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    Predefinito Omissioni e menzogne strategiche sui legami tra Hitler e capitalismo

    http://thule-italia.com/wordpress/archives/1872

    31 maggio 2010 Author: MThule Posted in Storia No Comments
    Riportiamo l’articolo di Luca Leonello Rimbotti pubblicato da Linea in data 30 maggio 2010
    Menzogne e omissioni strategiche sul finanziamento a Hitler da parte dei capitalisti tedeschi e americani.

    Nel suo libro Profit uber alles! Le corporations americane e Hitler, Pawels dimostra come la guerra sia l’affare più remunerativo che si possa immaginare, ieri e oggi. L’alta finanza e le grandi corporations Usa sovvenzionarono con i loro fondi l’ascesa del nazionalsocialismo, lo aiutarono a riarmarsi, lo sostennero nelle aggressioni e proseguirono l’operato anche nella guerra contro la Germania

    I nostri marxisti residui sono davvero impareggiabili. Per nulla fiaccati dallo storico fallimento della loro dialettica di classe, continuano a recitare i loro dogmi ideologici con la stessa ottusità con cui la beghina snocciola il suo rosario. Li vediamo sfornare, così, ogni tanto, dei veri incunaboli di faziosità storiografica, che vanno tenuti in conto come documenti di uno stato mentale ancora tutt’altro che defunto. In particolare, segnaliamo un libretto della nota casa editrice La Città del Sole, intitolato Profit uber alles! Le corporations americane e Hitler, in cui l’autore, Jacques R. Pauwels, si danna l’anima per dimostrare che Hitler fu sovvenzionato, non solo dai capitalisti tedeschi, ma anche, e massicciamente, da quelli americani. Questi, soprattutto attraverso la Ford, la General Motors e la Texaco – che avevano filiali in Germania già da molti anni -avrebbero fornito al Terzo Reich un aiuto decisivo per la ripresa economica prima e per il riarmo poi. Il tutto condito con bugie grossolane e con omissioni strategiche: sembra di avere in mano una pubblicazione propagandistica della vecchia DDR. Una vera rarità bibliografica. La nazionalizzazione industriale effettuata dal Governo Hitler non appena insediato, ad esempio, diventa così uno «stratagemma key-nesiano»; il fatto che le fabbriche americane in Germania, come la Ford, che divenne Ford-Werke, venissero allineate alle direttive del Governo viene semplicemente occultato, dicendo che i profitti, tramite non meglio precisate vie svizzere, avrebbero raggiunto ugualmente i loro padroni americani… la politica del Terzo Reich in materia economica – di cui fu esempio l’immediata nazionalizzazione della Banca centrale – non viene neppure rammentata… la politica sociale, poi, che storici come Zitelmann hanno chiarito che elevò non di poco la condizione dell’operaio tedesco, viene ancora rubricata – come negli anni Sessanta sotto la voce “repressione di classe”… e così via. Hitler servo del padrone capitalista: l’antico slogan marxista vive ancora tra noi! Difficile pensare, per dirne una, al servo che toglie al padrone il suo strumento migliore, cioè le banche, no? Ma questo la pubblicazione marxista in parola tralascia di commentarlo.Il fatto è che non furono i capitalisti – e tantomeno quelli americani – a utilizzare Hitler per incrementare i loro profitti, ma Hitler a sfruttare loro per incrementare la sua produzione. Le aziende americane in terra tedesca vennero semplicemente messe in riga come tutte le altre: ai profitti realizzati si proibì il rientro in America con apposite leggi; la proprietà rimase straniera fino al 1941, ma la direzione era tutta tedesca, e di fanatica fede nazionalsocialista, a giudicare dal caso del direttore generale della Ford-Werke Robert Schmidt, che fu premiato col titolo di “Fuhrer dell’economia”: onorificenza riservata a chi prendeva ordini da Berlino, e certo non da Washington. Poco importava la titolarità dell’azienda, se questa produceva in base alle direttive del Governo tedesco. Dopo il 1941, con la creazione dei “custodi dei beni nemici”, si ebbe in pratica la confisca della proprietà industriale straniera. Pauwels scrive che dopo Pearl Harbor non fu sostituito nessuno di tali “custodi”: volendo provare così che i legami tra tedeschi e capitalisti USA rimase stretto come prima della Guerra. Ma dimentica che alla Germania non interessavano le chiacchiere marxiste, bensì la produzione di guerra. E la produzione veniva garantita dall’efficienza di questi “custodi”, che lavoravano già da anni nelle fabbriche di proprietà americana in Germania e che garantivano elevati ritmi produttivi. A leggere Pauwels si apprende che la Wehrmacht – per il fatto che la Ford era di proprietà tedesca – fu armata dagli americani. Che la Texaco, anche attraverso la quale fino al 1941 la Germania mise da parte scorte di carburanti e lubrificanti, permise a Hitler di fare la Guerra, e che dunque si ebbe una “Blitzkrieg made in USA”. Ma i dirigenti, i tecnici, gli operai, gli ingegneri, i costruttori, e soprattutto il Ministro dell’Economia e il Governo erano tedeschi e quanto poco fossero al servizio degli americani lo dimostrarono la chiusura del commercio estero – effettuata in base alla politica dello “spazio imperiale europeo”: in pratica l’autarchia continentale – e la dichiarazione di guerra del 1941, che mirava a scuotere pei l’appunto il predominio mondiale del capitalismo americano, da poco sostituitosi a quello inglese. Hitler, come la storia dimostra, venne finanziato nella sua ascesa anche da capitalisti ebrei, come gli Oppenheim: si sa che il capitalismo non ha ideologia. E neppure il Nazionalsocialismo si faceva tanti scrupoli, ad esempio ad “arianizzare” qualche proprietà, se questo rientrava nei suoi interessi. Il fatto è che poi, una volta finanziato, Hitler fece la politica sua e non quella degli altri. Questo oggi è ampiamente dimostrato. Ad esempio da Kershaw, che come molti altri ha scritto a chiare lettere sulla “emancipazione” di Hitler dai “padroni” e sul fatto che egli «subordinò gli interessi economici a priorità ideologiche». Non occorre spendere altre parole. Ancora di meglio fa Pauwels quando scrive, senza pudore, che la vittoria contro Hitler fu opera dell’URSS e che gli aiuti americani ai russi coprirono soltanto «il quattro o il cinque per cento del totale della produzione bellica sovietica». Se anche ammettessimo un tale dato non dimostrato, questo potrebbe essere stato il motivo decisivo per cui i tedeschi mancarono di così poco la vittoria. Quando si trovò di fronte le decine di migliaia fra autocarri Dodge o carri Sherman o jeep o altro materiale americano dalle parti di Stalingrado, probabilmente la Wehrmacht ebbe modo di apprezzare quanto quel «quattro o cinque per cento» fosse decisivo. Anziché pensare ai finanziamenti americani a Hitler, il filo-sovietico Pauwels avrebbe fatto meglio a scrivere un libro sui finanziamenti del capitalismo americano -ebraico e non – a favore della rivoluzione di Lenin e ancor meglio sui finanziamenti da costui ottenuti direttamente dal comando militare tedesco, che nel 1917 lo spedì a Retrogrado per fargli demolire lo Stato zarista. Oppure avrebbe fatto bene a scrivere un libro sui rapporti tra Russia sovietica e Reichswehr negli anni Venti, quando i russi passavano armi a reazionari del tipo di Noske e Kapp. Che la rivoluzione russa sia stata finanziata dai capitalisti USA, dai Parvus, dai Warburg, dai Rothschild, che Trotsky – finanziato dal magnate Jacob Schiff – avesse per moglie la figlia di un banchiere, che – come documentò nel 1968 Antony Sut-ton – «nel 1944 ben due terzi della grande industria sovietica era stata costruita con l’assistenza tecnica e finanziaria americana», che negli anni Trenta-Quaranta la Russia campava col grano dell’Arkansas… è del resto una storia risaputa.Per ribadire l’ovvia realtà che i governi americani sono sempre stati al servizio degli interessi finanziari del loro ceto dirigente capitalista – poiché questo è l’intento del libretto di Pauwels – non importava avventurarsi nell’ardua dimostrazione che nella Quinta Strada erano tutti amici di Hitler. E poi il capitalismo è apolide, sono sempre esistiti canali economici sotterranei fuori controllo: per dire, c’erano tedeschi che vendevano armi all’Etiopia nel 1936, o italiani che passavano materiale aereonautico ai francesi nel 1940: per i capitalisti gli affari sono affari. L’importante è lo scopo finale per cui i loro governi lavorano. Gli americani raserò a zero la Germania e salvarono la Russia sovietica dal tracollo: da quale parte stesse il loro capitalismo è dimostrato a sufficienza.

    Ultima modifica di Avanguardia; 07-05-13 alle 12:05
    FASCISMO MESSIANICO E DISTRUTTORE. PER UN MONDIALISMO FASCISTA.

    "NELLA MIA TOMBA NON OCCORRE SCRIVERE ALCUN NOME! SE DOVRO' MORIRE, LO FARO' NEL DESERTO, IN MEZZO ALLE BATTAGLIE." Ken il Guerriero, cap. 27. fumetto.

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    Predefinito Re: Omissioni e menzogne strategiche sui legami tra Hitler e capitalismo

    Il 90% delle teorie storiche e complottistiche esistono probabilmente allo solo scopo di impedire che la gente veda il Nazionalsocialismo come via di fuga da questo regime .
    Il Silenzio per sua natura è perfetto , ogni discorso, per sua natura , è perfettibile .

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    Predefinito Re: Omissioni e menzogne strategiche sui legami tra Hitler e capitalismo

    Citazione Originariamente Scritto da Freezer Visualizza Messaggio
    Il 90% delle teorie storiche e complottistiche esistono probabilmente allo solo scopo di impedire che la gente veda il Nazionalsocialismo come via di fuga da questo regime .
    Questa tendenza tra numerosi studiosi del mondialismo di parlare di Hitler marionetta dei capitalisti internazionali, dello "sterminio degli ebrei" finanziato dalle corporations statunitensi, e di definire i mondialisti nazifascisti ha rotto le scatole! E' anti-mondialismo politicamente corretto. Non è che uno debba per forza ammirare Hitler e il Terzo Reich, ma basta con questa riluttanza a dire, finalmente, che la guerra contro la Germania fu voluta dai poteri forti occidentali per eliminare un concorrente e per mettere a tacere un modello socio-economico dannoso per quegli interessi mercantili e massonici. Lo si dica. Si spieghi perché sul nazionalsocialismo, più ancora che sul fascismo italiano, hanno messo un coperchio di filo spinato, lo spieghino, lor signori.
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    Predefinito Re: Omissioni e menzogne strategiche sui legami tra Hitler e capitalismo

    Citazione Originariamente Scritto da Avanguardia Visualizza Messaggio
    Questa tendenza tra numerosi studiosi del mondialismo di parlare di Hitler marionetta dei capitalisti internazionali, dello "sterminio degli ebrei" finanziato dalle corporations statunitensi, e di definire i mondialisti nazifascisti ha rotto le scatole! E' anti-mondialismo politicamente corretto. Non è che uno debba per forza ammirare Hitler e il Terzo Reich, ma basta con questa riluttanza a dire, finalmente, che la guerra contro la Germania fu voluta dai poteri forti occidentali per eliminare un concorrente e per mettere a tacere un modello socio-economico dannoso per quegli interessi mercantili e massonici. Lo si dica. Si spieghi perché sul nazionalsocialismo, più ancora che sul fascismo italiano, hanno messo un coperchio di filo spinato, lo spieghino, lor signori.
    Non lo spiegheranno mai, sia mai che a qualcuno possa farsi qualche domanda. Mettere in galera 3 o 4 persone che festeggiano il compleanno del Fuhrer è semplice, metterne in galera qualche milione un po' più complicato. Meglio quindi, per lor signori, mettere una pietra tombale sul "male assoluto", evitare qualsiasi discussione (ad ampio raggio intendo, non qualche post, debitamente autocensurato, sul WEB), discussione che poi non è detto che debba essere positiva per il nazionalsocialismo, può darsi benissimo che dopo ampie e libere discussioni il giudizio per tutti rimanga lo stesso, ma, evidentemente, non si vuol correre nessun rischio.
    Se guardi troppo a lungo nell'abisso, poi l'abisso vorrà guardare dentro di te. (F. Nietzsche)

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    Predefinito Re: Omissioni e menzogne strategiche sui legami tra Hitler e capitalismo

    Io invece non lo escludo a priori.
    Logico che i marxisti ci marcino sopra(dimenticando
    i finanziamenti dei banchieri a Lenin).
    Secondo voi,se dei banchieri o uomini di affari sentono
    che il vento sta cambiando e la carta vincente è A anzichè B
    che fanno,rischiano i loro miliardi sostenendo chi è più simpatico..
    o colui che sanno vincerà?
    È una cosa naturale,come gli agrari che finanziavano il fascismo(cosa
    verissima).
    Non lo facevano per simpatia,ma per convenienza,infatti nel 1945 la
    grande industria e gli agrari erano "casualmente" antifascisti e veri
    motori della resistenza.

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    Predefinito Re: Omissioni e menzogne strategiche sui legami tra Hitler e capitalismo

    Citazione Originariamente Scritto da Nazionalistaeuropeo Visualizza Messaggio
    Io invece non lo escludo a priori.
    Logico che i marxisti ci marcino sopra(dimenticando
    i finanziamenti dei banchieri a Lenin).
    Secondo voi,se dei banchieri o uomini di affari sentono
    che il vento sta cambiando e la carta vincente è A anzichè B
    che fanno,rischiano i loro miliardi sostenendo chi è più simpatico..
    o colui che sanno vincerà?
    È una cosa naturale,come gli agrari che finanziavano il fascismo(cosa
    verissima).
    Non lo facevano per simpatia,ma per convenienza,infatti nel 1945 la
    grande industria e gli agrari erano "casualmente" antifascisti e veri
    motori della resistenza.
    In secondo luogo questi finanziamenti furono un pò meno consistenti di quanto venne raccontato dalla storiografia specialmente di sinistra, in particolare per quanto concerne l' ascesa del NSDAP in Germania. Gli storici un pò più obiettivi hanno sminuito le dimensioni e l' utilità di questi finanziamenti, notificando che erano molto minori di quanto sosteneva la vulgata ufficiale. Anche riguardo quel famoso colosso chimico "IG-Farben", di tutti i soldi che versò alla politica tedesca durante gli anni di Weimar, solo il 15% per cento andò al NSDAP. Il restante 85% andava ad altre forze politiche di sinistra, centro, destra, compresi i socialisti di sinistra. I capitalisti in Germania, a parte che tendevano a finanziare un pò tutti per non avere rotture, preferivano mettere i soldi su soggetti ben più affidabili dei nazionalsocialisti. Poi Zintelmann e Payne hanno chiarito che il grosso dei finanziamenti andò dopo la presa del potere, semplicemente perché ormai il NSDAP aveva ormai vinto ed era il soggetto più forte, con cui erano costretti bene e male a trattare.
    Parte dei finanziamenti, riguardo il PNF e il NSDAP, erano mirati, rivolti non al partito e al suo capo, ma a precise personalità del partito più moderate o corruttibili.
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    Predefinito Re: Omissioni e menzogne strategiche sui legami tra Hitler e capitalismo

    ", riguardo il PNF e il NSDAP, erano mirati, rivolti non al partito e al suo capo, ma a precise personalità del partito più moderate o corruttibili."
    Non credo.

  8. #8
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    Predefinito Re: Omissioni e menzogne strategiche sui legami tra Hitler e capitalismo

    InStoria - Nazismo: reazione o rivoluzione?

    .
    CONTEMPORANEA

    N. 63 - Marzo 2013 (XCIV)

    NAZISMO: REAZIONE O RIVOLUZIONE?
    IL RUOLO DEL NAZIONALSOCIALISMO
    di Paolo Amighetti



    Quale fu il ruolo storico del nazionalsocialismo? Diede forza alla reazione anticomunista o capeggiò una propria rivoluzione? Una delle chiavi interpretative di maggior successo dipinge il fenomeno nazista come espressione delle «destre» nazionaliste e militariste impegnate nella restaurazione della potenza tedesca.



    Facendo leva sul supporto determinante della grande industria, i nazisti avrebbero raggiunto il potere perché non ci arrivassero, prima o poi, i comunisti. Secondo la storiografia marxista, Hitler divenne presto vassallo dei potentati economici, e il nazionalsocialismo un baluardo della reazione.



    Uno dei capisaldi della «Weltanschaaung» hitleriana, in effetti, era l'antibolscevismo e il rifiuto dell'internazionalismo propugnato dai comunisti. Sin dalle origini, il NSDAP (Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi, N.d.A) si impose all'opinione pubblica come il nemico numero uno del partito comunista: anzi, come il suo naturale oppositore.



    Tutto sommato, ne era l'avversario più qualificato: come il KPD (Partito comunista tedesco, N.d.A), disponeva di un folto gruppo di picchiatori, che presidiavano i comizi e si abbandonavano alla violenza; pretendeva di avere orizzonti ideologici che andavano ben al di là del confronto politico dei partiti cosiddetti «borghesi», il socialdemocratico e il Zentrum cristiano-democratico; al loro moderatismo opponeva la «lotta di razza» così come i comunisti quella di classe; disprezzava l'aristocrazia e il mondo del grande capitale, nel quale individuava l'ebreo onnipotente e truffaldino, laddove i comunisti smascheravano la cricca degli sfruttatori del proletariato.



    Hitler affermava (senza vergognarsene, perché «è sempre dai propri nemici che si impara il meglio») di avere appreso dai bolscevichi l'arte della comunicazione e le esigenze della politica di massa; e pretendeva di potersene sbarazzare vincendoli con le loro stesse armi. Ma spesso, il modo più sicuro per toglierli di mezzo era tesserarli nel NSDAP: le affinità tra comunisti e nazionalsocialisti, infatti, sono più sorprendenti delle divergenze. Sono proprio queste a farci dubitare del carattere puramente reazionario del fenomeno nazista.



    Giova ricordare che, fino quasi alla fine degli anni Venti, nel partito nazista esistevano due anime: quella che, per intenderci, poneva l'accento sul nazionalismo e quella che privilegiava piuttosto il socialismo. Le sezioni dei Länder settentrionali erano «rosse»: guidate dai fratelli Strasser e dal giovane Joseph Goebbels, che una volta pretese di «espellere dal partito nazista il piccolo-borghese Adolf Hitler», misero in dubbio l'autorità stessa del Führer in seno al movimento.



    L'ala sinistra del NSDAP organizzò nel novembre 1925 un congresso ad Hannover: propose di mutare il programma dei venticinque punti stilato da Hitler nel 1920, definito «reazionario» in materia di economia. Goebbels scriveva, in questi mesi, ad esponenti del KPD: «Noi ci combattiamo senza essere veramente nemici». Insomma, all'epoca in cui il partito hitleriano aveva appena messo il naso fuori dalla Baviera il suo capo era sbeffeggiato dai camerati settentrionali con l'appellativo di «papa di Monaco», e la stessa linea politica del nazionalsocialismo restava in buona parte incerta.



    Hitler, dopo aver ricompattato il NSDAP, si lanciò nella lunga lotta politica che gli avrebbe permesso di prendere il potere: diventato prima cancelliere e poi Führer del Reich, la sua politica economica non fu troppo lontana dagli esperimenti del socialismo reale. Negli anni della scalata al potere, aveva assunto atteggiamenti ora oltranzisti, ora accomodanti, per esigenze tattiche; c'erano stati molti abboccamenti con esponenti del mondo industriale, e senza il supporto di alcuni di loro il NSDAP non sarebbe mai uscito dalla Baviera.



    Nei primi tempi il magnate dell'acciaio Fritz Thyssen, la Confederazione degli industriali bavaresi, alcuni ambienti dell'esercito avevano finanziato il movimento, intravedendone in effetti un argine al socialismo: ma s'illudevano di trasformarlo in una loro marionetta, e questo fu il loro errore. Lo stesso Alfred Hugenberg, capo dei nazionalisti e per un certo periodo alleato di Hitler, era un ricco imprenditore. Questo non impedì al Führer di sbarazzarsi di lui alla prima occasione, e di dare in appalto al potere politico la gestione dell'economia nazionale.



    Scrive l'economista liberale Ludwig von Mises: «Il nazionalsocialismo è la realizzazione dell'utopia vagheggiata dall'ala radicale del Socialismo della cattedra tedesco. Molte generazioni di filosofi, economisti, storici e critici della società tedeschi hanno cooperato alla costruzione di questo piano sociale. Rodbertus e Lassalle, Treitschke e Schmoller, Adolf Wagner e Walther Rathenau riconoscerebbero nell'edificio compiuto i loro singoli mattoni. Eppure le idee più importanti venivano dai socialisti e dai riformatori inglesi e francesi. [...] Nel Terzo Reich l'economia viene pilotata dallo Stato in modo pianificato; a spingere il singolo individuo a lavorare non è la molla del guadagno, bensì l'adempimento di doveri imposti dallo Stato; la formazione del reddito è regolata dallo Stato.»



    Il «socialismo di fatto» hitleriano aveva radici tanto profonde quanto quelle del suo nazionalismo. L'idea che il popolo tedesco avesse il diritto di imporsi sul resto d'Europa e sul mondo intero era vecchia quasi quanto il Reich bismarckiano, risalendo alla Weltpolitik di Guglielmo II; la cultura nazionalista era diffusa negli ambienti dell'aristocrazia, della piccola borghesia e dell'esercito sin dal tempo dell'impero germanico e di quello austro-ungarico, e congiuntamente all'idea di «nazione tedesca» prese ad affermarsi, tra Otto e Novecento, la concezione di «comunità di popolo» biologicamente pura.



    Anzi: già il filosofo Johann Gottfried Herder, a cavallo tra il Sette e l'Ottocento, scriveva che «la nazione più ignorante, più ricca di pregiudizi, è spesso la prima: l'epoca delle immigrazioni di desideri stranieri, dei viaggi di speranze all'estero è già malattia, pienezza d'aria, gonfiezza malsana, presentimento della morte.»



    In tutto il mondo tedesco, chiusa la parentesi intellettuale liberale della prima metà dell'Ottocento, si diffusero concezioni suprematiste strettamente legate alla purezza razziale, prima che culturale e linguistica. Nella Vienna di inizio Novecento, la rivista Ostara di Lanz von Liebenfels propagandava la dottrina dell'arianesimo definendosi «il primo periodico di scienza della razza»; il giovane Hitler ne fu un appassionato lettore. Secondo l'Ostara e l'allora sindaco di Vienna Karl Lueger, il nemico della razza ariana era l'ebreo corruttore, parassita e ingannatore. In linea con queste tendenze, sorsero tra Otto e Novecento molti circoli pangermanisti e razzisti, che avevano in comune il culto dell'esoterismo e una struttura organizzativa che le faceva apparire simili a sette più che a movimenti politici veri e propri.



    Eppure, il nazionalismo tedesco di marca aristocratica sfuggì in buona parte alla psicosi razziale fino alla disfatta nella prima guerra mondiale; e anche dopo, molti aristocratici come Hindenburg faticavano a comprendere l'odio di Hitler per i semiti, che pure si erano battuti coraggiosamente al fronte.



    Ma la leggenda della pugnalata alla schiena, che addossava la colpa della sconfitta ad un complotto di ebrei e comunisti, ebbe sempre più fortuna tra i ceti meno abbienti e gli strati più vulnerabili della piccola borghesia. Hitler elevò tali pregiudizi a cardine del suo sistema ideologico, ravvisando nell'ebreo ora il capitalista sfruttatore, ora l'affabulatore internazionalista, ora il germe che infettava la purezza della cultura e del popolo tedesco.



    L'assoluta centralità della razza diede una forma nuova al nazionalismo germanico, almeno per come lo intendevano i nazionalsocialisti: rimuoveva infatti lo scrupolo per la tradizione prussiana e aristocratica degli Junker sostituendola con la coesione di una arcaica comunità nazionalpopolare, quella «Völksgemeinschaft» che Hitler voleva rafforzare cancellando lo scontro di classe e sbarazzandosi degli ebrei. Neppure il nazionalismo di Hitler fu dunque «reazionario», in quanto non riconosceva alcuna leadership alla vecchia classe dirigente imperiale e all'aristocrazia. Anzi: Mein Kampf è zeppo di critiche al vecchio Reich e alla sua bolsa e incompetente classe dirigente, e il sentimento monarchico nei maggiori esponenti del NSDAP era praticamente assente. Al suo posto stava la fedeltà al Führerprinzip, il principio di assoluta predominanza del capo, cioè di Hitler in persona.



    Lo stesso totalitarismo nazista smentisce la tesi reazionaria: una volta preso il potere, il Führer non conservò lo status quo, né restaurò l'impero; procedette a smantellare lo stato per dargli una forma congeniale alla sua concezione del potere assoluto. Quella nazista fu una rivoluzione legale e silenziosa: legale perché a nominare Hitler cancelliere fu il presidente della repubblica Hindenburg, silenziosa perché dall'inizio del 1933 alla metà del 1934 il Führer esitò a trasformare il partito in stato, limitandosi a dare ai suoi uomini ruoli chiave in pochi ministeri per poi farsi consegnare dal parlamento i pieni poteri.



    L'opera di ingegneria istituzionale nazista stravolse la Germania. La cultura venne data in appalto a Goebbels, titolare del ministero della propaganda; vennero cancellate le autonomie secolari dei Länder e l'economia scivolò in pugno all'apparato. L'assoluta preponderanza di Hitler, che nel 1934 accentrò nella sua persona le cariche di capo di stato e capo del governo, era consolidata dalla struttura che Joachim Fest definisce «darwinismo istituzionale»: per volontà del Führer proliferavano cariche e uffici, spesso in competizione e in contraddizione nella direzione dei loro affari.



    Un simile caos burocratico favoriva l'arrivismo dei funzionari e accresceva l'influenza del solo Hitler, a fronte della generale confusione che più tardi avrebbe messo nei guai anche l'esercito in guerra. Il socialismo «di fatto», il nazionalismo razzista e anticonvenzionale, l'autentico stravolgimento in senso dittatoriale delle istituzioni tedesche sembrano indicarci una risposta chiara alla domanda posta all'inizio: Hitler non ripristinò il vecchio, ma diede spazio al nuovo; non conservò, ma distrusse ciò che rimaneva del regime morente. La sua fu una rivoluzione.
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    Predefinito Re: Omissioni e menzogne strategiche sui legami tra Hitler e capitalismo

    Citazione Originariamente Scritto da Avanguardia Visualizza Messaggio
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    IL RUOLO DEL NAZIONALSOCIALISMO
    di Paolo Amighetti



    Quale fu il ruolo storico del nazionalsocialismo? Diede forza alla reazione anticomunista o capeggiò una propria rivoluzione? Una delle chiavi interpretative di maggior successo dipinge il fenomeno nazista come espressione delle «destre» nazionaliste e militariste impegnate nella restaurazione della potenza tedesca.



    Facendo leva sul supporto determinante della grande industria, i nazisti avrebbero raggiunto il potere perché non ci arrivassero, prima o poi, i comunisti. Secondo la storiografia marxista, Hitler divenne presto vassallo dei potentati economici, e il nazionalsocialismo un baluardo della reazione.



    Uno dei capisaldi della «Weltanschaaung» hitleriana, in effetti, era l'antibolscevismo e il rifiuto dell'internazionalismo propugnato dai comunisti. Sin dalle origini, il NSDAP (Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi, N.d.A) si impose all'opinione pubblica come il nemico numero uno del partito comunista: anzi, come il suo naturale oppositore.



    Tutto sommato, ne era l'avversario più qualificato: come il KPD (Partito comunista tedesco, N.d.A), disponeva di un folto gruppo di picchiatori, che presidiavano i comizi e si abbandonavano alla violenza; pretendeva di avere orizzonti ideologici che andavano ben al di là del confronto politico dei partiti cosiddetti «borghesi», il socialdemocratico e il Zentrum cristiano-democratico; al loro moderatismo opponeva la «lotta di razza» così come i comunisti quella di classe; disprezzava l'aristocrazia e il mondo del grande capitale, nel quale individuava l'ebreo onnipotente e truffaldino, laddove i comunisti smascheravano la cricca degli sfruttatori del proletariato.



    Hitler affermava (senza vergognarsene, perché «è sempre dai propri nemici che si impara il meglio») di avere appreso dai bolscevichi l'arte della comunicazione e le esigenze della politica di massa; e pretendeva di potersene sbarazzare vincendoli con le loro stesse armi. Ma spesso, il modo più sicuro per toglierli di mezzo era tesserarli nel NSDAP: le affinità tra comunisti e nazionalsocialisti, infatti, sono più sorprendenti delle divergenze. Sono proprio queste a farci dubitare del carattere puramente reazionario del fenomeno nazista.



    Giova ricordare che, fino quasi alla fine degli anni Venti, nel partito nazista esistevano due anime: quella che, per intenderci, poneva l'accento sul nazionalismo e quella che privilegiava piuttosto il socialismo. Le sezioni dei Länder settentrionali erano «rosse»: guidate dai fratelli Strasser e dal giovane Joseph Goebbels, che una volta pretese di «espellere dal partito nazista il piccolo-borghese Adolf Hitler», misero in dubbio l'autorità stessa del Führer in seno al movimento.



    L'ala sinistra del NSDAP organizzò nel novembre 1925 un congresso ad Hannover: propose di mutare il programma dei venticinque punti stilato da Hitler nel 1920, definito «reazionario» in materia di economia. Goebbels scriveva, in questi mesi, ad esponenti del KPD: «Noi ci combattiamo senza essere veramente nemici». Insomma, all'epoca in cui il partito hitleriano aveva appena messo il naso fuori dalla Baviera il suo capo era sbeffeggiato dai camerati settentrionali con l'appellativo di «papa di Monaco», e la stessa linea politica del nazionalsocialismo restava in buona parte incerta.



    Hitler, dopo aver ricompattato il NSDAP, si lanciò nella lunga lotta politica che gli avrebbe permesso di prendere il potere: diventato prima cancelliere e poi Führer del Reich, la sua politica economica non fu troppo lontana dagli esperimenti del socialismo reale. Negli anni della scalata al potere, aveva assunto atteggiamenti ora oltranzisti, ora accomodanti, per esigenze tattiche; c'erano stati molti abboccamenti con esponenti del mondo industriale, e senza il supporto di alcuni di loro il NSDAP non sarebbe mai uscito dalla Baviera.



    Nei primi tempi il magnate dell'acciaio Fritz Thyssen, la Confederazione degli industriali bavaresi, alcuni ambienti dell'esercito avevano finanziato il movimento, intravedendone in effetti un argine al socialismo: ma s'illudevano di trasformarlo in una loro marionetta, e questo fu il loro errore. Lo stesso Alfred Hugenberg, capo dei nazionalisti e per un certo periodo alleato di Hitler, era un ricco imprenditore. Questo non impedì al Führer di sbarazzarsi di lui alla prima occasione, e di dare in appalto al potere politico la gestione dell'economia nazionale.



    Scrive l'economista liberale Ludwig von Mises: «Il nazionalsocialismo è la realizzazione dell'utopia vagheggiata dall'ala radicale del Socialismo della cattedra tedesco. Molte generazioni di filosofi, economisti, storici e critici della società tedeschi hanno cooperato alla costruzione di questo piano sociale. Rodbertus e Lassalle, Treitschke e Schmoller, Adolf Wagner e Walther Rathenau riconoscerebbero nell'edificio compiuto i loro singoli mattoni. Eppure le idee più importanti venivano dai socialisti e dai riformatori inglesi e francesi. [...] Nel Terzo Reich l'economia viene pilotata dallo Stato in modo pianificato; a spingere il singolo individuo a lavorare non è la molla del guadagno, bensì l'adempimento di doveri imposti dallo Stato; la formazione del reddito è regolata dallo Stato.»



    Il «socialismo di fatto» hitleriano aveva radici tanto profonde quanto quelle del suo nazionalismo. L'idea che il popolo tedesco avesse il diritto di imporsi sul resto d'Europa e sul mondo intero era vecchia quasi quanto il Reich bismarckiano, risalendo alla Weltpolitik di Guglielmo II; la cultura nazionalista era diffusa negli ambienti dell'aristocrazia, della piccola borghesia e dell'esercito sin dal tempo dell'impero germanico e di quello austro-ungarico, e congiuntamente all'idea di «nazione tedesca» prese ad affermarsi, tra Otto e Novecento, la concezione di «comunità di popolo» biologicamente pura.



    Anzi: già il filosofo Johann Gottfried Herder, a cavallo tra il Sette e l'Ottocento, scriveva che «la nazione più ignorante, più ricca di pregiudizi, è spesso la prima: l'epoca delle immigrazioni di desideri stranieri, dei viaggi di speranze all'estero è già malattia, pienezza d'aria, gonfiezza malsana, presentimento della morte.»



    In tutto il mondo tedesco, chiusa la parentesi intellettuale liberale della prima metà dell'Ottocento, si diffusero concezioni suprematiste strettamente legate alla purezza razziale, prima che culturale e linguistica. Nella Vienna di inizio Novecento, la rivista Ostara di Lanz von Liebenfels propagandava la dottrina dell'arianesimo definendosi «il primo periodico di scienza della razza»; il giovane Hitler ne fu un appassionato lettore. Secondo l'Ostara e l'allora sindaco di Vienna Karl Lueger, il nemico della razza ariana era l'ebreo corruttore, parassita e ingannatore. In linea con queste tendenze, sorsero tra Otto e Novecento molti circoli pangermanisti e razzisti, che avevano in comune il culto dell'esoterismo e una struttura organizzativa che le faceva apparire simili a sette più che a movimenti politici veri e propri.



    Eppure, il nazionalismo tedesco di marca aristocratica sfuggì in buona parte alla psicosi razziale fino alla disfatta nella prima guerra mondiale; e anche dopo, molti aristocratici come Hindenburg faticavano a comprendere l'odio di Hitler per i semiti, che pure si erano battuti coraggiosamente al fronte.



    Ma la leggenda della pugnalata alla schiena, che addossava la colpa della sconfitta ad un complotto di ebrei e comunisti, ebbe sempre più fortuna tra i ceti meno abbienti e gli strati più vulnerabili della piccola borghesia. Hitler elevò tali pregiudizi a cardine del suo sistema ideologico, ravvisando nell'ebreo ora il capitalista sfruttatore, ora l'affabulatore internazionalista, ora il germe che infettava la purezza della cultura e del popolo tedesco.



    L'assoluta centralità della razza diede una forma nuova al nazionalismo germanico, almeno per come lo intendevano i nazionalsocialisti: rimuoveva infatti lo scrupolo per la tradizione prussiana e aristocratica degli Junker sostituendola con la coesione di una arcaica comunità nazionalpopolare, quella «Völksgemeinschaft» che Hitler voleva rafforzare cancellando lo scontro di classe e sbarazzandosi degli ebrei. Neppure il nazionalismo di Hitler fu dunque «reazionario», in quanto non riconosceva alcuna leadership alla vecchia classe dirigente imperiale e all'aristocrazia. Anzi: Mein Kampf è zeppo di critiche al vecchio Reich e alla sua bolsa e incompetente classe dirigente, e il sentimento monarchico nei maggiori esponenti del NSDAP era praticamente assente. Al suo posto stava la fedeltà al Führerprinzip, il principio di assoluta predominanza del capo, cioè di Hitler in persona.



    Lo stesso totalitarismo nazista smentisce la tesi reazionaria: una volta preso il potere, il Führer non conservò lo status quo, né restaurò l'impero; procedette a smantellare lo stato per dargli una forma congeniale alla sua concezione del potere assoluto. Quella nazista fu una rivoluzione legale e silenziosa: legale perché a nominare Hitler cancelliere fu il presidente della repubblica Hindenburg, silenziosa perché dall'inizio del 1933 alla metà del 1934 il Führer esitò a trasformare il partito in stato, limitandosi a dare ai suoi uomini ruoli chiave in pochi ministeri per poi farsi consegnare dal parlamento i pieni poteri.



    L'opera di ingegneria istituzionale nazista stravolse la Germania. La cultura venne data in appalto a Goebbels, titolare del ministero della propaganda; vennero cancellate le autonomie secolari dei Länder e l'economia scivolò in pugno all'apparato. L'assoluta preponderanza di Hitler, che nel 1934 accentrò nella sua persona le cariche di capo di stato e capo del governo, era consolidata dalla struttura che Joachim Fest definisce «darwinismo istituzionale»: per volontà del Führer proliferavano cariche e uffici, spesso in competizione e in contraddizione nella direzione dei loro affari.



    Un simile caos burocratico favoriva l'arrivismo dei funzionari e accresceva l'influenza del solo Hitler, a fronte della generale confusione che più tardi avrebbe messo nei guai anche l'esercito in guerra. Il socialismo «di fatto», il nazionalismo razzista e anticonvenzionale, l'autentico stravolgimento in senso dittatoriale delle istituzioni tedesche sembrano indicarci una risposta chiara alla domanda posta all'inizio: Hitler non ripristinò il vecchio, ma diede spazio al nuovo; non conservò, ma distrusse ciò che rimaneva del regime morente. La sua fu una rivoluzione.
    Non farlo leggere ai "neonazisti" pinochetisti!

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