L’EU ha accusato la Cina di sovvenzionare l’industria dei panelli solari per fare dumping sui prezzi all’esportazione e alle minacce di ritorsione sono seguiti i fatti. La ProSun, l’associazione di imprese del settore che aveva chiesto al commissario europeo per il commercio di intervenire è stata accontentata. I dazi da poco entrati in vigore sono tuttavia temporanei in attesa di una decisione finale del consiglio dei ministri che dopo accurate indagini di qualche mese si pronuncerà in modo definitivo.
La vicenda ha aspetti grotteschi perché l’Europa, come la Cina (e come avviene dovunque) non ha fatto altro che finanziare un settore insostenibile. Infatti è dall’inizio del 2000 che l’industria della tecnologia solare, sopratutto in Germania, riceve enormi sussidi e questo è l’unico motivo per cui il settore si è sviluppato.
L’ironia ora è che dopo la crisi del 2008 quando i governi hanno cominciato a ridurre sovvenzioni e incentivi, sono state proprio le importazioni a basso costo dalla Cina a sostenere questo mercato. Ora la UE si trova di fronte a un dilemma. Da una parte il regime di austerità impone una stretta sui finanziamenti, dall’altra, i dazi ostacolando l’importazione dei prodotti a basso costo, li rende necessari. Quindi per un motivo o per l’altro il settore rischia un forte ridimensionamento e tagli a migliaia di posti di lavoro. Intendiamoci, si tratta di posti di lavoro creati dalla spesa pubblica e dal lobbismo, perché l’economia verde altrimenti non starebbe in piedi. Le grandi aziende europee del settore vorrebbero lo status quo e continuare a produrre protette da dazi e stimolate da incentivi mentre le piccole imprese sono più orientate a partnership con i cinesi per importare componenti a costi progressivamente decrescenti e accontentare così chi vuole rifornire la casa di campagna con acqua calda e riscaldamento prodotti da tecnologia solare. Questa infatti è l’unica applicazione possibile perché estenderla su vasta scala per produrre energia industriale è folle. La Germania ha i più alti costi energetici perché il 22% del fabbisogno è soddisfatto da risorse rinnovabili e questa è una causa del rallentamento del suo sviluppo e competitività.
Alla fine del 2009 proprio in Germania fu pubblicato il rapporto Economic impacts from the promotion of renewable energies: The German experience che evidentemente Frau Merkel deve aver ignorato. Devastante. Citiamo solo un fatto. Per ogni lavoratore dell’industria sono stati stanziati 175.000 euro di sussidio, raggiungendo un livello che eccede di gran lunga i salari medi e questo regime dovrebbe essere prorogato per 20 anni. E’ facile immaginare cosa succederebbe se si forzassero le economie europee ad affidarsi interamente alle energie alternative. Si sprofonderebbe nel sottosviluppo. Bastano alcune elementari osservazioni di economia industriale per capirlo.
Innanzi tutto, una più alta produttività del lavoro si basa sull’uso di più energia procapite che serve ad aumentare l’offerta di prodotti relativamente a quella di lavoro riducendo in tal modo i prezzi dei primi relativamente al secondo. Aumentando la produttività più velocemente dei prezzi o, che è lo stesso, aumentando i redditi a prezzi costanti se ne aumenta il potere d’acquisto elevando gli standard di vita. Ma chi è interessato a creare posti di lavoro nominali e non reali non fa questo ragionamento: preferisce mungere i contribuenti attraverso l’aumento della spesa pubblica per finanziare energia antieconomica come quella del sole e del vento e abbassare la produttività in tutta l’economia.
L’energia solare è estremamente diluita. La quantità di energia ottenibile per metro quadro è, nelle migliori condizioni al di sotto di 1kw per ora. (La situazione è ancora peggiore per quella eolica per la legge di Betz per la quale solo il 59.3% dell’energia prodotta dalle turbine viene convertito in energia cinetica e poiché la produzione di energia è una funzione cubica della velocità del vento, piccoli cambiamenti nella sua velocità elevati alla terza potenza producono aumenti sproporzionati di energia).
La diluizione dell’energia solare richiedendo l’impiego di più terra capitale e lavoro per produrre una frazione di energia di un impianto tradizionale porta a diseconomie di scala cioè ad aumento dei costi medi di produzione proporzionali all’aumento di dimensioni della capacità produttiva. E’ la natura stessa della tecnologia solare a rendere impossibili le economie di scala. Per cui nessun sussidio può compensare l’enorme caduta di rendimento. Non esiste, nella “letteratura scientifica” sulle rinnovabili, un riferimento a questi aspetti che sono cruciali perché lo scopo dell’energia serve ad accrescere la produttività umana non a ridurla.
Come ha illustrato Kathryn A. Lawrence, scienziata del Solar Energy Research Institute, Colorado, la costruzione di una centrale termica solare di 1000 MW di potenza richiede (senza impianti ausiliari): 35,000 ton. di alluminio; 2 milioni di ton. di cemento; 7,500 ton. di rame ; 600,000 ton.di acciaio; 75,000 ton.di vetro; 1,500 ton. di cromio e titanio; 5 ton. di pasta d’argento e occupa migliaia di metri quadri. Per contro un sistema di pale di una turbina termoelettrica convenzionale occupa (senza impianti ausiliari) circa 100 mq e tutta la costruzione di una centrale completa richiede una quantità di materiali mille volte inferiore per produrre la stessa energia!!
Un impianto fotovoltaico di uguale capacità produce 3 or 5 insignificanti kilowatt alla volta in milioni di punti distribuiti su una superficie immensa richiedendo risorse ed energia ovviamente molto superiori ad una centrale termoelettrica che produce energia in maniera concentrata, a partire da un punto. E’ come paragonare la produttività di un ristorante che usa un ettolitro di olio per friggere il pesce con quella di migliaia di casalinghe che ne usano collettivamente, nel medesimo tempo, la stessa quantità ma singolarmente pochi centilitri, impegnando però più cucine, piastre cottura, padelle e in più sono pagate dallo stato per friggere la stessa quantità di pesce.
Inoltre da dove si otterrebbe l’energia per produrre l’immensa quantità di materie prime necessarie per costruire l’impianto fotovoltaico? Da altri impianti fotovoltaici per alimentare la filiera dello spreco?
Energia rinnovabile e dissipazione di risorse sono sinonimi. Ma che importa agli economisti verdi ansiosi di promuoverla all’economia intera? Metterebbero in discussione pure il teorema di Pitagora se dovesse riuscire utile a dimostrare le loro tesi smontabili con calcoli economici da terza elementare.
Pensiamo a due tecnologie T1 e T2 per produrre P. T1 richiede, poniamo, 7 unità teoriche di capitale, 12 di terra e 3 di lavoro.
T2, invece richiede, rispettivamente 4, 2 e 1. E’ elementare che T2 sia più conveniente di T1. Tuttavia i sostenitori del fotovoltaico vorrebbero imporre T1 cioè una tecnologia che richiede più terra, capitale e lavoro per produrre meno energia. E’ evidente che con T1 la produttività si abbassa, i costi medi salgono e i prezzi dell’energia aumentano come il caso tedesco sta dimostrando. Il disastro economico è completo se si considera il costo opportunità del mancato impiego dei fattori produttivi nelle applicazioni remunerative creatrici di lavoro vero. Eppure il cavallo di battaglia dell’energia rinnovabile è “il risparmio di risorse”!!
C’è da augurarsi che la disputa tra Europa e Cina che si trascinerà per qualche tempo, invece di scatenare una stupida guerra protezionista per salvare un’industria il cui sviluppo dipende non dalla redditività ma dalle tasse e dalla distruzione di posti di lavoro in altri settori, si concluda con un negoziato e con il suo graduale smantellamento da parte europea.
Se il fotovoltaico (insieme all’eolico) costituisse la spina dorsale della produzione di energia, gli standard di vita crollerebbero a livelli primordiali.
La transizione verso un’economia sostenibile ed efficiente nell’uso delle risorse naturali significa una sola cosa: la corsa al sottosviluppo. Alias, la decrescita felice.
CHICAGO BLOG » Disastro solare ? di Gerardo Coco
giusto per ricordare dove ci stanno portando i deliri progressisti, nel terzo mondo.