Razzismo sugli spalti: il Beitar Jerusalem
Nel calcio il razzismo è ormai divenuto un fenomeno di portata mondiale; si espande a...
di Francesco Pietrella · 6 aprile 2013 · 412 visualizzazioni
Nel calcio il razzismo è ormai divenuto un fenomeno di portata mondiale; si espande a macchia d’olio e i numerosi tentativi di repressione sembrano rafforzarlo invece che ostacolarlo. Sta diventando una spiacevole abitudine ascoltare alla radio o alla televisione qualche episodio riguardante fatti di razzismo dove i giocatori vengono presi a male parole, insultati pesantemente, presi a sputi o nella peggiore delle ipotesi addirittura picchiati, soltanto perché accusati di essere ‘diversi’. Ovviamente il concetto di ‘diversità’ non si ferma soltanto al colore della pelle ma si estende anche alla sfera politica, etnica e religiosa. Ma cosa vuol dire diversi? Com’è possibile che nel ventunesimo secolo esistano ancora questi problemi? Non hanno insegnato nulla i campi di sterminio e le barbarie naziste? Nessun uomo, per quanto bravo, saggio o furbo possa essere ha il diritto di sentirsi superiore ad un altro. Queste convinzioni sono state sconfitte dalla storia. Ma c’è qualcuno che ancora si sente superiore, qualcuno che crede nelle proprie idee malsane sbandierandole ai quattro venti ma non in parlamento bensì in uno stadio, e precisamente al ‘Teddy Kollek‘, casa dei tifosi del Beitar Gerusalemme, compagine israeliana famosa all’estero più per i suoi tristemente noti episodi di razzismo che per meriti sportivi. La storia del club, sorto nel 1936, si intreccia inevitabilmente con politica e religione. I gialloneri infatti devono il proprio nome ad un movimento della gioventù sionista, il Betar, legato all‘Herut, partito politico israeliano fondato nel 1948 da Menachem Begin. Il partito (che nel 1988 si fonderà nell’odierno Likud) si rifaceva ai principi del revisionismo sionista i cui ideali principali risiedevano nel nazionalismo, nell’anticomunismo e nel liberalismo. Ma torniamo alla squadra di calcio. Nonostante sia considerato un club minore vanta sei titoli nazionali (l’ultimo è stato conquistato nel 2007/2008) e sette Coppe d’Israele. Malgrado ciò, come ho già accennato prima, la squadra non è nota agli occhi del mondo per i propri meriti sportivi ma per colpe più gravi che vanno al di là del semplice tifo. Il Beitar ha un record: è l’unica squadra israeliana a non aver mai tesserato un calciatore appartenente alla comunità araba che dal 1948 (anno della fondazione dello Stato d’Israele) vive all’interno dei territori occupati. Un record però, destinato ad infrangersi nel Gennaio di quest’anno. Per riparare a risultati non proprio soddisfacenti, la società ha deciso di investire su due giovani atleti ceceni e musulmani, Gabriel Kadiev e Zaur Sadaev, entrambi provenienti dai russi del Terek Grozny. Ora, è normale che una tifoseria contesti l’arrivo di un nuovo acquisto ma non è altrettanto normale che il nuovo acquisto venga preso di mira con calci, sputi e striscioni del tipo ‘Beitar pura per sempre‘ o ‘Maometto è morto al 100 %‘. Ma non è finita qui. Per protesta contro la dirigenza, ‘colpevole’ di aver portato ‘sporcizia’ all’interno del club, la frangia più estrema dei tifosi, denominata ‘La Familia’, la sera del 9 Febbraio ha incendiato la sede della società. ’Io sono razzista. Odio gli arabi. Se ci portano in squadra dei musulmani, i tifosi ridurranno in cenere il club. Non può essere: gli arabi e il Beitar non sono compatibili”. Parole forti da cui trapelano antisemitismo e xenofobia, ‘sentimenti’ che caratterizzano in tutto e per tutto i sostenitori del Beitar. L’apice dell’assurdo è stato raggiunto nella partita contro il Maccabi Netanya: dopo un gol di Sadaev alcuni tifosi hanno addirittura abbandonato lo stadio in segno di disprezzo e disapprovazione a differenza di altri che invece hanno mantenuto i propri posti applaudendo il giocatore. L’allenatore in seconda, Jan Talesnikov, ha risposto cosi: bisogna rispettare ogni persona, indipendentemente dal suo credo. Quei tifosi che sono rimasti nello stadio sono i veri tifosi del Beitar“. Siamo d’accordo che i rapporti tra palestinesi e il ‘popolo eletto‘ siano tutt’altro che idilliaci ma almeno nel calcio queste barriere ideologiche dovrebbe essere soppresse o almeno lasciate in disparte soprattutto per non minare l’interesse per questo grande sport. Non per fare polemiche ma in Italia non hanno parlato molto di questo episodio ed hanno preferito offrire più spazio al caso Boateng (ugualmente grave) ma bisogna comprendere che il razzismo a sfondo religioso è forse il più pericoloso di tutti perché a fomentare gli individui ci sono anche motivi prettamente ideologici e le conseguenze di essi potrebbero degenerare ed andare al di fuori dei semplici cori da stadio. In conclusione possiamo dire che qualunque forma di razzismo rappresenta un male assoluto, un male che va combattuto, isolato ed estirpato con tutti i mezzi che si hanno a disposizione.
Razzismo sugli spalti: il Beitar Jerusalem - L' intellettuale dissidente