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Discussione: Lavoro per tutti

  1. #21
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    Predefinito Re: Lavoro per tutti

    Queste mostruosità passate senza troppo clamore mediatico dai mass media , compresi quelli indipendenti , sono il segno dell'intrinseca malvagità dei tempi moderni , siamo in un mondo totalitario , ma il problema è il fasssismo e chi vuol porgere un'argine a tutto questo .Eppure la socialità di uno stato è in contrasto con la libertà che tutti , uomo della strada compreso desiderano .
    Il problema per il Socialismo Nazionale è incarnare quel senso di autorità che fa da argine al caos , una figura che psicologicamente la società occidentale ha rigettato , una figura paterna , regolatrice che tutti tutela contro le passioni e gli istinti smodati , di cui il voler la tecnologia dappertutto ne è un'esempio .
    Il Silenzio per sua natura è perfetto , ogni discorso, per sua natura , è perfettibile .

  2. #22
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    Predefinito Re: Lavoro per tutti

    http://it.finance.yahoo.com/notizie/...--finance.html
    La ricerca, settimana di lavoro di 50 ore per 'competere' con colleghi-robot
    Adnkronos News
    Adnkronos News – 18 minuti fa
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    La ricerca, settimana di lavoro di 50 ore per 'competere' con colleghi-robotVisualizza foto
    La ricerca, settimana di lavoro di 50 ore per 'competere' con colleghi-robot
    Roma, 6 mag. (Labitalia) - La settimana di lavoro potrebbe arrivare a 50 ore, per fare fronte all'infaticabilità dei robot, sempre più richiesta dal mercato del lavoro. Un'ipotesi, questa, lanciata da una recente ricerca, commissionata da Xpatjobs.com, a un gruppo di futurologi. "Il poco lavoro che sarà disponibile -spiega- sarà conteso non solo tra gli esseri umani, ma metterà in competizione questi con macchine sempre più intelligenti, capaci di svolgere i propri compiti in maniera precisa e rapida".
    "Entro il 2040 -prospettano i ricercatori- le cabine saranno gestite dai robot di Google, i negozi diventeranno showroom virtuali e i call center saranno gestiti da droidi intelligenti".
    E, proprio per vincere la competizione con le macchine, "il futuro riserva alcune sconcertanti scenari per l’uomo che verrà", sottolineano: "La chirurgia plastica sarà in grado di offrire nuovi upgrade cerebrali per potenziare le capacità di calcolo del nostro cervello. Saranno, inoltre, disponibili impianti bionici per eseguire i compiti lavorativi più velocemente e in maniera precisa".
    Lo scenario prevede che "ci occuperemo di diversi micro-lavori, gestendoli dalla scrivania di casa propria, a cavallo di diversi fusi orari: ciò segnerà la fine del pendolarismo, dell’happy hour post-ufficio con i colleghi e della festa di Natale in ufficio".
    "Gli annunci di lavoro del 2040 -continua- conterranno richieste per ruoli che oggi sarebbero irriconoscibili, legati allo sviluppo sempre più rapido della tecnologia".
    Secondo lo studio, inoltre, "sicurezza web, sviluppo software, robotica e persino la chirurgia bionica saranno tutti settori chiave del prossimo trentennio: la cura della popolazione che invecchia sarà un settore in crescita, con il relativo crescente fabbisogno di nuovi alloggi".
    E l'ipotesi non è poi così remota, visto che secondo l'International federation of robotics, "nel 2014 le vendite dei robot industriali si sono impennate del 27% rispetto ai 12 mesi precedenti, nonostante una crisi ancora particolarmente acuta in un mercato importante come quello europeo". "La richiesta maggiore è arrivata dall’Asia (in particolare dalla Cina e dalla Corea del Sud), ma nuovi livelli di picco sono stati raggiunti anche in Occidente", precisa.
    La domanda globale di robot industriali, sottolinea, "ha, infatti, toccato le 225.000 unità, di gran lunga il più alto livello mai registrato in un anno". "Si prevede che già nel 2017 ci saranno più robot industriali in Cina che in Europa e Nord America, e la 'fabbrica del mondo' dipenderà sempre più dalle macchine. Le 200mila unità installate oggi raddoppieranno a 400mila, lasciandosi alle spalle il Nord America (dove i robot industriali dovrebbero crescere fino a quota 300mila) e l’Ue (340mila le unità previste tra due anni)", fa presente.
    Guardando a Oriente, "la Cina ancora oggi ha una bassa intensità di robot nelle proprie industrie manifatturiere, 30 robot industriali ogni 10mila operai, dieci volte meno di quella già in dote a stati come la Germania: se i trend attuali di crescita saranno confermati, le cose cambieranno però molto presto", conclude.
    Ultima modifica di Avanguardia; 06-05-15 alle 16:29
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  3. #23
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    Predefinito Re: Lavoro per tutti

    Notizie di libri e cultura del Corriere della Sera

    FUTURO PROSSIMO LA POLITICA FATICA A REGOLARE E GUIDARE IL PROCESSO. LA SFIDA DELLA SCUOLA

    E il robot prepara cocktail e fa la guerra

    Si moltiplicano le attività svolte da macchine

    Per non soccombere agli automi che facilitano la nostra vita ma si prendono, anche, i nostri lavori, Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, docenti del Mit di Boston e autori di The Second Machine Age, un saggio appena arrivato nelle librerie americane, propongono una rivoluzione della scuola: formazione dei giovani spostata verso le materie scientifiche e accumulo delle nozioni, ormai raggiungibile più facilmente con l’aiuto delle macchine, sostituito da un insegnamento più orientato alla creatività, allo sviluppo del pensiero critico e anche dell’empatia. Soltanto così cavalcheremo con successo la tecnologia creando nuovi mestieri e ricchezza diffusa.
    In Future Jobs Ed Gordon, storico dell’economia e presidente di Imperial Consulting, propone anche lui una rivoluzione del sistema scolastico, ma aggiunge che non verremo fuori da questa situazione se non trasformeremo da capo a fondo una burocrazia che vuole continuare a funzionare utilizzando i meccanismi di un mondo che non c’è più. E pensa che per spingere le aziende ad attenuare la corsa verso la sostituzione della manodopera con le macchine sia utile consentire agli imprenditori di detrarre dall’imposizione fiscale, oltre agli investimenti in impianti, anche quelli in capitale umano.
    Lord Martin Rees, docente di Astrofisica all’Università di Cambridge e astronomo della Regina, la vede un po’ diversamente: i robot sono utili per lavorare in ambienti proibitivi per l’uomo — piattaforme petrolifere in fiamme, miniere semidistrutte da un crollo, centrali in avaria che perdono sostanze radioattive — oltre che per svolgere mestieri ripetitivi. Ma devono restare al livello di «utili idioti: la loro intelligenza artificiale va limitata, non devono poter svolgere mestieri intellettuali complessi. L’astronomo della Corte d’Inghilterra, occhi rivolti più alle glorie del passato che alle speranze e alle incognite di un futuro comunque problematico, propone una ricetta che sa di luddismo. Una ricetta anacronistica ed estrema che si spiega con l’angoscia che prende molti di noi davanti alla rapidità con la quale la civiltà dei robot — della quale abbiamo favoleggiato per decenni e che sembrava destinata a restare nei libri di fantascienza — sta entrando nelle nostre vite. Che i robot stiano uscendo dalle fabbriche lo sappiamo da tempo: il bancomat è un bancario trasformato in macchina, in servizio notte e giorno. In molti supermercati il cassiere non c’è più, sostituito da sensori, lettori di codici a barre, sistemi di pagamento automatizzati. In Giappone e Francia si moltiplicano treni e metropolitane guidati da un computer (è così la nuova Linea 5 della metropolitana di Milano), così come tutti i convogli che si muovono all’interno dei grandi aeroporti del mondo sono, ormai, senza conducente.
    Ne abbiamo dato conto ripetutamente, anche sulle pagine della «Lettura». Si torna a discuterne animatamente oggi perché, mentre la politica sembra avere altre urgenze (riforme istituzionali e dei sistemi elettorali in Italia, sanità, contenimento del bilancio federale e politiche per il lavoro negli Usa che seguono, però, ancora meccanismi tradizionali), si diffonde la sensazione che i processi di automazione abbiano raggiunto quello che Brynjolfsson e McAfee chiamano il punto d’inflessione: il punto critico oltre il quale la curva di un certo fenomeno si impenna. Un po’ come il tablet e l’ebook, i cui primi modelli sono rimasti per anni in circolazione nello scarso interesse generale: poi all’improvviso, senza rivoluzioni tecnologiche ma grazie ad apparecchi più raffinati e allo sviluppo del software, è arrivato il boom degli iPad e dei Kindle. Ora tocca all’auto di Google che si guida da sola e al drone col quale Amazon vorrebbe fare dal cielo le sue consegne a domicilio.
    Ne parliamo tanto nei giornali e sui siti perché tutto ciò colpisce la fantasia, anche se la sostituzione di autisti e camion delle consegne è ancora lontana, se non altro per motivi regolamentari e requisiti di sicurezza. Ma ci sono molti altri mestieri che il progresso delle tecnologie informatiche sta già meccanizzando con modalità meno spettacolari che non catturano l’attenzione dei media, dai lavori di contabilità alla lettura a raggi X e altre analisi mediche. Andando avanti così, sospirano in molti, nelle fabbriche automatiche ci sarà lavoro solo per l’uomo delle pulizie. Ignorando che sono già diffusi i robottini, figli del Roomba, capaci di pulire ogni angolo dello stabilimento. Mentre il Pentagono studia come sostituire con robot i 50 mila soldati che dovrà eliminare entro la fine del 2015 in base ai tagli di bilancio decisi dal Congresso, ci affascina Monsieur, il nuovo barman automatico costruito da un’industria di Atlanta, in Georgia, che non solo sa qual è il tuo cocktail preferito e lo prepara all’istante, ma raddoppia la dose di alcol se percepisce che sei di cattivo umore.
    Già oggi in molti alberghi il cameriere che al mattino serve caffè, tè e cappuccini è stato sostituito da macchine sofisticate. L’idea che Kibo, il robottino oggi usato per intrattenere gli astronauti durante le lunghe missioni nella Stazione spaziale internazionale, verrà sviluppato in due versioni, baby sitter e badante per anziani, può farci inorridire. Ma 50 anni fa chi si fosse sentito dire che sarebbe salito su un treno senza nessuno ai comandi o che avrebbe preso del denaro da una fessura nel muro avrebbe riso. Irobot restaurant della Cina e del Giappone con gli automi che ti accolgono alla porta e ti portano al tavolo resteranno a lungo una curiosità e probabilmente esagera in sensazionalismo il giovane tecnologo inglese Ben Way che nel suo libro Jobocalypse, l’apocalisse del lavoro, sostiene che addirittura il 70 per cento degli impieghi oggi svolti dall’uomo saranno automatizzabili in 30 anni.
    Terrore tecnologico trasformato in business editoriale? Sì, ma solo in parte, visto che un altro, ben più documentato studio pubblicato di recente dall’università di Oxford fissa a quota 47 per cento il numero dei lavori sostituibili dalle macchine. Anche se ci saranno molte frizioni a rallentare i cambiamenti e i numeri, alla fine, risulteranno minori. È evidente che si è messo in moto un processo imponente che spinge la politica a sfide difficili ma ineludibili: spingere cittadini (ed elettori), già di pessimo umore per il peggioramento delle condizioni economiche generali, a rinunciare a molte delle certezze rimaste, cambiando radicalmente anche il modo di studiare e lavorare. Sfide decisive per il futuro dei nostri sistemi sulle quali la politica è in forte ritardo. E, viste le crescenti difficoltà incontrate dai sistemi democratici nel raggiungere adeguati livelli di consenso politico anche su decisioni relativamente semplici, c’è da chiedersi come ce la caveremo davanti a questioni complesse e controverse che riguardano addirittura l’indirizzo che dovrà essere preso dalla nostra civiltà.
    Twitter @massimogaggi

    Massimo Gaggi
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    Ultima modifica di Avanguardia; 26-05-15 alle 21:56
    FASCISMO MESSIANICO E DISTRUTTORE. PER UN MONDIALISMO FASCISTA.

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  4. #24
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    Predefinito Re: Lavoro per tutti

    Notizie di libri e cultura del Corriere della Sera


    La tecnologia non sempre crea lavoro, scrivevamo sul «Corriere» del 14 gennaio scorso, e all’argomento ha dedicato una bella inchiesta di copertina il penultimo numero dell’«Economist», che avverte sui drammatici effetti occupazionali delle nuove tecnologie. Nessuno può accusare il settimanale britannico di neoluddismo, ma certo la realtà non è quella raccontata da Google, Facebook e altri imperi digitali: la favola bella di una distruzione creatrice che dà con una mano ciò che con l’altra toglie. Per un po’, anzi per un bel po’, vedremo più distruzione che creazione. Ci attende una complicata «fase di adattamento», come del resto è già accaduto nella storia. L’innovazione tecnologica, madre delle rivoluzioni industriali, ha sì portato benefici, ma sempre dopo una fase di sconquassi. Oggi siamo all’inizio di questa prima fase, in cui i vantaggi dell’hi-tech vanno al capitale e all’élite del lavoro (esattamente come agli albori della rivoluzione industriale), lasciando esclusi gli altri e creando nuove, e più profonde, ineguaglianze. La quota di ricchezza in mano all’1 per cento degli americani ricchi è salita dal 9 per cento degli anni Settanta al 22 per cento attuale.
    La rivoluzione tecnologica «classica», dopo le fabbriche e gli operai, ha già drasticamente ridimensionato gli uffici e la classe media, spina dorsale dell’Occidente nel XX secolo: centinaia di lavori impiegatizi, maschili e femminili, dalle banche al commercio, sono stati cancellati. Internet ha «disintermediato», cioè reso inutili molti compiti, come organizzare un viaggio, cosa che molti di noi svolgono per conto proprio online. Un fiume impetuoso ha attraversato il mondo privato, ma che cosa accadrà nelle pubbliche amministrazioni con l’e-government applicato su vasta scala?
    Finora abbiamo parlato di impieghi ripetitivi, di routine. Ma oggi il digitale è a un nuovo passaggio rivoluzionario, potenzialmente in grado di esercitare effetti dirompenti anche sui lavori a più alto contenuto intellettuale grazie al supercomputing, alla biorobotica e all’ubiquità dell’informazione digitale (i cosiddetti Big Data). I ricercatori di Oxford ritengono che nei prossimi vent’anni, anche in molte professioni tecniche e legali, quasi la metà dei professionisti potrebbe essere sostituita dalle tecnologie digitali. Per dirla con Federico Butera, presidente della Fondazione Irso e docente di organizzazione all’Università di Milano Bicocca, «in prospettiva nessun lavoro può dirsi al riparo».
    Pessimista? No, realista. La crescita esponenziale nella velocità di elaborazione dei chip, le capacità delle nuove memorie e le performance degli ultimi super-computer invadono la sfera dell’intelligenza umana. Gli ultimi progressi sono stati rapidissimi, e quasi tutti provengono dagli Stati Uniti, tuttora culla dell’innovazione militare e civile: dieci anni fa, l’idea di un’auto senza pilota sembrava fantascienza, oggi modelli sperimentali di Google car girano per le strade della California.
    La storia ci aiuta a capire. L’industrializzazione ha migliorato il reddito e la vita di grandi masse umane, ma il cammino percorso per arrivare alla meta è stato più impervio e lungo di quanto non si creda, dice Joel Mokyr, storico dell’economia alla Northwestern University. La rivoluzione industriale non fu soltanto sostituzione di muscoli con motori, ma anche reinvenzione del lavoro. Nacque una nuova categoria di esperti, ben pagati e molto richiesti, che riparavano le macchine utensili e guardavano dall’alto in basso la folla dei colletti blu poco qualificati. Ma tra il 1750 e il 1850, sottolinea Mokyr, la qualità della vita per le masse non migliorò in modo significativo: una relativa prosperità, per i lavoratori, è arrivata solo dopo la Seconda guerra mondiale.
    La descrizione del passato contiene alcune impressionanti somiglianze con il presente. I salari dei lavoratori sono stagnanti, anche in Inghilterra e in Germania, da una decina d’anni, perché la sostituzione di lavoro umano con automi è sempre più conveniente. Per questo il denaro, da trent’anni, affluisce sempre più verso il capitale e sempre meno verso il lavoro e, perfino in Paesi come la Svezia, dalla lunga tradizione sociale, le ineguaglianze aumentano. Il lavoro, scrive David Graeber, antropologo della London School of Economics, si divide sempre più tra pochi possessori di competenze e una marea di bullshit jobs (lavori pesanti dequalificati).
    In questo contesto, dice Franco Bernabè, imprenditore ed ex presidente esecutivo di Telecom Italia, «le prospettive di miglioramento per le persone non sono più collettive, legate all’appartenenza a una classe o alla mobilità sociale, ma individuali». E anche per questo i Paesi che vincono nella competizione globale sono quelli in cui il ruolo degli individui è centrale. L’Italia soffre più di altri perché le condizioni che offre all’individuo sono più difficili; mentre il peso della fiscalità, l’eccesso di burocrazia, la lentezza della giustizia civile, il non rispetto delle regole e la difficoltà di accesso ai capitali rendono dura la vita di chi vuole fondare imprese.
    E i famosi posti di lavoro creati grazie alle nuove tecnologie? Quelli verranno, scrive il settimanale inglese, ma non subito. Vero, è esploso il numero delle start-up, che domani produrranno cose di cui oggi non sappiamo di aver bisogno, come ieri i videogiochi o i tablet: ma per ora impegnano una minoranza di capitani coraggiosi e di grande talento. La jobless recovery, la ripresa senza lavoro resta un pericolo concreto.
    Che cosa fare per contrastare la disoccupazione? Secondo l’«Economist» bisogna ripensare i sistemi educativi e formativi per potenziare il pensiero critico e creativo, quello che i computer non possono rimpiazzare, dislocando gli sforzi sull’intero ciclo didattico, a partire dall’asilo, per migliorare le abilità cognitive e sociali fin dai primi anni di vita. Conoscenze rigorose e «inaspettate», le definisce Giuseppe Lanzavecchia, fisico e sociologo della scienza, autore nel 1996 del saggio Il lavoro di domani, dal taylorismo al neoartigianato, concepite «non per rispondere alle richieste del mercato ma per crearle offrendo soluzioni nuove per una vita più sicura, interessante e ricca. Il lavoro di domani non potrà che essere quello di creare conoscenza, che sarà usata da macchine, e di insegnare alle macchine come usarla».
    L’attuale dibattito politico è concentrato esclusivamente sulle regole del lavoro. Ma la rivoluzione in corso «richiede una capacità di progettare i cambiamenti tecnologici, organizzativi e professionali, e qui ancora si balbetta», dice Butera. La strada non è quella di opporsi al cambiamento, ma di accompagnarlo; non è quella di proteggere il lavoro, ma di far crescere le imprese, la collaborazione e gli individui. Le esperienze nelle migliori organizzazioni, private e pubbliche, dimostrano che, se si vuole, è possibile.
    esegantini@corriere.it
    Twitter @SegantiniE

    Edoardo Segantini
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    Tag:digitale, futuro, ineguaglianze, lavoro, tecnologia
    Ultima modifica di Avanguardia; 26-05-15 alle 22:52
    FASCISMO MESSIANICO E DISTRUTTORE. PER UN MONDIALISMO FASCISTA.

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  5. #25
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    Predefinito Re: Lavoro per tutti

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    «I nuovi lavori del futuro? Ci saranno ma non so dire quali. Con la rapidità e le dimensioni dei cambiamenti in atto, chi fa previsioni a dieci anni mente agli altri e a se stesso. L’unica cosa certa, quella che abbiamo toccato con mano nel nostro viaggio nell’universo digitale dal Mit alla Silicon Valley, è che con la crescita esponenziale della tecnologia aumenterà anche il numero di mestieri e professioni inghiottiti dall’automazione. Chi vuole difendersi dai robot deve puntare su lavori nei quali l’essere umano ha ancora un grosso vantaggio sulle macchine: quelli che richiedono empatia, creatività, capacità di negoziazione. Mestieri nei quali si devono motivare le persone, assisterle con sensibilità umana, ma anche ruoli per i quali serve capacità di leadership. O professioni che ruotano attorno a valori etici o di altra natura: tutti campi che un’intelligenza artificiale, per quanto sofisticata, non riesce a padroneggiare. Ancora».
    Erik Brynjolfsson ha appena finito di discutere del suo nuovo libro, The Second Machine Age (W. W. Norton & Co Inc.), con una ventina di giovani nell’ufficio di New York della New America Foundation e si ferma volentieri a parlare delle reazioni suscitate dalle tesi sue e del suo coautore Andrew McAfee. Il loro è il libro del momento: oggetto di molte analisi — da quelle di Martin Wolf sul «Financial Times » a David Brooks sul «New York Times» —, il saggio sul futuro dell’automazione e del lavoro ha ispirato anche una recente copertina dell’«Economist». I due accademici del Mit di Boston dicono di voler restare ottimisti perché la tecnologia comunque migliora le nostre vite e, nel lungo periodo, farà nascere nuovi prodotti e servizi che creeranno nuovo lavoro. Ma avvertono che la transizione sarà lunga. E per molti dolorosa: la distruzione di posti di lavoro continuerà e, anzi, si farà sempre più incalzante. In assenza di correttivi, le diseguaglianze sociali cresceranno ulteriormente. Dobbiamo prepararci come individui, adeguandoci ai cambiamenti del mercato del lavoro, e come collettività, spingendo la politica ad affrontare questa sfida epocale.
    Siete proprio sicuri che i lavori che evaporano e la polarizzazione dei redditi nelle nostre società dipendano dalla tecnologia? Molti incolpano soprattutto la globalizzazione e altri fattori come l’aggressività del mondo della finanza o le politiche fiscali pro-ricchi dell’era Bush.
    McAfee: «Siamo davanti a fenomeni complessi, certo, ma alcuni numeri sono chiari: l’America per anni ha lamentato l’emorragia di posti di lavoro trasferiti dalle sue aziende in Cina. L’esodo c’è stato, è chiaro, ma se poi guardiamo meglio, vediamo che dalla fine degli anni Novanta a oggi la Cina ha perso ben 20 milioni di posti di lavoro nell’industria, nonostante l’aumento dei suoi volumi produttivi. Evidentemente, più che spostarsi dagli Usa alla Cina, il lavoro passa sia dagli Usa che dalla Cina ai robot».

    Per non essere spazzati via dalle macchine dovremo creare lo scudo di un’elevata scolarizzazione o sopravviveranno anche molti mestieri «low-tech»?
    Brynjolfsson: «Nelle professioni intellettuali i numeri dicono che la spunta più facilmente chi ha un titolo di studio di livello superiore. Meglio governare le macchine che esserne governati. Ma hanno un futuro anche molti lavori che comportano un’attività fisica. Per i computer è più facile risolvere problemi di enorme complessità che conferire a un robot la capacità di muoversi in modo non ripetitivo, di orientarsi in una stanza, di trovare la porta. Anche in questo campo della robotica si cominciano a fare passi da gigante grazie a tecnologie tipo il sistema Kinect di Microsoft, ma ci sono mille lavori, da quelli degli artigiani agli infermieri negli ospedali, che per ora sono al sicuro. In altri campi, come i trasporti, le cose cambieranno: l’auto che si guida da sola prima o poi farà sparire gli autisti. Quelli più a rischio sono i mestieri intellettuali di livello intermedio basati su modelli replicabili. Prenda i commercialisti: Turbo Tax, il programma informatico che ti aiuta a compilare le dichiarazioni fiscali, è ormai popolarissimo, è stato pubblicizzato in tv anche durante il Superbowl. Per i professionisti del ramo è difficile spuntarla su un software che costa appena 39 dollari. Risultato: in America in pochi anni il numero dei consulenti fiscali si è ridotto del 17%».

    Le altre professioni più a rischio?
    Brynjolfsson: «Ho parlato della consulenza fiscale, ma cose simili stanno avvenendo, come lei sa bene, nel campo dei media, nella musica, nella finanza, nei supermercati, nelle fabbriche: il software si sta mangiando il mondo o almeno un pezzo di mondo. Centinaia di milioni di posti di lavoro a rischio: prepariamoci allo tsunami dell’automazione. Abbiamo tutti sottovalutato l’impatto della crescita esponenziale della capacità di calcolo, la legge di Moore. Per un po’ di anni questa moltiplicazione è stata solo sorprendente. Da un certo punto in poi i numeri sono diventati da capogiro. Per cercare di spiegarlo, nel libro abbiamo usato la parabola dell’inventore degli scacchi».

    Scusate, ma allora il vostro ottimismo su che cosa si basa?
    McAfee: «La tecnologia ci aiuta a vivere meglio e prima o poi anche il mondo del lavoro ritroverà un suo equilibrio. Certo, ce ne vorrà. E nel frattempo non puoi usare i poteri regolamentari per bloccare l’evoluzione delle applicazioni scientifiche. Tim O’Reilly, un guru delle tecnologie, dice che dobbiamo decidere se proteggere il futuro dal passato o cedere alla tentazione di difendere il passato dal futuro: ha ragione. Questo non significa assistere passivamente: possiamo ancora scegliere il nostro futuro. Ma dobbiamo fare delle scelte. Abbiamo la democrazia: usiamola».

    Come?
    Brynjolfsson: «Siamo esperti di tecnologia, non politici. Ci vuole umiltà, come nel predire il futuro. Ma se guardiamo al passato, all’esperienza della rivoluzione industriale, due cose sono chiare: le nuove tecnologie che hanno alimentato i grandi processi di industrializzazione, il vapore, il motore a combustione interna, l’elettricità, hanno avuto bisogno di parecchi decenni per maturare, per il necessario adattamento ai processi produttivi. Ci vorrà tempo anche ora. Magari l’idea giusta per creare nuove attività, nuovo lavoro, verrà dal crowdsourcing. Secondo punto. Nell’Ottocento e nel primo Novecento l’industrializzazione portò a profonde innovazioni politiche e sociali: la scolarizzazione di massa, le grandi reti di infrastrutture. Oggi siamo davanti a cambiamenti altrettanto epocali».

    Martin Wolf vede rischi di tecno-feudalesimo.
    Brynjolfsson: «Beh, comunque siamo davanti a mutamenti che richiedono una forte iniziativa politica. Qui, invece, la politica è distratta, si occupa d’altro, non capisce cosa sta accadendo: anziché guidare, Washington va a rimorchio», nota Brynjolfsson. Secondo il quale dobbiamo prepararci a rivoluzionare quasi tutto: dall’insegnamento alle statistiche, il modo nel quale oggi misuriamo il benessere. In scuole e università perde importanza la capacità di memorizzare, mentre diventa essenziale saper ricercare, analizzare in fretta, contestualizzare, aggiornate continuamente la propria formazione. Quanto ai numeri dell’economia, «bisogna creare un parametro diverso dal Pil che — aggiunge Brynjolfsson — è un indice obsoleto. È stato inventato negli anni Trenta del secolo scorso, ai tempi della prima rivoluzione industriale. Serviva a Franklin Delano Roosevelt che aveva bisogno di un’unità di misura per capire se le sue terapie funzionavano: un mondo che non c’è più, quelle statistiche sono da reinventare. Dobbiamo imparare a calcolare anche i benefici in termini di qualità della vita che vengono dall’utilizzo delle tecnologie digitali».

    A proposito di anni Trenta e di rischi di tecno-feudalesimo, in un celebre saggio pubblicato proprio nel 1930, John Maynard Keynes, immaginando il mondo dei suoi nipoti, scrisse che il reddito a disposizione dei cittadini si sarebbe moltiplicato molte volte mentre gran parte del lavoro sarebbe stato fatto dalle macchine. Visione azzeccata, salvo che Keynes aveva anche previsto che l’uomo, liberato dalla fatica, avrebbe lavorato 15 ore alla settimana, tre al giorno, scoprendo per il resto le gioie del tempo libero. Il mondo di oggi, invece, è diviso tra gente che lavora anche 60 ore a settimana, guadagnando spesso moltissimo, ed eserciti di disoccupati o sottoccupati: dove ha sbagliato?
    Brynjolfsson: «Credo che Keynes abbia sbagliato nell’illudersi che la gente avrebbe usato il reddito aggiuntivo per godersi la vita come i lord inglesi. Più gaudenti che avidi, tazze di tè e caccia alla volpe. Invece la gente tende a lavorare di più per guadagnare e consumare di più: vuole grandi tv al plasma, vuole viaggiare. Riflettiamo su questo: quello che siamo diventati, quello che vogliamo essere. La politica non può risolversi nei Tea Party che inveiscono contro la corruzione di Washington e in Occupy Wall Street che criminalizza la finanza. C’è qualcosa di più profondo, di più fondamentale: dobbiamo cercare di cambiare la conversazione dominante nel nostro Paese».

    Massimo Gaggi
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    Predefinito Re: Lavoro per tutti

    Notizie di libri e cultura del Corriere della Sera

    L’invasione dei robot (scelgono anche la frutta e preparano aperitivi)

    Le macchine occupano quasi tutti gli spazi lavorativi. Perciò si moltiplicano gli allarmi, come quello di Martin Ford: lo spettro è un mondo neofeudale con pochi ricchi e masse che faticano a sopravvivere



    Non solo Bancomat al posto del bancario, robot in fabbrica (in Cina è in costruzione il primo stabilimento totalmente privo di operai) e auto che si guidano da sole: nelle campagne arrivano le macchine che raccolgono la frutta con delicatezza, dotate di sensori capaci di scegliere solo quella matura. In ospedale accanto al robot-chirurgo spunta anche il robot-anestesista. E a San Mateo, in California, si è appena tenuta una gara tra inventori che hanno presentato i loro «bartender» digitali: robot capaci di preparare un Cosmopolitan, un Daiquiri e una quindicina di altri cocktail.
    L’automazione spinta, evocata fin dalla metà del secolo scorso come la forza che avrebbe cambiato radicalmente le nostre vite, ha preso a galoppare negli ultimi anni dopo decenni di promesse mancate. Accade sotto i nostri occhi, al tempo stesso ammirati e spaventati: le meraviglie di un nuovo mondo pieno di opportunità e l’incubo di una società con poco lavoro. Con i professionisti delle attività intellettuali, assai distratti fino a quando i robot saldavano scocche delle auto, divenuti improvvisamente attenti ora che le macchine hanno cominciato a sostituire i radiologi nella lettura delle radiografie, i commercialisti nella compilazione della dichiarazione dei redditi e anche i giornalisti, visto che gli articoli scritti dai computer di Narrative Science vengono già pubblicati da riviste come «Forbes».
    Le analisi di segno opposto si susseguono, ormai, da parecchio tempo, come ben sa chi segue «la Lettura», che di questo si è occupata spesso. All’inizio di questo lungo dibattito i pessimisti erano stati relegati in un angolo: dai luddisti in poi, troppe volte in passato i profeti di sventura sono stati smentiti dal dinamismo di un’innovazione che, mentre faceva sparire i vecchi mestieri, creava opportunità di lavoro numerose e ben retribuite in settori totalmente nuovi.
    Da qualche tempo a questa parte, però, l’esercito dei profeti di una nuova era di prosperità si è assai assottigliato, mentre si moltiplicano le analisi allarmate sui trend tecnologici. Analisi serie, dati difficilmente contestabili. Con un difetto: l’unica terapia significativa per la carenza di lavoro, alla fine, è quella di un ritorno all’intervento pubblico in economia. Tasse per redistribuire la ricchezza prodotta con la tecnologia e una sorta di salario minimo universale che Martin Ford definisce «dividendo di cittadinanza» in Rise of the Robots, il saggio che ha appena pubblicato negli Stati Uniti con Basic Books.
    Fa discutere il libro di Ford, che riprende le analisi di accademici come David Autor, Robert Gordon e gli autori di Race Against the Machine e The Second Machine Age, Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, e le sviluppa fino a giungere a conclusioni alquanto sconfortanti. C’è chi lo critica perché chiama in causa la politica e rispolvera strumenti come le reti di protezione sociale, anziché cercare nella stessa tecnologia le risposte ai problemi che nascono dall’evoluzione del mondo digitale. Ma i più apprezzano l’immediatezza e l’onestà delle analisi di un personaggio che non è un cattedratico né un giornalista, ma un imprenditore del software, cioè uno del mestiere.
    Non c’è nulla di sorprendente o rivoluzionario nelle tesi di Ford. Come lui stesso ricorda, già nel 1949 il matematico Norbert Wiener pronosticò una «rivoluzione industriale di grande crudeltà con le macchine che sostituiranno gli uomini in tutte le funzioni» non intellettualmente qualificate. Una profezia che si sta avverando mezzo secolo dopo. Solo che allora tutti immaginavano che avremmo avuto le tasche piene, una settimana lavorativa cortissima e molto tempo libero in più per la cultura e gli svaghi.
    Non è andata così: il lavoro pagato è sempre di meno, ma proprio per questo molti sono costretti a cercare l’integrazione di una seconda o terza occupazione part-time. E, comunque, viviamo vite più difficili che impongono impegni supplementari: le scuole chiedono ai genitori di seguire la preparazione dei figli molto più di quanto non accadeva in passato. Poi ci sono le mille attività filantropiche non retribuite (dal volontariato in parrocchia a quello sui campi sportivi e nei parchi) e il lavoro digitale domestico: ore a smaltire email e a prenotare treni e alberghi, visto che l’agente di viaggio non c’è quasi più. È quello che Craig Lambert, ex direttore editoriale dell’«Harvard Magazine», chiama lavoro-ombra nell’omonimo saggio, Shadow Work, appena pubblicato negli Usa da Counterpoint.
    Rise of the Robots e Shadow Work sono solo le avanguardie di una cascata di libri dedicati al problematico futuro del lavoro e anche al nostro rapporto con le macchine che fa ormai temere a molti, da Stephen Hawking a Elon Musk, che un’intelligenza artificiale, straordinariamente più potente della nostra, possa arrivare un domani a distruggere l’intera umanità. Senza arrivare a scenari così apocalittici, Nicholas Carr descrive in The Glass Cage (ora disponibile anche in italiano: La gabbia di vetro, Raffaello Cortina Editore) come l’automazione stia facendo perdere a tutti noi la capacità di svolgere funzioni complesse, ormai delegate alle macchine. Con il risultato che, se il Gps smette di funzionare durante un viaggio, siamo perduti.
    Non c’è solo il filone editoriale catastrofico: Ashlee Vance racconta di un futuro pieno di sorprese e sfide affascinanti nel suo libro dedicato a Elon Musk (un nome che è anche il titolo del volume, edito da Ecco) mentre tra poco arriverà dall’Asia China’s Disruptors nel quale Edward Tse racconta come un esercito di 12 milioni di imprenditori, da Jack Ma di Alibaba a Lei Jun di Xiaomi, stia rivoluzionando il modo di fare affari in Asia e, ormai sempre di più, anche nel resto del mondo. Peter Diamandis, scienziato tecno-entusiasta, ha poi pubblicato insieme a Steven Kotler Bold (Simon & Schuster), dedicato agli imprenditori capaci di ragionare in termini di crescita esponenziale e non lineare e di cavalcare le rivoluzioni dei giorni nostri: dalla digitalizzazione alla disruption, la demolizione dei vecchi modelli, fino alla dematerializzazione dell’economia e alla demonetizzazione della finanza. E il capo dell’Aspen Institute, Walter Isaacson, autore di The Innovators, un libro dedicato alle avventure di pionieri dell’informatica, come Alan Turing e Tim Berners-Lee, e di tycoon dell’universo digitale, come Bill Gates, Larry Page di Google e Jimmy Wales di Wikipedia, condanna senza appello i pessimisti e i neoluddisti, sostenendo che 200 anni di rivoluzione industriale sono lì a dimostrare che la tecnologia aumenta la produttività, fa crescere la ricchezza e crea nuovi tipi di lavoro: «L’economia delle app, che sette anni fa non esisteva, nel 2014 ha raggiunto il valore di 100 miliardi di dollari, più dell’intera industria cinematografica».
    Tutto molto affascinante, ma questi saggi ruotano attorno alle avventure di un pugno di personaggi particolarmente brillanti: di compatibilità economiche e di tenuta dei sistemi politici e del tessuto sociale si parla assai poco. Argomenti ardui ma ineludibili: quelli al centro di No Ordinary Disruption, un’immersione nelle forze che stanno cambiando l’economia mondiale firmata da Richard Dobbs, James Manyika e Jonathan Woetzel, tre esperti del McKinsey Global Institute basati rispettivamente a Londra, San Francisco e Shanghai (editore PublicAffairs). Non capiremo mai fino in fondo i fenomeni che ci travolgono e non troveremo le terapie adatte, se non ci convinceremo dell’ineluttabilità di quattro forze che stanno rivoluzionato trend che consideravamo, sbagliando, eterni, scrivono gli esperti McKinsey.
    In primo luogo lo spostamento dell’asse del mondo verso Sud e verso Est, che procede a una velocità stupefacente: tra dieci anni la metà delle grandi imprese mondiali avrà sede in Paesi che ancora oggi consideriamo emergenti, mentre la metà della crescita mondiale verrà da un pugno di città ancora sconosciute, da Santa Caterina, in Brasile, a Hsinchu, nell’isola di Taiwan. In secondo luogo l’invecchiamento della popolazione e il crollo della fertilità che, dopo Europa, Giappone e Usa, comincia a interessare anche la Cina e presto raggiungerà l’America Latina. Poi la straordinaria accelerazione del cambiamento tecnologico, che non dà più tempo alle imprese di stabilizzarsi, e l’enorme complessità degli scambi internazionali con i vecchi flussi lineari del free trade sostituiti da una ragnatela inestricabile di affari, accordi e compromessi bilaterali, mentre le frontiere del mondo sono attraversate ogni anno da un miliardo di persone (cinque volte il numero del 1980).
    Come uscirne? Di ricette credibili se ne vedono poche: Ford convince quando dimostra che l’età dell’oro dell’aumento della produttività e dei salari è finita nel 1973 e spiega perché le tecnologie digitali non riescono a far nascere nuovi settori produttivi. A differenza delle rivoluzioni del vapore e dell’elettricità, stavolta la disruption colpisce tutti i settori, mentre il crollo dei redditi medi apre falle enormi nella domanda dei consumatori. Difficile credere che una simile emergenza si possa risolvere con un sussidio generalizzato di 10 mila dollari l’anno. Ma non si può nemmeno stare a guardare: con i sofisticati robot industriali low cost dei cinesi, presto in vendita a 10 mila dollari, l’automazione farà un altro balzo in avanti. Lo spettro agitato da Ford è quello di un mondo neofeudale, con pochi ricchi asserragliati nelle loro cittadelle (protette da robot), mentre le masse faticano a conquistare il minimo per la sussistenza: uno scenario che dovrebbe preoccupare in primo luogo chi ha a cuore la sopravvivenza del capitalismo e la tenuta dei sistemi democratici.
    Massimo Gaggi
    © RIPRODUZIONE RISERVATA
    Ultima modifica di Avanguardia; 26-05-15 alle 23:21
    FASCISMO MESSIANICO E DISTRUTTORE. PER UN MONDIALISMO FASCISTA.

    "NELLA MIA TOMBA NON OCCORRE SCRIVERE ALCUN NOME! SE DOVRO' MORIRE, LO FARO' NEL DESERTO, IN MEZZO ALLE BATTAGLIE." Ken il Guerriero, cap. 27. fumetto.

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    Predefinito Re: Lavoro per tutti

    In Repubblica Democratica del Congo inventati e installati i vigili robot:
    Agenti-robot, in Congo una donna inventa i "robocop" per dirigere il traffico ? FOTO - Il Fatto Quotidiano
    FASCISMO MESSIANICO E DISTRUTTORE. PER UN MONDIALISMO FASCISTA.

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