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Discussione: Codex Seraphinianus

  1. #1
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    Un moderno e ironico manierista, Luigi Serafini, ha "scritto" e miniato, in tre anni di vita segregata, un libro bizzarro e surreale: è lo straordinario Codex Seraphinianus, edito nel 1981 da Franco Maria Ricci. Si presenta sotto forma di dizionario enciclopedico in cui sono trattati i più svariati argomenti: dal giardinaggio all’anatomia, dalla chimica all’aeronautica. E poi piante, animali, macchine, moda, alimentazione…

    La particolarità di questo volume sta nel fatto che è scritto in una lingua immaginaria, completamente inventata, che nessun esperto al mondo potrai mai decifrare, ma che può essere intuita, perché carica di significato emotivo. E… "ascoltata" ad occhi chiusi.

    Luigi Serafini è nato a Roma nel 1949. Giramondo e architetto, racconta-storie e gastronomo, scenografo e costumista per il Teatro della Scala e la televisione, ha aperto un laboratorio di ceramica al confine tra l'arte e l'artigianato, si è occupato di pittura e di design per l'industria (gli oggetti da lui progettati sono prodotti da Artemide, Edra, Kundalini), ha scritto vari racconti ( Bompiani, Archinto) e pubblicato articoli su diverse riviste.

    Ma è meglio lasciar parlare le immagini…

  2. #2
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    Questa è una specie di "Stele di Rosetta", a dire il vero assai poco illuminante ai fini della decodificazione, dal momento che accosta la lingua del Codex ad un sistema di scrittura geroglifica altrettanto immaginaria.

  3. #3
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  4. #4
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    Il Codex è nato senza ragioni particolari nel corso di una specie di trance iniziata per caso e durata due anni e mezzo.
    "Mi ricordo il giorno e la circostanza", racconta Serafini. "Un pomeriggio del 1976 mi chiama un amico e mi dice: passo a prenderti che andiamo al cinema. E io senza sapere bene perché gli dico: no, resto a casa, devo fare un'Enciclopedia. E quando metto giù il telefono, comincio davvero a disegnare. Comincio da un uomo, poi un cacciavite, una foglia, un ingranaggio. E scrivo, riga dopo riga, didascalie immaginarie, scivolando in automatico: segni danzanti e pause bianche... Una tavola dopo l'altra, senza sbagliare mai, per giorni, settimane, mesi". Creando una scrittura che è come acqua sul vetro: trasparente, ma impenetrabile. E che ci fa sentire nel modo esatto descritto da Calvino: "sempre a un pelo dal poter leggere".



  5. #5
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    «Mi piaceva l'idea di giocare con la vita, di assecondare le continue trasformazioni dell'uomo e della natura. L'idea di non limitarmi a cambiare il mondo, come si diceva nelle piazze di allora, ma addirittura a inventarne un altro da principio». Serafini finisce il suo Codex a metà del 1978. Impiega altri due anni a trovare un editore abbastanza pazzo da pubblicare un libro che costa dieci volte più di qualunque altro e che, in compenso, non si può leggere. «Quando arrivai da Franco Maria Ricci — racconta — mi sentivo come un salumiere esausto che gira con il suo prosciutto di marmo e cerca di venderlo a fette». Ricci, invece, gli compra tutte le tavole. E le pubblica in due volumi, con cofanetto di seta nera, gioiello tipografico che va subito esaurito (su eBay, oggi, l’edizione di F. M. R. viaggia tra i 15 e i 20mila euro).

    Il Codex diventa così un libro di cui si parla, ma che non si trova in giro, e resiste nella semi-clandestinità per 25 anni. Poi, nel 2006, Rizzoli decide di ristampare quest'opera: oltre trecento pagine in un volume unico, nove tavole inedite e un libretto accluso, Decodex, con una serie di interventi critico-riflessivi su questo oggetto unico. Prezzo? 89 euro. A mio parere spesi benissimo.


  6. #6
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  10. #10
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    Vittorio Sgarbi

    L’INVENTORE DEGLI UNIVERSI PARALLELI



    Se si escludono alcune geniali figure dell’avanguardia storica, in ogni artista c’è un piccolo imprenditore che può crescere fino a diventare un industriale che si applica con molta convinzione a costruire un’opera che abiti nella storia, con motivazioni e ragioni profonde. Quell’artista è, per sua natura, impegnato: crede di dover dare delle risposte al proprio tempo, è come se fosse guidato da un’idea a cui l’intera sua opera deve corrispondere, pure in fasi stilistiche diverse, in periodi che sono sintonizzati con il tempo. Un’età richiedeva il Cubismo, l’era successiva il Surrealismo e poi l’Informale, e poi la Pop Art: l’artista deve essere "sincrono".
    Quasi che una necessità storica indicasse la direzione dell’arte: in questa serietà, in quest’impegno, nell’alta considerazione di sé che ogni artista esprime si produrrebbe una noia infinita se da alcuni artisti non si levasse un’emozione, una sensazione di verità che li rende necessari come la vita. Come avvertiamo davanti a Caravaggio, a Velàsquez, a Goya, a Varlin. In loro l’essere prevale sul dover essere. E’ difficile però sottrarsi all’impressione di noia che viene dall’opera di Mirò, di Picasso, di Andy Warhol. Molti artisti si precludono ogni sorpresa, ogni emozione imprevista.

    Deve aver capito questo, molti anni fa, il più severo e applicato degli artisti, che io ho seguito in questi decenni, Luigi Serafini, impareggiabile miniatore e instancabile artigiano, che all’arte chiede di essere un paradiso per bambini. Ma guai a chi pensasse che, in questo clima, egli si appplichi con l’attitudine del dilettante. E’ vero il contrario: anche Serafini è serissimo, come tutti i suoi colleghi artisti, ma il suo spirito è diverso, perché egli sembra pensare come se la storia non esistesse, costringendosi continuamente a produrre mondi nuovi, un universo parallelo, proprio con la stessa serietà con cui un bambino domina un mondo inventato a suo piacimento. A ciò si aggiunga che Serafini, come un artista antico, è capace di far tutto: architetto, scultore, pittore, orafo, sarto, ricamatore, vetraio, ceramista. Il suo desiderio di possedere tutte le tecniche sembra, talvolta, la ragione stessa della sua opera.
    Cominciò quest'ardua impresa disegnando, senza committente, quindi senza altre ragioni che non fossero dentro se stesso, un codice rinascimentale denominato Codex Seraphinianus, con una sovrabbondanza di tavole e di illimitate invenzioni, per illustrare un mondo che non esiste, in equilibrio tra Leonardo ed Eta Beta, del primo possedendo la mano e il talento, del secondo le soluzioni impossibili.

    Con questo monumentum aere perennius egli si è iscritto con tutti i titoli al circolo dei surrealisti con qualche decennio di ritardo, ma senza alcuna nostalgia o gusto retrò. Serafini la sua parte l’ha fatta, sfidando le coordinate della storia. Dovrà spiegare invece la critica per qualre ragione non abbia registrato quest’impresa tra le testimonianze di un’epoca piuttosto povera di inventori di immagini nuove. Certo, Serafini si era scelto il genere più difficile e segreto, ma non certo per sfuggire al mondo. Si deve essere alzato un giorno, nei dolorosi anni Settanta, e deve aver pensato: “Sto rischiando di passare senza lasciare un segno. E’ bastata questa preoccupazione per indurlo, un segno dopo l’altro, a riempire fogli e fogli dei suoi pensieri, non più perduti e collaudati in immagini.

    E così un capitolo fu chiuso e una vita fu compiuta. Riparato nelle casse funebri del suo nero-dorato editore (Franco Maria Ricci), Serafini si è accontentato di essere un’anima insoddisfatta alla ricerca di altri corpi in cui abitare. Ed è così cominciata la lunga serie di metempsicosi, di spostamenti del suo spirito già perfettamente calato negli innumerevoli segni del Codex in forme nuove: nella ceramica soprattutto e nel disegno industriale, mai prima di allora così creativo, non perché fantasioso, ma perché assurdo, antifunzionale, antirazionale.
    Serafini non ha mai inventato un bicchiere in cui si potesse bere, una sedia su cui ci si potesse sedere, un vaso che potesse contenere qualcosa. Tutto ciò che è uscito dalle sue mani aspira semplicemente ad essere, come ogni opera d’arte che rifugge all’uso. Così egli ha messo insieme Cellini e Duchamp, una saliera da rubare per portarla giustamente sulla propria tavola e un orinatoio usato fuori uso, da mettere in un museo, inseguendo assurdità e stravolgimenti.

    Serafini è il deposito della fantasia, che sfugge al controllo di ogni epoca, e se il tempo richiede i teoremi da vetrinista di Giulio Paolini e le vetrine d’artista di Giorgio Armani, Serafini deve creare uno sgocciolatoio per una casa senza tetto, perché l’acqua da qualche parte deve passare, ma egli lo immagina per il deserto, senza architetture e senza acqua. Egli vive in una perenne condizione di miraggio.Anche il suo Pulcinella non è napoletano, ma forse scozzese o lituano o di un altro meridione del mondo.




    Da Pulcinellopedia


    E poi non basta: è arrivato il momento di dipingere, ed è l’ultima cosa che interessa a a Serafini. Per questo vi si applica con grande impegno e con nessuna perizia. Tutto il mondo dei disperati e dei sopravvissuti al Codex per tanti anni sequestrati in quei sarcofagi, si riaffaccia e preme e urge, e chiede di tornare a vivere. I dipinti Serafini li deposita su grandi e medie tele, riprendendo le sue storie dell’assurdo. […] Serafini aspira, con maggior soddisfazione, più al ruolo di regista o di mago. In verità, proprio sul volgere dei trentasette anni, egli sembra aver avviato un processo di transustanziazione analogo a quello per il quale dovette passare come in un cerchio di fuoco, restando indenne, il Parmigianino. Il vero e proprio processo alchemico della pittura, in fondo, per Serafini è meno importante, molto meno importante della trascrizione dei sogni: quindi si applica con metodo, creando il più formidabile repertorio di immagini che mai sia stato concepito e realizzato.
    Siamo così davanti a tele che mettono in scena un prodigioso teatro dell’assurdo, il cui antefatto possiamo reperire nell’opera di Hieronymus Bosch o negli incanti e negli incantesimi di Vittore Carpaccio. Carpaccio non pinxit, ma finxit. E proprio a una sintassi e a una finzione di quel tipo si possono far risalire i racconti sadici e perversi, ma anche ingenui e infantili di Serafini che, a ogni buon conto, insieme alla grammatica rinascimentale, ha certamente fatto scorta anche di molte annate di Cocco Bill dell’irrangiungibile Jacovitti, una cui sola illustrazione vale tre edizioni della Biennale. Ma, ahimé, dalla Biennale, come temperamento non abbastanza sincrono, è assente da ben più di tre edizioni Serafini. E mentre di questo non si rammarica e non si stupisce, ad esempio, un illustratore incantato come Roberto Innocenti,, molto se ne rincresce, e molto di più io me ne indigno, l’innovatore insaziato che è in Serafini. Così oggi, con il suo fardello di tele e di sogni senza fine, alla Biennale Serafini entra da clandestino, e pianta la sua bandierina in un territorio ostinatamente nemico, dimostrando però la sua grazia e la sua gentilezza nel non volersi dichiarare estraneo, e anzi appare, pur nel di più di talento e fantasia, perfettamente adeguato alla funesta occasione, più funerale che matrimonio. Ma per lui tardivo battesimo, sacramento di aurorale innocenza, dopo il quale è auspicabile che Serafini entri nell’età del peccato, in una prossima incarnazione.
    Non sarà così per i suoi personaggi. Usciti dai quadri, come per effetto della vernice del dottor Alambicchi, diventeranno vivi e cominceranno a camminare per il mondo, per la gioia dei piccoli. Gli unici che non si lasciano ingannare.

    Pubblicato su Il Giornale del 22 giugno 2003 in occasione della partecipazione di Luigi Serafini alla 50a Biennale di Venezia


    Grazie all'autore che me lo ha cortesemente inviato.

 

 
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