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Vita e Morte del Brigante Berardino Viola

L.T. | 4 Luglio, 2012 - 16:09


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Prefazione di Gennaro Incarnato

«Li definirono briganti, ma erano guerriglieri. Li volevano calpestare e si ribellarono. L’epilogo della loro esistenza fu tragico. A loro fu negata la patria come senso di appartenenza, come comunità di fede e di destino. La loro era una cultura altra interdetta e condannata al silenzio». Queste le prime frasi del prof. Incarnato dell’Università di Salerno, per inquadrare con poche ma efficaci parole il «fenomeno del brigantaggio» nella Marsica, in Abruzzo, nel Meridione. L’Autore, innanzitutto, attraverso il racconto di queste lunghe e penose traversie e vicissitudini, fornisce una chiave di lettura delle numerose «reazioni antiunitarie» scoppiate all’indomani dell’attraversamento del Tronto (12 ottobre 1860) da parte dell’esercito sardo-piemontese (IV e V Corpo d’Armata comandato da Enrico Cialdini). Tali processi accompagnarono una lunga serie di combattimenti, arresti, assalto alle case dei signori borghesi-liberali di ogni paese dell’entroterra appenninico, da parte delle masse (contadini, braccianti, pastori, ex soldati borbonici). La ricchezza delle riflessioni critiche, supportate da ampia documentazione d’archivio e la complessità del quadro storico che si ricompone attraverso le pagine del volume, si caratterizzano per l’ampiezza di respiro con cui l’Autore indaga partendo dall’infanzia e l’adolescenza di Berardino Viola, nato il 24 novembre 1838 a Vallececa di Pescorocchiano (Cicolano) e poi trasferitosi con tutta la famiglia a Teglieto, allora un piccolo paese posto sulla strada del fondovalle, dove oggi c’è il Lago di Fiumata (per intenderci). La complessità del quadro storico zonale durante il regime borbonico; la crisi del regno delle Due Sicilie e il suo sfaldamento; galantuomini e cafoni all’indomani della rivoluzione liberale del 1860; il debutto e il primo arresto di Berardino Viola; la concentrazione delle forze unitarie ad Avezzano per contrastare l’offensiva borbonica; la sconfitta dei garibaldini di Pateras e Fanelli nella Valle Roveto e l’entrate del generale Klitsche de La Grange e Giacomo Giorgi ad Avezzano faranno da sfondo alle vicende del futuro «brigante». La sua fuga dalle prigioni dell’Aquila, gli incentivi, le taglie, le vendette, i premi per la sua cattura assieme alla famosa «banda del Cartore» capitanata da lui e Giovanni Colaiuda di Barano di Tornimparte, compongono buona parte degli argomenti trattati nel libro di D’Amore.

Il lettore potrà scorgere lungo tutto il testo il senso del discorso svolto dall’Autore che, con approfondimenti storici, giunge a ricostruire il ruolo decisivo che talvolta assumerà questo singolare personaggio, non certo uscito dalla leggenda eroica, ma invischiato in una lotta senza quartiere dalla Marsica al Cicolano, dall’Alta alla Bassa Sabina fino allo Stato pontificio. In questa prospettiva, non sorprende, dunque, che l’ormai celebre brigante, dopo essere fuggito in Spagna (Barcellona), rientrato nel Lazio verrà di nuovo arrestato e condannato ai lavori forzati a vita. Dopo ventiquattro anni trascorsi nel Bagno Penale della Maddalena, tornerà al suo paese nel 1900, riprendendo il «vecchio mestiere», stavolta, però, solo contro tutti. Pereto, Nespolo, Colle Giove, Marcetelli, Varco, Longone, Concerviano e Roma, saranno le sue ultime mete per giungere alla mattina del 29 luglio 1900, quando il «brigante» fu sorpreso alle prime ore dell’alba in un casolare posto nelle vicinanze del suo paese. L’inevitabile scontro a fuoco con i reali carabinieri e il suo ferimento ad una gamba, mise termine alle gesta temerarie del ribelle. Il 25 maggio 1901, la Corte d’Assise dell’Aquila condannò inesorabilmente Berardino Viola alla pena dell’ergastolo da scontare nel Bagno Penale di S. Stefano (isole ponziane), dove morì nel 1906.