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  1. #11
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    Predefinito Re: La tecnica ucciderà l'arte?

    Citazione Originariamente Scritto da Tomás de Torquemada Visualizza Messaggio
    Ma, in fondo, la tecnica deve per forza essere nemica dell'arte?

    Noi, ad esempio, stiamo parlando di arte grazie all'indispensabile ausilio della tecnica... in assenza della quale i nostri dialoghi non avrebbero mai potuto svolgersi... e tantomeno fare con un clic il giro del mondo, diventando teoricamente consultabili da chiunque grazie al miracolo Internet...

    La tecnica rischia di sfociare nella robotizzazione non per suo difetto intrinseco, ma per l'incapacità umana di farne un uso... umanistico.
    in effetti la tecnica ci ha dato macchine fotografiche e cineprese. Come si fa a "spegnere l'operare artistico"?
    Poi non ho capito cosa c'entri la robotizzazione né perché la vediate come qualcosa di negativo...
    Ultima modifica di paterfamilias; 02-07-13 alle 09:19

  2. #12
    calici amari
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    Predefinito Re: La tecnica ucciderà l'arte?

    Citazione Originariamente Scritto da Tomás de Torquemada Visualizza Messaggio
    Ma, in fondo, la tecnica deve per forza essere nemica dell'arte?
    Non sono due cose contrapposte; ci può essere tecnica senza arte, ma non arte senza tecnica:
    la tecnica consente a un'idea fantasiosa di diventare qualcosa di concreto...

    l'automazione, alla quale forse alludi, non è 'tecnica' ma ripetizione meccanica di un'azione da parte di un robot non umano... il che può portare alla produzione di massa di una replica, ma l'arte è sempre fatta di pezzi unici, non replicabili né eseguibili da una macchina.

    .
    Ultima modifica di Regina di Coppe; 02-07-13 alle 11:27
    Corpo sano in ambiente sano.

    Chi avvelena una persona per vendetta viene condannato per veneficio.
    Chi avvelena milioni di esseri umani per profitto viene onorato come capitano d'industria.

  3. #13
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    Predefinito Re: La tecnica ucciderà l'arte?

    Citazione Originariamente Scritto da paterfamilias Visualizza Messaggio
    in effetti la tecnica ci ha dato macchine fotografiche e cineprese. Come si fa a "spegnere l'operare artistico"?
    Poi non ho capito cosa c'entri la robotizzazione né perché la vediate come qualcosa di negativo...
    Non ci riferiamo certamente all'impiego dei robot nei processi produttivi... ma al pericolo ipotetico di una sorta di assimilazione dell'uomo all'automa, inteso come macchina che ripete in maniera meccanica operazioni sempre uguali e che è priva delle caratteristiche di sensibilità, creatività e autocoscienza che sono prerogativa dell'essere umano... e che si presume lo rimarranno, almeno finché Hal 9000 non diventerà reale...
    "Tante aurore devono ancora splendere" (Ṛgveda)

  4. #14
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    Predefinito Re: La tecnica ucciderà l'arte?

    Citazione Originariamente Scritto da Regina di Coppe Visualizza Messaggio
    Non sono due cose contrapposte; ci può essere tecnica senza arte, ma non arte senza tecnica:
    la tecnica consente a un'idea fantasiosa di diventare qualcosa di concreto...

    l'automazione, alla quale forse alludi, non è 'tecnica' ma ripetizione meccanica di un'azione da parte di un robot non umano... il che può portare alla produzione di massa di una replica, ma l'arte è sempre fatta di pezzi unici, non replicabili né eseguibili da una macchina.

    .
    Esatto. Assumendo il termine nel senso etimologico, nonché artistico e anche filosofico, certamente sì... la tecnica è proprio quel tesoro, quel patrimonio di norme che - anche regolando l'uso di determinati strumenti - permette appunto all'idea astratta di sfociare in opera materiale...

    Nel contesto di questo thread la parola è tuttavia usata in senso lato... come sinonimo di tecnologia, di cui l'automazione costituisce un aspetto.
    Ultima modifica di Tomás de Torquemada; 03-07-13 alle 05:14
    "Tante aurore devono ancora splendere" (Ṛgveda)

  5. #15
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    Predefinito Re: La tecnica ucciderà l'arte?

    Posto qui, per affinità...

    La meccanica quantistica può aprire nuove strade all’arte?

    di Gian Paolo Prandstraller


    La forma, nelle funzioni visive, è una delimitazione dello spazio che ne separa una parte rispetto all’infinità del medesimo. Il più importante tentativo di identificare per tipi le forme visive è costituito dalla geometria, intesa dapprima come misurazione delle terre e poi, con Euclide (vissuto attorno al 300 a.c.) come identificazione di forme tipiche (quadrato, triangolo, cubo, sfera, ecc.) alle quali le singole delimitazioni dello spazio possono essere ricondotte. La geometria ha avuto una grande influenza sulle arti visive. In certe culture, come quella egizia e bizantina, la geometria ha giocato un ruolo essenziale, è stata cioè una matrice di forme tipiche accettate dai creatori di arte. Ma un’altra corrente si è per così dire rifiutata di delimitare lo spazio entro icone standardizzate, e ha posto in primo piano le strutture naturalistiche degli oggetti, in particolare la figura umana e il paesaggio. L’arte greca, grosso modo, dall’VIII secolo a.c. in poi e di seguito l’arte ellenistica (dopo la morte di Alessandro Magno) hanno imboccato questa seconda strada dando luogo alle sculture di Prassitele, Lisippo e Fidia, alla statuaria greco-romana, alla pratica visiva del mosaico, ecc.; e d’altra parte alla pittura intesa come “imitazione” della natura sia pure condizionata dall’intenzione interpretativa degli artisti. La forma è stata, per questo cospicuo filone, l’espressione del vero; che si è articolata secondo molteplici tecniche e finalità, esternando volta a volta tendenze mistiche, simboliche, veristiche, celebrative, esornative e così via. Il XX secolo ha assestato un colpo mortale alla forma com’era stata concepita dalle arti in precedenza. Si può parlare di una vera e propria ribellione contro la forma, avvenuta nel ’900. Picasso la attacca violentemente, umiliandone la naturalità comunemente accettata. Con Picasso inizia di fatto una guerra sistematica alla forma, e questo attacco viene giustamente inteso dal senso comune come una rivoluzione. Si succedono forzature, riduzioni, semplificazioni, compressioni, alterazioni artificiose della forma naturale. Tali interventi, in gran parte successivi a Picasso, arrivano ad essere l’emblema di taluni movimenti artistici: per esempio, la forma come dinamismo e velocità nel futurismo, la forma costretta entro modelli rigidi nel cubismo; la forma contratta o esasperata nell’espressionismo; la forma ridotta a pura superficie e linea retta nell’astrattismo; la forma semplificata nel primitivismo al modo delle culture ingenue e primitive; la forma ridotta a moduli iconografici standardizzati ripetuti sistematicamente; ecc. La rivolta contro la forma arriva, mezzo secolo dopo, alla distruzione completa della stessa. Pollock compie un atto radicale di delegittimazione della forma: non a caso è considerato il fondatore del cosiddetto “informale”. Pollock sostituisce la linea periferica che dà luogo alla delimitazione dello spazio con la pura casualità del colore lasciato cadere dal pennello o da qualche recipiente sulla tela. Ciò che ne risulta non è più forma, ma casualità visiva; in concreto una serie di macchie di colore che si formano a caso sulla superficie. Pollock inventa la pittura informale perché sostituisce l’immagine proveniente dal caso a quella dotata di senso. Conseguentemente elimina il fattore abilità (nel creare forme visibili) sostituendolo con l’accidentalità del gesto dell’esecutore. Dopo di lui ogni pittura formale diventa contestabile; chi segua la sua linea può considerare solo le conseguenze d’un agire irrazionale, al quale sono collegati esiti non prevedibili perché estranei ad ogni progettualità. Ma Pollock va considerato una figura emblematica anche per un’altra ragione. Il suo modello può essere visto come la genesi d’un’arte intesa come performance. Far cadere il colore a caso su una tela è un’ attività dell’individuo che si autodefinisce creativo, più che del professionista che mira ad un risultato preciso. Pollock propone una soluzione del problema artistico più vicina al teatro che alla creazione d’una forma. Con lui la crisi dell’arte moderna, sfociata nell’informale, trova una via d’uscita che sarà imitata da molti artisti nella seconda metà del XX^ secolo. Propone in realtà una performance, la cui origine può essere ricondotta allo stesso artista oppure a qualche altro soggetto. Si ipotizza così una via d’uscita per così dire originale al problema dell’opera d’arte; e contemporaneamente alla pressante domanda, cosa sia veramente l’arte. Vi è però un ritorno importante più o meno nello stesso periodo alla filosofia della forma: nella seconda parte del secolo XX^ fiorisce la pop-art, corrente che valorizza di nuovo la forma, in termini di oggetti popolari, sui quali si concentra, come ad un approdo salvifico, l’attenzione di non pochi artisti, dando luogo a filoni in cui la forma ha di nuovo una centralità indiscutibile, in termini antiaccademici e antielitari. La performance come epicentro dell’arte viene accettata dalla critica e dal pubblico in quanto incorpora un messaggio concettuale. Sulla scia della performance si propone una categoria nuova: l’arte “concettuale”. Joseph Kosuth definisce, negli anni ’60, arte concettuale ogni forma d’arte fondata sul pensiero. Essa ha finito per comprendere qualunque espressione artistica in cui i concetti e le idee espresse siano più importanti dei risultati artistici e percettivi delle opere. Appartengono infatti alla categoria concettuale esperienze molto diverse caratterizzate da un denominatore comune, un’idea dominante che vi è sottesa. Per esempio la Land Art, l’Arte Povera, la Body Art, la Narrative Art, la Minimal Art, ecc. L’arte concettuale diviene in breve sede privilegiata di “metafore”, formando così una corrente retorica con cui in ogni espressione si vede un significato diverso rispetto a quello effettivamente rappresentato. Nella fase conclusiva del XX^ secolo la metafora appare come un motivo quasi costante nelle arti visive: è un sistema articolato e complesso di allusioni, riferimenti, rimandi, citazioni, interpretazioni, il cui apprezzamento di acutezza e intelligenza diviene il vero parametro del valore di un’opera. L’uso estensivo della metafora rende alla fine opinabile qualsiasi giudizio sul valore economico delle opere d’arte, e si presta chiaramente alla mistificazione da parte del mercato e della stessa critica. La trovata prende spesso il posto della capacità rappresentativa. Con l’arte concettuale la forma viene in ogni caso schiacciata sotto il peso d’una retorica che riempie di sé il fare arte; nell’ultima parte del XX^ secolo tale retorica sembra trionfare; si dichiara così, apertamente, la crisi dell’arte. Una proposta aperta alla discussione: Vi può essere un modo per superare l’empasse in cui l’arte si è cacciata? Espongo qui un’ipotesi: che la meccanica quantistica possa offrire una via d’uscita all’arte contemporanea. Non dico che sia la sola. Altre se ne possono indicare: ma il “ricupero della forma” è certamente allo stato delle cose molto difficile, se non s’identifica una forma alternativa rispetto a quella che è stata esperita nel XX^ secolo, in altre parole un campo dove siano creabili forme inedite rispetto a quelle naturalistiche. All’inizio del ’900 Max Planck afferma che l’energia viene emessa non in forma continua ma in pacchetti che lo scienziato tedesco chiama “quanti”. Gli scambi di energia nei fenomeni di emissione e di assorbimento delle radiazioni elettromagnetiche avvengono in forma discreta, non continua come sosteneva la teoria elettromagnetica classica. Ora, la constatazione di Planck apre la via alla configurabilità di entità discrete, cioè apre il problema di quali aspetti visivi assumano i risultati dell’emissione di energia. Quest’ultima nel flusso appare amorfa; mentre il processo di quantificazione fa riaffiorare delle entità distinte dotate di forma. Nascono, dopo Planck, le due ipotesi più note sulla natura formale dell’energia: quella ondulatoria (Schrödinger) e quella corpuscolare . La prima dice che l’energia assume la forma di onda/e, la seconda di particelle. Entrambe queste ipotesi hanno in sé il connotato della forma, di una forma non naturalistica, sostanzialmente quella che assumono le entità energetiche all’atto della loro emissione, nel loro cammino, nelle loro combinazioni. La meccanica quantistica si configura dunque come matrice di forme, ovviamente diverse rispetto a quelle macroscopiche che appaiono nella natura visibile. Queste forme possono diventare constatabili con l’ovvio soccorso della luce attraverso una “visualizzazione” ossia col rendere visibile ciò che ad uno sguardo naturalistico non lo è. La meccanica quantistica porta dunque con sé una possibilità di vedere ciò che è naturalmente invisibile. Questa può essere la porta attraverso cui è dichiarabile la forma dei processi energetici, che senza una visualizzazione rimangono oscuri. E’ comprensibile che la visualizzazione diventi un fattore sostanziale dell’epistemologia moderna, una sorta di illuminazione di ciò che è immerso nell’oscurità. Il concetto di visualizzazione diventa, perciò, elemento essenziale nel processo cognitivo. Tale visualizzazione può essere realizzata in modo coerente con le leggi della fisica, ma comporta sempre un certo apporto di creatività. Il processo di creazione di “nuove forme” è dunque sempre in un modo o nell’altro creativo, esige il contributo d’una mente immaginativa. Sembra infatti innegabile che se ci si pone al di là della naturalità, la conoscenza sia resa possibile o almeno favorita dalla “visione”, ossia da un’anticipazione visiva e soggettiva della forma subatomica. Lo stesso concetto di “osservazione” (fondamentale nella scienza sperimentale) è in parte sovrapponibile al processo di visualizzazione, perché l’itinerario cognitivo attraverso cui una realtà può essere osservata, passa quasi sempre per una messa in evidenza visiva di ciò che è oggetto di osservazione. Si può sostenere che quest’ultima presuppone un fattore metodologico, la visualizzazione, dato che mette in evidenza ciò che rimarrebbe occulto se non fosse offerto e aperto alla visione. Da ciò deriva la centralità dello sforzo di visualizzazione per qualsiasi estetica riferita al mondo subatomico. Se ne può ricavare la convinzione che, a tale livello, fare arte significa visualizzare creativamente le fonti di energia e i processi che ne derivano. Arte, dunque, non più come rappresentazione della realtà naturale, ma come visualizzazione dell’energia in tutte le modalità assumibili ed esperibili da questa, sia fisiche sia d’altra natura. Si può visualizzare infatti una funzione d’onda, un algoritmo, un fenomeno ottico, una combinazione di forze, uno stato d’animo, la forma presumibile di una particella posta a base di tutto l’universo, le ipotesi particellari ideate dai teorici, ecc.. E’ superfluo sottolineare che il processo può essere facilitato mediante l’uso di tecnologie informatiche, elettroniche, meccaniche, ottiche, e così via Se ne deduce che l’arte può dare un contributo alla conoscenza perché usa la creatività individuale per configurare nuove delimitazioni dello spazio subatomico (ossia forme), ovviamente a livello della realtà occulta; per capirne le strutture, i mutamenti, le combinazioni, le successioni, le apparizioni, le sfumature, ecc.; ma anche ogni espressione intellettiva e ogni ipotesi strutturale. Perciò l’idea che l’arte futura possa consistere in visualizzazioni di ogni tipo (di fonte energetica) dà un soccorso insperato a chi si domanda cosa sia o possa essere l’arte oggigiorno. A tale domanda si può rispondere semplificando che l’arte può diventare la visualizzazione creativa dei processi energetici tout-court, attuata attraverso idee e tecnologie di qualunque tipo; cosicché l’artista diventa un soggetto che opera a livello epistemologico (e non più soltanto estetico) perché dà un contributo alla conoscenza della realtà. In tal modo l’arte può proporsi come attività conoscitiva il cui fine è di investigare la realtà fenomenica aggiungendo la propria forza creativa alla pura e semplice osservazione. Se così è l’arte può diventare una branca dell’epistemologia, e quest’ultima attraverso i processi di visualizzazione essere ricerca sulla realtà occulta oltre che sui meccanismi del pensiero e della psiche. Va detto che l’arte del passato ha cercato molte volte di visualizzare l’ignoto o qualche realtà non esplorata. La religione è stata per molto tempo ispiratrice di visualizzazioni mistiche: mondi ultraterreni sono stati portati a visibilità da artisti eminenti, come Giotto, Michelangelo, Brueghel, ecc., rendendo constatabili visivamente il giudizio universale, il paradiso, l’inferno e altre situazioni trascendenti. La visualizzazione del demonio ha formato e formerà l’oggetto di non poche tesi di laurea. Illustratori e disegnatori hanno cercato di indovinare come sono fatti gli abitatori degli abissi oceanici, o quelli di altri pianeti mai individuati o facenti parte del nostro sistema solare. Sulle sembianze dei marziani si è scatenata la fantasia di molti pensatori e visionari, e non pochi temi della fantascienza riguardano le forme inedite di creature spaziali. Fenomeni psichici come l’angoscia, il terrore, la malinconia, l’estasi, ecc. sono stati visualizzati da artisti che ne hanno conosciuto anche personalmente i significati. Questi esempi dimostrano che l’arte ha già compiuto l’operazione proposta in questo scritto e dunque non farebbe nulla di nuovo avventurandosi coscientemente in questo campo. C’è però una differenza decisiva rispetto al percorso aperto dalla meccanica quantistica verso il mondo dell’energia. Qual è questa differenza? Che la visualizzazione oggi possibile a livello di questa realtà è sostenuta dalla fisica e più in generale dalle scienze, attraverso i principi e le leggi scoperte da tali fonti di conoscenza; e dunque essa non può più essere totalmente arbitraria, o completamente fantastica. E’ presumibile che la visualizzazione effettuabile nel futuro riposi sulla scienza e si sottragga pertanto all’ arbitrarietà totale che è propria del pensiero visionario. Vi è poi un’altra cosa da dire a questo proposito: essa sarà, dovrà essere, motivata da intuizioni o immaginazioni suggerite da problemi già individuati dalle scienze. Sarà verosimilmente una visualizzazione che si potrebbe definire di secondo grado rispetto a quella propria dei mistici o dei visionari del passato: una visualizzazione cognitiva, appunto, cioè volta ad aggiungere qualcosa al vasto campo del conosciuto; e ad aiutare anche settori artistici apparentemente lontani dal mondo dei quanti. Per esempio l’architettura e il design, nella loro inesausta ricerca di nuove forme. L’architettura si trova oggi nella palese ricerca di nuove forme. Basti pensare ad architetti come Zaha Adid, Frank O.Gehry, Daniel Libeskind, Rem Koolhaas, ecc. per comprendere come la tensione verso il nuovo in termini di forma sia addirittura spasmodica in questi personaggi. L’architettura oggi è dunque un campo dove i processi di visualizzazione possono scatenarsi. La base scientifica distingue nettamente i processi di visualizzazione oggi possibili da quelli propri del medioevo e di altre epoche volte ad offrire una qualche visione dell’oltretomba o di ambiti immaginari estranei all’esperienza. Essa può rendere apprezzabile attraverso la vista qualcosa di arguibile mediante induzioni/deduzioni; essere matrice di ipotesi successivamente verificabili o di fenomeni intravisti mediante procedimenti logici; o di intuizioni fondate su indagini psicoanalitiche, ecc.. Di qui il rilievo cognitivo della visualizzazione oggi possibile rispetto a quella attribuibile a chiunque sia solo un abile suscitatore d’immagini. La visualizzazione relativa al mondo subatomico non influenzerà dunque solo la conoscenza della realtà microscopica, ma anche di quella macroscopica, e di quella che proclama ad ogni passo il proprio allontanamento dalla geometria euclidea in favore di un’altra geometria definita non euclidea proprio per sottolineare il distacco dalle forme elementari acquisite fin dall’antichità: alias per dare nuovi contenuti al concetto di forma. Difficile dire quali risultati conoscitivi reali potrà dare l’arte come visualizzazione creativa. Dipenderanno da molti fattori nei quali si dovrà includere la capacità immaginativa di singole personalità artistiche rivolta a indovinare forme inedite, metamorfosi di forme, progressioni di fenomeni visivi, ecc. Saper visualizzare creativamente può diventare un attributo fondamentale dell’artista. E’ anche possibile che questo modo di conoscere il mondo subatomico apra la strada al declino dell’attuale retorica delle metafore, data la constatazione che la metafora aggiunge poco o nulla alla conoscenza effettiva. Con tutte le conseguenze che tutto ciò può comportare sul mercato dell’arte, sul valore delle opere, sul giudizio dei critici, sulle richieste dei collezionisti, ecc. Se ciò avverrà, si vedrà probabilmente nei prossimi decenni, nei quali non è impossibile che la crisi dell’arte entri in una fase irreversibile e l’urgenza di trovare nuove strade per l’attività artistica] La meccanica quantistica può aprire nuove strade all’arte?

    di Gian Paolo Prandstraller

    La forma, nelle funzioni visive, è una delimitazione dello spazio che ne separa una parte rispetto all’infinità del medesimo. Il più importante tentativo di identificare per tipi le forme visive è costituito dalla geometria, intesa dapprima come misurazione delle terre e poi, con Euclide (vissuto attorno al 300 a.c.) come identificazione di forme tipiche (quadrato, triangolo, cubo, sfera, ecc.) alle quali le singole delimitazioni dello spazio possono essere ricondotte.

    La geometria ha avuto una grande influenza sulle arti visive. In certe culture, come quella egizia e bizantina, la geometria ha giocato un ruolo essenziale, è stata cioè una matrice di forme tipiche accettate dai creatori di arte. Ma un’altra corrente si è per così dire rifiutata di delimitare lo spazio entro icone standardizzate, e ha posto in primo piano le strutture naturalistiche degli oggetti, in particolare la figura umana e il paesaggio.

    L’arte greca, grosso modo, dall’VIII secolo a.c. in poi e di seguito l’arte ellenistica (dopo la morte di Alessandro Magno) hanno imboccato questa seconda strada dando luogo alle sculture di Prassitele, Lisippo e Fidia, alla statuaria
    greco-romana, alla pratica visiva del mosaico, ecc.; e d’altra parte alla pittura intesa come “imitazione” della natura sia pure condizionata dall’intenzione interpretativa degli artisti.

    La forma è stata, per questo cospicuo filone, l’espressione del vero; che si è articolata secondo molteplici tecniche e finalità, esternando volta a volta tendenze mistiche, simboliche, veristiche, celebrative, esornative e così via. Il XX secolo ha assestato un colpo mortale alla forma com’era stata concepita dalle arti in precedenza.

    Si può parlare di una vera e propria ribellione contro la forma, avvenuta nel ’900. Picasso la attacca violentemente, umiliandone la naturalità comunemente accettata. Con Picasso inizia di fatto una guerra sistematica alla forma, e questo attacco viene giustamente inteso dal senso comune come una rivoluzione.

    Si succedono forzature, riduzioni, semplificazioni, compressioni, alterazioni artificiose della forma naturale. Tali interventi, in gran parte successivi a Picasso, arrivano ad essere l’emblema di taluni movimenti artistici: per esempio, la forma come dinamismo e velocità nel futurismo, la forma costretta entro modelli rigidi nel cubismo; la forma contratta o esasperata nell’espressionismo; la forma ridotta a pura superficie e linea retta nell’astrattismo; la forma semplificata nel primitivismo al modo delle culture ingenue e primitive; la forma ridotta a moduli iconografici standardizzati ripetuti
    sistematicamente; ecc.

    La rivolta contro la forma arriva, mezzo secolo dopo, alla distruzione completa della stessa. Pollock compie un atto radicale di delegittimazione della forma: non a caso è considerato il fondatore del cosiddetto “informale”. Pollock sostituisce la linea periferica che dà luogo alla delimitazione dello spazio con la pura casualità del colore lasciato cadere dal pennello o da qualche recipiente sulla tela.

    Ciò che ne risulta non è più forma, ma casualità visiva; in concreto una serie di macchie di colore che si formano a caso sulla superficie. Pollock inventa la pittura informale perché sostituisce l’immagine proveniente dal caso a quella dotata di senso.

    Conseguentemente elimina il fattore abilità (nel creare forme visibili) sostituendolo con l’accidentalità del gesto dell’esecutore. Dopo di lui ogni pittura formale diventa contestabile; chi segua la sua linea può considerare solo le conseguenze d’un agire irrazionale, al quale sono collegati esiti non prevedibili perché estranei ad ogni progettualità. Ma Pollock va considerato una figura emblematica anche per un’altra ragione.

    Il suo modello può essere visto come la genesi d’un’arte intesa come performance. Far cadere il colore a caso su una tela è un’ attività dell’individuo che si autodefinisce creativo, più che del professionista che mira ad un risultato preciso. Pollock propone una soluzione del problema artistico più vicina al teatro che alla creazione d’una forma.

    Con lui la crisi dell’arte moderna, sfociata nell’informale, trova una via d’uscita che sarà imitata da molti artisti nella seconda metà del XX^ secolo. Propone in realtà una performance, la cui origine può essere ricondotta allo stesso artista oppure a qualche altro soggetto.

    Si ipotizza così una via d’uscita per così dire originale al problema dell’opera d’arte; e contemporaneamente alla pressante domanda, cosa sia veramente l’arte. Vi è però un ritorno importante più o meno nello stesso periodo alla filosofia della forma: nella seconda parte del secolo XX^ fiorisce la pop-art, corrente che valorizza di nuovo la forma, in termini di oggetti popolari, sui quali si concentra, come ad un approdo salvifico, l’attenzione di non pochi artisti, dando luogo a filoni in cui la forma ha di nuovo una centralità indiscutibile, in termini antiaccademici e antielitari.

    La performance come epicentro dell’arte viene accettata dalla critica e dal pubblico in quanto incorpora un messaggio concettuale. Sulla scia della performance si propone una categoria nuova: l’arte “concettuale”. Joseph Kosuth definisce, negli anni ’60, arte concettuale ogni forma d’arte fondata sul pensiero.

    Essa ha finito per comprendere qualunque espressione artistica in cui i concetti e le idee espresse siano più importanti dei risultati artistici e percettivi delle opere. Appartengono infatti alla categoria concettuale esperienze molto diverse caratterizzate da un denominatore comune, un’idea dominante che vi è sottesa.

    Per esempio la Land Art, l’Arte Povera, la Body Art, la Narrative Art, la Minimal Art, ecc. L’arte concettuale diviene in breve sede privilegiata di “metafore”, formando così una corrente retorica con cui in ogni espressione si vede un significato diverso rispetto a quello effettivamente rappresentato.

    Nella fase conclusiva del XX^ secolo la metafora appare come un motivo quasi costante nelle arti visive: è un sistema articolato e complesso di allusioni, riferimenti, rimandi, citazioni, interpretazioni, il cui apprezzamento di acutezza e intelligenza diviene il vero parametro del valore di un’opera.

    L’uso estensivo della metafora rende alla fine opinabile qualsiasi giudizio sul valore economico delle opere d’arte, e si presta chiaramente alla mistificazione da parte del mercato e della stessa critica. La trovata prende spesso il posto della capacità rappresentativa. Con l’arte concettuale la forma viene in ogni caso schiacciata sotto il peso d’una retorica che riempie di sé il fare arte; nell’ultima parte del XX^ secolo tale retorica sembra trionfare; si dichiara così, apertamente, la crisi dell’arte.

    Una proposta aperta alla discussione:
    Vi può essere un modo per superare l’empasse in cui l’arte si è cacciata? Espongo qui un’ipotesi: che la meccanica quantistica possa offrire una via d’uscita all’arte contemporanea. Non dico che sia la sola. Altre se ne possono indicare: ma il “ricupero della forma” è certamente allo stato delle cose molto difficile, se non s’identifica una forma alternativa rispetto a quella che è stata esperita nel XX^ secolo, in altre parole un campo dove siano creabili forme inedite rispetto a quelle naturalistiche.

    All’inizio del ’900 Max Planck afferma che l’energia viene emessa non in forma continua ma in pacchetti che lo scienziato tedesco chiama “quanti”. Gli scambi di energia nei fenomeni di emissione e di assorbimento delle radiazioni elettromagnetiche avvengono in forma discreta, non continua come sosteneva la teoria elettromagnetica classica.

    Ora, la constatazione di Planck apre la via alla configurabilità di entità discrete, cioè apre il problema di quali aspetti visivi assumano i risultati dell’emissione di energia. Quest’ultima nel flusso appare amorfa; mentre il processo di quantificazione fa riaffiorare delle entità distinte dotate di forma.

    Nascono, dopo Planck, le due ipotesi più note sulla natura formale dell’energia: quella ondulatoria (Schrödinger) e quella corpuscolare . La prima dice che l’energia assume la forma di onda/e, la seconda di particelle. Entrambe queste ipotesi hanno in sé il connotato della forma, di una forma non naturalistica, sostanzialmente quella che assumono le entità energetiche all’atto della loro emissione, nel loro cammino, nelle loro combinazioni.

    La meccanica quantistica si configura dunque come matrice di forme, ovviamente diverse rispetto a quelle macroscopiche che appaiono nella natura visibile. Queste forme possono diventare constatabili con l’ovvio soccorso della luce attraverso una “visualizzazione” ossia col rendere visibile ciò che ad uno sguardo naturalistico non lo è.

    La meccanica quantistica porta dunque con sé una possibilità di vedere ciò che è naturalmente invisibile. Questa può essere la porta attraverso cui è dichiarabile la forma dei processi energetici, che senza una visualizzazione rimangono oscuri. E’ comprensibile che la visualizzazione diventi un fattore sostanziale dell’epistemologia moderna, una sorta di illuminazione di ciò che è immerso nell’oscurità.

    Il concetto di visualizzazione diventa, perciò, elemento essenziale nel processo cognitivo. Tale visualizzazione può essere realizzata in modo coerente con le leggi della fisica, ma comporta sempre un certo apporto di creatività. Il processo di creazione di “nuove forme” è dunque sempre in un modo o nell’altro creativo, esige il contributo d’una mente immaginativa.

    Sembra infatti innegabile che se ci si pone al di là della naturalità, la conoscenza sia resa possibile o almeno favorita dalla “visione”, ossia da un’anticipazione visiva e soggettiva della forma subatomica. Lo stesso concetto di “osservazione” (fondamentale nella scienza sperimentale) è in parte sovrapponibile al processo di visualizzazione, perché l’itinerario cognitivo attraverso cui una realtà può essere osservata, passa quasi sempre per una messa in evidenza visiva di ciò che è oggetto di osservazione.

    Si può sostenere che quest’ultima presuppone un fattore metodologico, la visualizzazione, dato che mette in evidenza ciò che rimarrebbe occulto se non fosse offerto e aperto alla visione. Da ciò deriva la centralità dello sforzo di visualizzazione per qualsiasi estetica riferita al mondo subatomico.

    Se ne può ricavare la convinzione che, a tale livello, fare arte significa visualizzare creativamente le fonti di energia e i processi che ne derivano. Arte, dunque, non più come rappresentazione della realtà naturale, ma come visualizzazione dell’energia in tutte le modalità assumibili ed esperibili da questa, sia fisiche sia d’altra natura.

    Si può visualizzare infatti una funzione d’onda, un algoritmo, un fenomeno ottico, una combinazione di forze, uno stato
    d’animo, la forma presumibile di una particella posta a base di tutto l’universo, le ipotesi particellari ideate dai teorici, ecc.. E’ superfluo sottolineare che il processo può essere facilitato mediante l’uso di tecnologie informatiche, elettroniche, meccaniche, ottiche, e così via

    Se ne deduce che l’arte può dare un contributo alla conoscenza perché usa la creatività individuale per configurare nuove delimitazioni dello spazio subatomico (ossia forme), ovviamente a livello della realtà occulta; per capirne le strutture, i mutamenti, le combinazioni, le successioni, le apparizioni, le sfumature, ecc.; ma anche ogni espressione intellettiva e ogni ipotesi strutturale.

    Perciò l’idea che l’arte futura possa consistere in visualizzazioni di ogni tipo (di fonte energetica) dà un soccorso insperato a chi si domanda cosa sia o possa essere l’arte oggigiorno. A tale domanda si può rispondere semplificando che l’arte può diventare la visualizzazione creativa dei processi energetici tout-court, attuata attraverso idee e tecnologie di qualunque tipo;

    cosicché l’artista diventa un soggetto che opera a livello epistemologico (e non più soltanto estetico) perché dà un contributo alla conoscenza della realtà. In tal modo l’arte può proporsi come attività conoscitiva il cui fine è di investigare la realtà fenomenica aggiungendo la propria forza creativa alla pura e semplice osservazione. Se così è l’arte può diventare una branca dell’epistemologia, e quest’ultima attraverso i processi di visualizzazione essere ricerca sulla realtà occulta oltre che sui meccanismi del pensiero e della psiche.

    Va detto che l’arte del passato ha cercato molte volte di visualizzare l’ignoto o qualche realtà non esplorata. La religione è stata per molto tempo ispiratrice di visualizzazioni mistiche: mondi ultraterreni sono stati portati a visibilità da artisti eminenti, come Giotto, Michelangelo, Brueghel, ecc., rendendo constatabili visivamente il giudizio universale, il paradiso, l’inferno e altre situazioni trascendenti.

    La visualizzazione del demonio ha formato e formerà l’oggetto di non poche tesi di laurea. Illustratori e disegnatori hanno cercato di indovinare come sono fatti gli abitatori degli abissi oceanici, o quelli di altri pianeti mai individuati o facenti parte del nostro sistema solare. Sulle sembianze dei marziani si è scatenata la fantasia di molti pensatori e visionari, e non pochi temi della fantascienza riguardano le forme inedite di creature spaziali.

    Fenomeni psichici come l’angoscia, il terrore, la malinconia, l’estasi, ecc. sono stati visualizzati da artisti che ne hanno conosciuto anche personalmente i significati. Questi esempi dimostrano che l’arte ha già compiuto l’operazione proposta in questo scritto e dunque non farebbe nulla di nuovo avventurandosi coscientemente in questo campo. C’è però una differenza decisiva rispetto al percorso aperto dalla meccanica quantistica verso il mondo dell’energia. Qual è questa differenza?

    Che la visualizzazione oggi possibile a livello di questa realtà è sostenuta dalla fisica e più in generale dalle scienze, attraverso i principi e le leggi scoperte da tali fonti di conoscenza; e dunque essa non può più essere totalmente arbitraria, o completamente fantastica. E’ presumibile che la visualizzazione effettuabile nel futuro riposi sulla scienza e si sottragga pertanto all’ arbitrarietà totale che è propria del pensiero visionario.

    Vi è poi un’altra cosa da dire a questo proposito: essa sarà, dovrà essere, motivata da intuizioni o immaginazioni suggerite da problemi già individuati dalle scienze. Sarà verosimilmente una visualizzazione che si potrebbe definire di secondo grado rispetto a quella propria dei mistici o dei visionari del passato: una visualizzazione cognitiva, appunto, cioè volta ad aggiungere qualcosa al vasto campo del conosciuto; e ad aiutare anche settori artistici apparentemente lontani dal mondo dei quanti.

    Per esempio l’architettura e il design, nella loro inesausta ricerca di nuove forme. L’architettura si trova oggi nella palese ricerca di nuove forme. Basti pensare ad architetti come Zaha Adid, Frank O.Gehry, Daniel Libeskind, Rem Koolhaas, ecc. per comprendere come la tensione verso il nuovo in termini di forma sia addirittura spasmodica in questi personaggi.

    L’architettura oggi è dunque un campo dove i processi di visualizzazione possono scatenarsi. La base scientifica distingue nettamente i processi di visualizzazione oggi possibili da quelli propri del medioevo e di altre epoche volte ad offrire una qualche visione dell’oltretomba o di ambiti immaginari estranei all’esperienza. Essa può rendere apprezzabile attraverso la vista qualcosa di arguibile mediante induzioni/deduzioni; essere matrice di ipotesi successivamente verificabili o di fenomeni intravisti mediante procedimenti logici; o di intuizioni fondate su indagini psicoanalitiche, ecc..

    Di qui il rilievo cognitivo della visualizzazione oggi possibile rispetto a quella attribuibile a chiunque sia solo un abile suscitatore d’immagini. La visualizzazione relativa al mondo subatomico non influenzerà dunque solo la conoscenza della realtà microscopica, ma anche di quella macroscopica, e di quella che proclama ad ogni passo il proprio allontanamento dalla geometria euclidea in favore di un’altra geometria definita non euclidea proprio per sottolineare il distacco dalle forme elementari acquisite fin dall’antichità: alias per dare nuovi contenuti al concetto di forma.

    Difficile dire quali risultati conoscitivi reali potrà dare l’arte come visualizzazione creativa. Dipenderanno da molti fattori nei quali si dovrà includere la capacità immaginativa di singole personalità artistiche rivolta a indovinare forme inedite, metamorfosi di forme, progressioni di fenomeni visivi, ecc.

    Saper visualizzare creativamente può diventare un attributo fondamentale dell’artista. E’ anche possibile che questo modo di conoscere il mondo subatomico apra la strada al declino dell’attuale retorica delle metafore, data la constatazione che la metafora aggiunge poco o nulla alla conoscenza effettiva.

    Con tutte le conseguenze che tutto ciò può comportare sul mercato dell’arte, sul valore delle opere, sul giudizio dei critici, sulle richieste dei collezionisti, ecc. Se ciò avverrà, si vedrà probabilmente nei prossimi decenni, nei quali non è impossibile che la crisi dell’arte entri in una fase irreversibile e l’urgenza di trovare nuove strade per l’attività artistica.

    La meccanica quantistica può aprire nuove strade all?arte? - http://nuvola.corriere.it/
    Ultima modifica di Tomás de Torquemada; 04-10-13 alle 23:46
    "Tante aurore devono ancora splendere" (Ṛgveda)

 

 
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