazione e di discredito di cui ho detto, si fanno sempre più pressanti le richieste di mettere ai margini tutti quei magistrati che in quella stagione avevano condotto le inchieste più delicate su mafia e politica. La situazione si surriscalda, segnando un punto di svolta, quando nel settembre 2002 all’interno della Procura scoppia il caso Giuffrè.
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Cosa accadde?
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Antonino Giuffrè era un componente della Commissione di Cosa nostra, un cervello pensante che inizia a collaborare dopo l’entrata in vigore di una nuova legge che imponeva di raccogliere tutte le dichiarazioni dei collaboratori entro centottanta giorni, pena l’inutilizzabilità delle dichiarazioni successive. Un tempo assolutamente esiguo se si considera che personaggi come Giuffrè hanno trascorso una intera vita a delinquere, che sono a conoscenza di una miriade di fatti, e che a volte la loro memoria deve essere sollecitata o si riaccende a seguito di un nuovo spunto. Inoltre al termine di centottanta giorni devono essere sottratti i giorni nei quali il collaboratore è impegnato in udienza o è variamente impedito. Ebbene, il nuovo procuratore Piero Grasso decide autonomamente di impiegare gran parte del tempo per interrogare Giuffrè su fatti di ordinaria criminalità mafiosa, non formula domande sulla miriade di fatti scottanti per i quali erano in corso varie indagini e che coinvolgevano i rapporti mafia-politica (come il processo Andreotti, il processo Dell’Utri eccetera). Dopo di ciò, senza essersi curato in tutto quel tempo di avvisare della collaborazione la Procura di Caltanissetta che indagava sulle stragi, rende di pubblico dominio la collaborazione in una conferenza stampa in occasione di alcuni arresti, precludendo così di fatto a quei magistrati la possibilità di interrogare Giuffrè e di svolgere indagini segrete prima che la collaborazione divenisse nota.
E in Procura è scontro...
Questa scelta di Grasso viene apertamente contestata da me e dal procuratore aggiunto Lo Forte e criticata da quasi tutti i componenti della Direzione distrettuale antimafia (circa una ventina) nel corso di una infuocata riunione, il 27 settembre, che si protrae sino a notte fonda. Dopo quella riunione, inizierà una nuova fase della collaborazione di Giuffrè. Poco dopo viene revocata la disponibilità, che in un primo tempo era stata pubblicamente dichiarata da vari esponenti politici, a varare una modifica legislativa per prolungare i termini di centottanta giorni, troppo esigui. Così ci si dovrà scapicollare per tentare di esaurire la raccolta delle dichiarazioni, e molte cose non vi fu neanche il tempo di metterle a verbale entro i termini.
Che il nuovo procuratore intendesse segnare una discontinuità dalla stagione precedente era apparso chiaro da una serie di segnali inequivocabili.
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Quali?
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Mi limito a indicarne solo alcuni di pubblico dominio:
— La mancata controfirma dell’appello avverso all’assoluzione di Andreotti in primo grado;
— Le ripetute prese di distanza sulla stampa dai precedenti processi mafia-politica. sviliti come «processi spettacolo inutili contro la mafia», «processi deboli, seppure spettacolari». Dichiarazioni queste che non solo screditavano il passato, ma, soprattutto, delegittimavano i sostituti procuratori che in quei frangenti erano impegnati quotidianamente in udienza a portare avanti dibattimenti contro imputati eccellenti in processi iniziati prima dell’arrivo di Grasso e che erano soggetti a continui attacchi da parte di un certo mondo politico;
— La lenta emarginazione dei magistrati che erano stati protagonisti della precedente stagione, mediante una gestione accentrata delle informazioni. Di fatto viene largamente svuotato il principio cardine del pool antimafia:
la circolazione e la socializzazione delle informazioni processuali. Principio che Falcone, dopo l’amara esperienza personale vissuta proprio alla Procura di Palermo alla fine degli anni ottanta, aveva insistito perché venisse tradotto in una specifica norma di legge.
Voi però reagiste.
Ma a nulla valevano le lettere di protesta. A nulla le richieste di convocazione rivolte al Csm firmate da quasi tutti i procuratori aggiunti e da decine di sostituti per una audizione di tutti i magistrati della Procura al fine di comporre le fratture che si erano verificate all’interno dell’ufficio.
Anzi, ogni nuova forma di protesta determinava la richiesta da parte di esponenti del centrodestra al Csm di aperture di pratiche di trasferimento d’ufficio nei confronti dei magistrati che osavano protestare e la mobilitazione in Parlamento di decine di parlamentari del Polo in sostegno di Grasso.
E alla fine?
Alla fine, con una serie di passaggi burocratici io e il procuratore aggiunto Lo Forte veniamo estromessi dalla Direzione distrettuale antimafia.
Un componente del Csm venne a vantarsi a Palermo dinanzi ad alcuni miei colleghi di avere suggerito l’ingegnoso stratagemma burocratico che aveva consentito di estrometterci dall’antimafia.
Successivamente verrà estromesso dalle indagini sul presidente della Regione Salvatore Cuffaro il sostituto Gaetano Paci, il quale dissentiva dalla scelta di non contestare a Cuffaro il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, così com’era avvenuto per altri colletti bianchi coinvolti nella medesima vicenda.
Progressivamente si perde la possibilità di una lettura collettiva da parte del pool delle dinamiche globali dell’universo mafioso. La visione di insieme resta prerogativa unica del procuratore capo e dei pochi aggiunti e sostituti che ne condividono i metodi. Alcuni, mortificati, lasciano la Procura trasferendosi in altri uffici.
E nel frattempo a Roma che accadeva?
Si emanava una legge che, come viene pubblicamente dichiarato dal senatore Luigi Bobbio, aveva l’obiettivo di impedire a Caselli di partecipare al concorso per il posto di procuratore nazionale antimafìa.
Contemporaneamente viene depotenziata la Direzione investigativa antimafia, l’organismo di polizia interforze fortemente voluto da Falcone sul modello del Fbi che aveva condotto quasi tutte le più importanti indagini su mafia e politica e che per questo motivo era stata definita dal senatore Cossiga l’Ovra della seconda Repubblica.