“Sfidai gli assassini del tassista
Oggi non testimonierei più”
Il racconto: “Ho dovuto cambiare casa e ho perso il lavoro,
vado avanti a psicofarmaci”
Come diceva Don Abbondio, uno il coraggio non è che se lo può dare. «Se tornassi indietro, non so se rifarei quello che ho fatto, dopo quella testimonianza vivo con gli antidepressivi e faccio fatica a dormire. Ho perso il lavoro e ora anche la casa».
Ma se adesso Gianluigi Ricotti ha paura, nessuno ha il diritto di giudicarlo. Perché questo giovane elettricista di 34 anni, padre di una bambina di due, il coraggio l’ha consumato tutto il giorno che decise, unico in tutto un quartiere, di presentarsi a testimoniare per la morte del tassista Luca Massari, ucciso a botte da tre balordi in via Ghini, periferia Sud di Milano, case popolari equamente divise tra buoni e cattivi. Lui stava con i buoni. La sera stessa dell’omicidio gli bruciarono la macchina perché i cattivi erano cresciuti con lui nello stesso cortile e quando Ricotti si affacciò al balcone per fumare una sigaretta dopo pranzo, li vide che picchiavano con cattiveria il povero tassista, colpevole di aver investito un cane sfuggito al guinzaglio della sua padrona. «Urlai: basta fermatevi, lo state uccidendo». Lo riconobbero al volo. Di notte gli misero a fuoco l’auto, di giorno citofonarono in casa del padre chiedendo di lui. Un incubo.
Eppure Ricotti, tra i tanti testimoni che all’inizio del processo mandarono lettere ai giudici dicendo che non si sarebbero presentati perché avevano paura, fu l’unico, insieme a suo padre e sua madre, a venire in aula. E a raccontare ciò che aveva visto, facendo crollare miseramente la tesi della difesa che voleva per quell’omicidio un unico responsabile. Alla fine furono condannati in tre: i due picchiatori Michel Morris Ciavarella a 16 anni, Pietro Citterio a 15 e in primo grado la sorella di lui, Stefania, la ragazza cui era sfuggito il cane, considerata l’istigatrice del pestaggio: 10 mesi. Ricotti aveva fatto il suo dovere, né più e né meno. Come dovrebbe essere normale in un paese normale. Gli diedero anche l’Ambrogino d’oro. Poi il processo si chiuse, la medaglia finì in un cassetto e lui si ritrovò in quartiere da solo, con una bambina appena nata e gli sguardi ostili dei vicini. È dura per un elettricista essere chiamato a far riparazioni quando in zona ti vedono come un appestato.
Ricotti prese moglie e figlia e decise di trasferirsi. Un piccolo appartamento dignitoso nella campagna pavese, a 550 euro al mese. Troppo per chi si deve rifare una clientela e una vita nel pieno della peggiore crisi finanziaria dell’ultimo secolo. A un certo punto non ha più avuto soldi per pagare. Venerdì scorso si è presentato all’udienza per lo sfratto e il giudice non ha potuto far altro che confermarlo. Poi però ha chiamato una giornalista perché se la legge ha il cuore duro, gli uomini che la interpretano talvolta dispongono di un’anima. «Possibile che non si possa far niente per lui?». Così la storia di Ricotti ha cominciato a circolare per le redazioni, un consigliere comunale dell’ex Idv, Raffaele Grassi, ha presentato una nota in consiglio chiedendo che il Comune si ricordasse di quel cittadino che aveva premiato e che per l’omertà di un quartiere aveva perso il sonno e il lavoro. Una piccola macchina della solidarietà si è messa in moto.
Ieri il sindaco Giuliano Pisapia, a margine di un convegno a palazzo di Giustizia, ha spiegato che del caso si sta occupando l’assessore alla Casa Daniela Benelli che dovrebbe aver trovato per Ricotti e la sua famigliola, lontano, s’immagina, dal quartiere in cui è stato messo al bando, una casa. Lui, Gianluigi, adesso vive sospeso tra la speranza e la paura, vorrebbe che il suo nome non finisse sui giornali: «Non voglio attirare di nuovo l’attenzione. Non è tanto la paura per me quanto per mia figlia: se dovesse succedermi qualcosa chi si prenderebbe cura di lei e di mia moglie? Ho bussato a tutte le porte per trovare lavoro, mi sono anche proposto per le pulizie. Avvilente. Ma quando questi usciranno di galera, io non sarò tranquillo. A cosa serve il coraggio se poi ti lasciano solo?».
La Stampa