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    Predefinito Giovanni Spadolini: marxismo e mazzinianesimo

    MARXISMO E MAZZINIANESIMO


    di Giovanni Spadolini







    Il 7 novembre 1978, a Forlì, l’associazione mazziniana italiana, presieduta dall’amico Giuseppe Tramarollo, tenne un convegno nazionale su “mazzinianesimo e marxismo nella storia e nella cultura italiana”. Numerosi, e non marginali, i contributi; ampio il dibattito, che coincideva con la polemica, aperta da Craxi e Berlinguer ma portata a livello scientifico da Bobbio, su “terza via e terza forza”. E la mia prolusione, che ristampo come tale, anche col suo carattere schematico e talvolta didascalico, si collocava esattamente nell’alveo della discussione su precedenti, prospettive, possibilità della “terza forza” laica democratica e riformatrice, incuneata nel varco aperto dal “bipartitismo imperfetto” dei due maggiori partiti, il cattolico e il comunista.




    C’è uno scritto di Mazzini, che risale al 1858 e che si intitola “La nostra bandiera”, dove si leggono alcune pagine, che noi possiamo considerare illuminanti ancora oggi e che ci possono servire in modo perfetto per capire quali sono stati, lungo l’arco di oltre un secolo, i rapporti, i contrasti, le tensioni fra il mazzinianesimo e gli altri gruppi della sinistra, a cominciare da Marx e dai marxisti.
    Dice Mazzini, in quel lontano scritto, che conserva ancora per noi un sapore di straordinaria attualità: “noi non siamo agitatori politici nel senso ristretto che s’è dato da molti al vocabolo: siamo riformatori sociali. Per noi la rivoluzione è mezzo e non altro: mezzo ad un’opera educatrice, ad un progresso dell’anime”. Credo che per inquadrare nei più esatti termini storici e politici il vero significato di un convegno di studi, come quello promosso dall’Associazione Mazziniana Italiana, con l’intento di ripercorrere le tappe caratterizzanti del lungo travaglio e delle vivaci polemiche fra mazzinianesimo e marxismo, occorra partire proprio dalle due figure di Mazzini e Marx, e dalla radicale antitesi non solo nella strategia politica ma nei principi informatori, che sono alla base del programma di rinnovamento e di trasformazione dell’uomo e della società, quale Mazzini andò precisando e sviluppando fin dagli scritti giovanili, che precedono di non pochi anni la stessa stesura del “Manifesto” di Marx e di Engels. “Per noi – ripeterà Mazzini nel 1862, prima ancora che si delineassero i futuri contrasti personali con Marx – per noi non esiste rivoluzione, che sia puramente politica. Ogni rivoluzione deve essere sociale, nel senso che sia suo scopo la realizzazione di un progresso decisivo nelle condizioni morali, intellettuali ed economiche della società”. Questo insistere rigoroso, accanito, ininterrotto, su un’opera di trasformazione e di rinnovamento, che non si esaurisce sul piano delle conquiste materiali ma chiama in causa l’esigenza di un processo di responsabilizzazione e di crescita civile, da realizzare “dal basso”, attraverso la partecipante solidarietà di tutti, e in primis delle forze popolari (dagli artigiani ai contadini), nasce dalla visione austera e ascetica dei “Doveri dell’uomo” e si concretizza via via, specie nel programma della Roma del Popolo con una rivendicazione orgogliosa e integrale del solidarismo mazziniano, che è l’esatta antitesi di ogni illusione classista e internazionalista non meno che di ogni suggestione egualitaria e anarchica. Marx da una parte, Bakunin dall’altra, ciascuno coi loro seguaci, i loro epigoni più o meno ortodossi, diventano così i termini di riferimento di un antagonismo e di una lotta, che soprattutto dopo il ’70 avrà manifestazioni dure e rivalità tenaci e tensioni irriducibili proprio in Romagna, in questa Romagna da sempre roccaforte appassionata e coerente del mazzinianesimo. Socialismo e repubblicanesimo. Socialismo marxista e “socialismo” mazziniano, o meglio associazionismo mazziniano. Una dialettica che dura da un secolo; un confronto che non è mai cessato. Dualismo di posizioni, ma anche attrazioni reciproche, integrazioni, scambi di posizioni, mescolanze talvolta insondabili. Socialisti che diventano repubblicani; forse più spesso repubblicani che trapassano al socialismo, nella linea, diciamo così, nenniana. Due mondi che si combattono ma si rispettano, si mescolano, si “contamino”, crocianamente. L’esame delle figure più rappresentative del pensiero democratico e repubblicano serve a “ripensare” criticamente, fuori da qualunque agiografia e da qualunque retorica, le premesse storiche e le motivazioni ideologiche di un dibattito, oggi nuovamente al centro della vita politica e intellettuale del nostro paese. Dalle tensioni subito sorte in seno alla Prima Internazionale, quella fondata a Londra nel 1864, fino alle divergenze radicali a proposito della Comune parigina, che Mazzini condannerà duramente sul piano ideologico, pur senza rinunciare a esprimere la propria simpatia umana verso gli insorti; dal rifiuto integrale degli spettri del bakuninismo fino al Patto di Fratellanza a Roma, nel 1871, che segna il vero atto di nascita del movimento operaio italiano, ben prima che i socialisti potessero ottenere in Italia una qualche eco alla loro propaganda, che sarà solo successiva. Ecco già in queste date e in questi avvenimenti si racchiude il senso di un’opposizione di fondo, che i gruppi mazziniani proseguiranno e accentueranno anche dopo la scomparsa del maestro, sempre fedeli agli schemi di un repubblicanesimo intransigente, che non si esaurirà mai nella pregiudiziale anti-monarchica e nel voto di non collaborazione con l’Italia dinastica, ma continuerà a guardare lontano, anche dalle sponde di quell’opposizione laica, da cui sarebbe emerso il partito repubblicano, costituito nel 1895, per merito degli “uomini nuovi”, Ghisleri e Gustavo Chiesi, Gaudenzi e De Andreis, Taroni e Federici, e degli altri gruppi romagnoli e marchigiani, milanese e toscani, liguri e laziali. Lo so. Non si possono comprendere le ragioni di fondo, che opporranno il mazzinianesimo al marxismo, non si possono intendere le differenze radicali fra due programmi di azione, che sottintendono due concezioni del mondo, due visioni della storia e della società, due metodi di intervento nella realtà, se non si considerano, anche a livello umano e psicologico, le due figure di Mazzini e di Marx, la forma mentis di ciascuno di loro, le caratteristiche della personalità dell’uno e dell’altro. E allora, che cosa ci può essere di meglio che rileggere quei due straordinari ritratti paralleli che ci ha lasciato scritto Nello Rosselli in una pagina famosa? “Quanto era delicata la sensibilità dell’uno – dice Rosselli -, tanto era pesante, sorda la sensibilità dell’altro, priva di quel senso accorato d’umanità, di quella larga simpatia umana per cui Mazzini è sentito in ogni parte del mondo e, se pur lo si discute e nega, lo si comprende ed ama; Marx si studia e si ammira. Mazzini, riluttante a ogni disciplina scientifica, profondamente pervaso di spirito religioso, conquistava i suoi ascoltatori e i suoi lettori non tanto e non solamente con la forza logica del ragionamento, quanto col calore della sua personale convinzione, con frequenti e sapienti ricorsi al sentimento, all’intuito, alla fede, col tono ispirato della parola. Rovesciamo Mazzini – prosegue Rosselli – e si avrà qualcosa di molto simile a Marx: freddo, preciso, logicamente impeccabile, concreto; cervello assai più acuto che non sensibile cuore. Dall’uno non poteva venire che una predicazione di amore; il sogno della solidarietà fra le classi, una dottrina di educazione e di elevazione morale. L’altro dalla secolare esperienza dell’umanità doveva trarre una ferrea legge economica, prima regolatrice di ogni vicenda; legge che non nega, ma innegabilmente attenua l’influenza dei valori morali”. Nello Rosselli con questi due ritratti, così rapidi eppure così incisivi e rivelatori, ci dice più di tanta inutile, fastidiosa pubblicistica, che da troppi anni ci offre immagini cattivanti o addolorate di Marx, magari dimenticandosi di ricordare certi pesanti, e ingiuste, definizioni che Marx dette di Mazzini, chiamandolo “Teopompo”, o “San Pietro l’Eremita”, o “Eterno vecchio asino”, con un tono astioso, settario, prepotente, che da solo è indice di uno stile. Un ricordo personale. Il 5 giugno 1953, proprio alla vigilia del voto politica sulla legge maggioritaria, usciva sul Corriere della sera, diretto allora da Mario Missiroli, un mio elzeviro intitolato “Marx e Mazzini”. Me lo aveva commissionato il direttore, che voleva appoggiare le liste repubblicane, in difficoltà, per l’alleanza con la DC, soprattutto in Romagna. Vorrei rileggerne l’inizio e la conclusione. “Il signor Mazzini, da due anni papa della chiesa democratica in partibus – scriveva Marx ad Engels il 30 marzo 1852 col più crudo sarcasmo – (…) nella sua altisonante maniera da domenicano strepita contro gli eretici, le sette, il materialismo, lo scetticismo, la babele francese, con altrettanta decisione con quanta qui a Londra lecca il sedere ai borghesi liberali”. La spietata polemica di Marx contro il grande apostolo italiano non rinunciò a nessuna delle armi della diffamazione o delle insinuazioni della ribellistica. Pur di colpire il suo pensiero, il suo apostolato, che contraddiceva radicalmente alla sua visione del mondo, Marx non esitò ad accusare Mazzini di collusione con le classi dominanti di Gran Bretagna e Francia: e “spillare danari alla Mazzini” fu una delle espressioni cui ricorse nel carteggio con Engels. Non si limitò mai ad attaccare la dottrina: volle colpire l’uomo. In occasione dei moti di Milano del 6 febbraio 1853, gettò un’ombra sul coraggio fisico del patriota geniale, che aveva turbato i sonni di tutte le polizie europee (e l’impresa venne giudicata “miserevole” e declamatoria). Collegò la posizione mazziniana sul problema agrario in Italia col preteso finanziamento di esponenti censitari al movimento di agitazione. “Non risparmiò nulla: neppure i valori più sacri. Nessuno degli ideali perseguiti da Mazzini era in grado di commuovere Marx. Non l’unità nazionale, che egli subordinò sempre alla rivoluzione sociale. Non la trasformazione religiosa, che giudicò anacronistica e impossibile. Non il culto del volontarismo, in cui vide poco più che un residuo di ribellismo e di indisciplina. Non la fede nella democrazia, cui oppose quella nella lotta di classe. Non lo spirito romantico e umanitario, cui contrappose una concezione realistica e drammatica della vita, che accettava, per la guerra degli oppressi, gli stessi criteri della strategia di Clausewitz o della politica di Bismarck”. E ora le conclusioni, che mi sembrano attualissime. “Lo dimostra l’estrema fase della lotta di Marx contro Mazzini, all’indomani della fondazione dell’Internazionale, sottratta ad ogni condizionamento della democrazia repubblicana e universalistica. Lanciare mine contro Mazzini: è la parola d’ordine che segue al 1864. Non a caso i primi passi di Bakunin in Italia saranno guidati e sorretti dalle centrali marxiste col preciso scopo di contenere e annullare l’influenza mazziniana. Marx la paventerà sempre, e ancora negli ultimi anni dopo il ’70 ricorderà che gli operai italiani stavano in gran parte “in coda a Mazzini”. “L’espansione del socialismo marxista fu indirizzata costantemente a strappare le posizioni conquistate dal mazzinianesimo. Lo “scaltro fanatico”, come lo aveva chiamato Engels, aveva parlato al cuore degli artigiani, dei primi nuclei operai, creando le basi di un movimento che avrebbe potuto sboccare, col tempo, ad una forma di laborismo all’inglese. Fu quell’istinto “associazionistico” e “solidaristico” che Marx temette sopra ogni altro. Il profeta del Capitale vi scorse il germe di un sindacalismo di massa legato ai principi nazionali. E la sua negazione colpì, con Mazzini, tutti i valori del Risorgimento”. Ma non è solo dei rapporti fra Mazzini e Marx, fra gli obiettivi di rinnovamento democratico, perseguiti dall’apostolo genovese, e le proposte rivoluzionarie del pensatore di Treviri, che si è parlato in questo convegno. Io credo che l’aspetto più originale, il contributo più stimolante, anche per le implicazioni attuali destinate a definirsi meglio, riguardi il recupero della vitalità di una concorrente di pensiero e di cultura laica, come quella democratico-repubblicana, che nasce sul tronco del mazzinianesimo del secolo scorso, e prosegue e si arricchisce nel Novecento, lungo un arco di tempo che arriva fino a noi. Se i Ghisleri, i Colajanni, gli Zuccarini, i Della Seta hanno continuato e arricchito la problematica del mazzinianesimo alla luce della realtà italiana post-risorgimentale e post-unitaria, senza rinunciare a una serrata e puntigliosa polemica coi socialisti del vecchio ceppo positivista ed evoluzionista, è soprattutto con uomini come Salvemini o Rosselli o Salvatorelli che avevano l’esatta misura del ruolo e dell’importanza di questo filone di pensiero, che ha pesato su un certo versante della politica italiana, e che ha condizionato talune scelte: scelte delle conoscenze prima ancora che delle forze organizzate. Certo, si tratta di forze di minoranza; ma forze essenziali, se vogliamo – come vogliamo – cercare di costruire insieme quell’Italia della ragione, egualmente lontana dalle assurde ipoteche del conservatorismo accigliato o del populismo fanatico, dall’utopia irrazionalistica o dal messianesimo giustizialista. La battaglia, per esempio, che Salvemini ha condotto sulle colonne del Mondo di Mario Pannunzio, o del Ponte di Calamandrei, contro quella che si chiamava “l’Italia scombinata”, che cos’altro è se non la continuazione della stessa battaglia contro i pericoli di un’Italia “mediterranea”, che tanto agghiacciavano Gobetti? E la battaglia di Giovanni Conti, o di Ugo Della Seta, o di Oliviero Zuccarini a favore della partecipazione democratica, delle autonomie locali, contro le tentazioni centralistiche, contro le spirali della burocrazia, contro lo spettro dello Stato-Moloch, che cos’altro è se non il rifiuto delle velleità massimalistiche, care ai marxisti ortodossi, e la convinta, appassionata ricerca di un’Italia libera, democratica, repubblicana, capace di contemperare – proprio come voleva Salvatorelli – l’eredità dell’Italia risorgimentale con le esigenze incalzanti di una società di massa e di una società industriale avanzata? Il filo conduttore, il princìpio ispiratore, che dal mazzinianesimo delle origini arriva ai nostri giorni, e idealmente lega insieme tutti questi esponenti della cultura democratico-repubblicana (che si identifica con la cultura laica, con la cultura della ragione) sta nella comune volontà di respingere tutte le illusioni e le seduzioni di stato e di classe, per la ricerca di un patrimonio comune a tutte le forze democratiche, contro il ritorno degli irrazionalismi devastatori, contro le fughe in avanti nell’attivismo e nell’utopismo, troppo spesso solcati dalla violenza. Oggi si parla nuovamente della “terza via”, una formula tornata di moda, così come lo era stata a metà degli anni trenta, quando, per esempio, un’esperienza di politica riformatrice quale fu il New Deal rooseveltiano venne subito giudicata anche in parecchi paesi della nostra vecchi Europa una forma efficace, un modello accettabile di “terza via”, egualmente lontana dalla crisi che aveva investito il capitalismo occidentale (ricordate il famigerato crack del ’29) non meno del comunismo sovietico, con lo spettro dello stalinismo alle porte. Proprio una delle figure più significative e autorevoli, al centro di queste giornate del convegno mazziniano, - mi riferisco a Carlo Rosselli – aveva parlato di “socialismo liberale”; e questa sua formula, che sarebbe ingiusto confondere con il liberal-socialismo dell’amico Guido Calogero, aveva presto acquistato dignità di “terza via” nel mondo dell’emigrazione antifascista, già scosso dalle polemiche e dai dissensi a proposito dei vecchi schemi dottrinari e dei respinti o contestati schieramenti partitici. Dirò di più: anche nell’immediato dopoguerra i ritorni di fiamma di quell’insegna suggestiva avvennero all’ombra di un ideale ponte fra due mondi: Il Ponte, appunto, come Piero Calamandrei volle chiamare la rivista più emblematica e riassuntiva del partito d’azione: un partito, che già nel nome risentiva le vibrazioni risorgimentali, la parentela ideale col partito di Mazzini. La novità di oggi è una sola, e converrà non tralasciare di discuterne in un convegno come questo, dove il confronto fra Mazzini e Marx, fra marxismo e mazzinianesimo, viene riproposto in una chiave di analisi storica, culturale e politica, che rifugge dalle pregiudiziali ideologiche, dalle chiusure manichee e dalle ipoteche degli “idola fori”. E l’ho già rilevato nella mia polemica, ad armi cortesi, con l’amico Noberto Bobbio. La formula della “terza via” è rinata all’interno del mondo di obbedienza marxista. Quale tipo di socialismo? Il socialismo reale delle società orientali, fondate sul marx-leninismo? O non piuttosto le interpretazioni riformiste dell’occidente socialdemocratico? O addirittura – secondo la proposta comunista – una via intermedia fra il socialismo reale dell’Est e le socialdemocrazie dell’area germanica o scandinava, giudicate comunque insufficienti? Ma è una prospettiva insufficiente. Proprio considerando le tematiche di fondo cui si è ispirato il dibattito ideologico e politico, dalla seconda metà dell’800, con Mazzini e i suoi discepoli, e soprattutto nel nostro secolo, col contributo di uomini come Salvemini o Salvatorelli, come Rosselli o Conti o Della Seta, ci si accorge che ogni discorso sulla “terza via” non può prescindere dall’apporto di esperienze, intellettuali o politiche, che non sono socialiste ma che tuttavia hanno inciso sui rapporti sociali e produttivi, non meno del socialismo scandinavo o di quello germanico, entrambi esempi classici di socialdemocrazia. Esperienze democratiche, e non socialiste. Così, il richiamo alla “terza via” ci conduce al discorso sulla “terza forza”. Proprio il sogno della “terza forza” è stato il sogno di tanti uomini, che dentro e fuori il partito d’azione hanno avuto legami, affinità, influenze con la grande lezione mazziniana. Ma qui non siamo più nell’area socialista, o vi siamo solo in piccola parte. Pensiamo, per esempio, a “Giustizia e Libertà”, al partito d’azione, alle esperienze successive, che da quel tronco si sono sviluppate nell’Italia post-liberazione. Tutti, seppure con venature e spunti e suggestioni differenti, tutti interpreti di una soluzione “terzaforzista”, nuova rispetto ai vecchi schemi giudicati logori, alle vecchie insegne consunte o screditate, questi personaggi, che hanno fatto perno sul partito d’azione, non vollero mai chiamarsi esplicitamente socialisti, a cominciare da Ugo La Malfa. La stessa crisi, tormentata e sofferta, del partito d’azione – questa testata risorgimentale, con vibrazioni di democrazia diretta, di “rivoluzione incompiuta” – nasce dal ripudio della parola “socialismo”, dalla differenziazione fra socialisti e non socialisti. Tutto il tronco amendoliano, con La Malfa e Tino, con Salvatorelli e Omodeo, non seguì il partito d’azione vero e proprio (la cui vita, d’altra parte, sarà effimera e si consumerà con la stagione della Costituente), alimenterà piuttosto il movimento, non partito, della democrazia repubblicana. Movimento, e non partito, come era stata, nel novembre 1924, l’Unione democratica nazionale di Giovanni Amendola, progenitrice e ispiratrice diretta del nuovo, composito, articolato movimento destinato a confluire nello storico partito repubblicano.Quasi a dimostrare che c’è un’eredità risorgimentale e post-risorgimentale che, nelle scelte ideali non meno che nell’azione politica, finisce per identificarsi nella lezione etico-politica del mazzinianesimo.







    Da G.Spadolini, L’Italia dei laici. Da Giovanni Amendola e Ugo La Malfa (1925-1980), Le Monnier, Firenze, 1980.



    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

  2. #2
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini: marxismo e mazzinianesimo

    Un approfondimento molto interessante in particolare per l' accenno al tema della "terza via". Appare evidente che pur con molto rigore scientifico si tenda ad accentuare la parte conflittuale , tutta l' esperienza comune della "estrema" in parlamento e nelle autonomie locali è saltata a piè pari , si punta in effetti più al conflitto con Marx che al rapporto con i partiti marxisti . Ma comunque è un approfondimento di alto valore , da cui trova conferma il rapporto di concorrenza del mazzinianesimo con il socialismo marxista e la contrapposizione di entrambi al liberalesimo

  3. #3
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini: marxismo e mazzinianesimo

    Cara
    la Spadolina era della parrocchia toutta.
    Era vecchia già da giovane.
    InfattA, nel 44 (quando la RSI le diede la medagliessa), scrisse un articolo sulla Nazionae di Firenze, e la Mussolina leggendolo scrisse complimentandosi pensando che fosse un anziano professore toutta

 

 

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