Originariamente Scritto da
Cale Yarborough
Yukio Mishima, 7 luglio 1970
Quando penso ai miei ultimi venticinque anni mi meraviglio di quanto siano stati vuoti. Non posso dire di avere realmente "vissuto". Sono soltanto passato oltre turandomi il naso.
Ciò che odiavo venticinque anni fa continua pervicacemente a sopravvivere, sia pur in forma lievemente diversa. Non solo è sopravvissuto ma si è propagato ed infiltrato con enorme virulenza in tutto il Giappone. E' il terribile virus della democrazia del dopoguerra e dell'ipocrisia che essa ha generato.
Pensavo che ipocrisie ed inganni sarebbero svaniti con la fine dell'occupazione americana, ma m'illudevo. I giapponesi hanno sorprendentemente scelto di farli diventare parte della loro natura. Nella politica, nell'economia, nella società, perfino nella cultura.
Dal '45 al '57 si è pensato che io fossi un tranquillo sostenitore dell'"arte per l'arte". Mi limitavo a sorridere con disprezzo. Un giovane per alcuni versi fragile come io ero non conosceva altro mezzo per opporsi che sorridere con disprezzo. Poi ho cominciato a sentire che dovevo combattere proprio contro i miei sorrisi ironici, contro il mio cinismo.
In questi venticinque anni la conoscenza non mi ha procurato che infelicità. Tutte le mie gioie sono scaturite da un'altra sorgente.
E' vero, ho continuato a scrivere romanzi. E anche numerose opere tatrali. Ma per un autore accumulare scritti equivale ad accumulare escrementi. Non giova assolutamente a diventare più saggi. E neppure a trasformarsi in meravigliosi idioti.
Ho in qualche modo il vanto di aver mantenuto in questi venticinque anni una certa purezza ideologica, ma in fondo non posso considerarlo un grande merito. Non ho sofferto prigionia, non ho sparso sangue per conservarmi fedele alle mie idee. E d'altronde il rifiuto a tradirle può essere da parte mia la prova di una testardaggine un po' ottusa, piuttosto che di una duttile, sottile sensibilità. Un esame più approfondito evidenzierà la mia carenza "virile tenacia". Ma in fondo tutto questo non m'importa.
La domanda che mi ossessiona è se ho mantenuto ciò che avevo promesso. Con il mio rifiuto e la mia critica ho senza dubbio promesso qualcosa. Non sono un politico, e mantenere la parola data non significa per me procurare a qualcuno dei vantaggi reali, eppure sono ossessionato notte e giorno dalla sensazione di non avere ancora mantenuto una promessa più necessaria ed importante di quelle dei politici. A tratti sono tentato dall'idea di sacrificare persino la letteratura pur di mantenere quella promessa. Sarà forse un riflesso d'"orgoglio virile", ma è indubbio che l'aver vissuto tranquillamente in questi venticinque anni di democrazia, traendone vantaggi nonostante la mia disapprovazione, ferisce da lungo tempo il mio animo.
Tornando al mio problema individuale, in questi venticinque anni ho seguito un piano alquanto bizzarro. Che non è stato sufficientemente compreso. Non m'importa, poiché non l'ho intrapreso per ottenere comprensione: il mio progetto era di attribuire medesimo valore al mio corpo e al mio spirito e di darne una dimostrazione pratica, distruggendo così alla radice le illusioni del modernismo letterario.
E' un mio antico sogno fondere con un atto di volontà gli estremi contrasti della fragilità del copro e della forza della letteratura, della debolezza della letteratura e della solidità del corpo: un'impresa probabilmente mai progettata nemmeno dagli scrittori europei, il cui compimento mi avrebbe consentito, come scrisse Baudelaire, di "essere il boia e il giustiziato". L'epoca moderna iniziò forse quando nella distanza fra soggetto ed oggetto si scoprì la solitudine ed il perverso orgoglio dell'artista. Ma questo significato di "moderno" può applicarsi anche al mondo antico, a poeti come Otomo no Yakamochi (1), ad autori tragici come Euripide.
In questi venticinque anni ho trovato molti amici ed altrettanti ne ho perduti. La responsabilità va attribuita unicamente al mio egoismo. Mi difetta la virtù della tolleranza: avrò lo stesso destino di Akinari Ueda (2) e di Gennai Hiraga (3).
Mi domando sovente come mai io, sebbene sia piuttosto rude e fin tropo avventuroso, non riesca ad approdare allo stato del "piacere volgare". Non amo molto la vita. A meno che lottare continuamente contro i mulini a vento non significhi amare la vita.
In questi venticinque anni ho perso ad una ad una tutte le mie speranze, ed ora che mi sembra di scorgere la fine del mio viaggio, sono stupito dall'immenso sperpero di energie che ho dedicato a speranze del tutto vuote e volgari. Se avessi riversato altrettante energia nel disperare, avrei forse ottenuto qualcosa di più.
Non posso continuare a nutrire speranza per il Giappone futuro. Ogni giorno si acuisce in me la certezza che, se nulla cambierà, il "Giappone" è destinato a scomparire. Al suo posto rimarrà, in un lembo dell'Asia estremo-orientale, un grande Paese produttore, inorganico, vuoto, neutrale e neutro, prospero e cauto. Con quanti ritengono che questo sia tollerabile, io non intendo parlare.
note:
(1) grande poeta e uomo di stato nipponico dell'VIII secolo
(2) scrittore giapponese (1734-1809), autore di poesie e inventore del racconto yomihon
(3) scrittore, pittore, scienziato e inventore giapponese del XVIII secolo