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Discussione: Misteri dell'Urbe

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    Predefinito Misteri dell'Urbe

    Incantesimi e Magia nel Lazio Antico e Roma

    di Domizia Lanzetta


    La paura, la diffidenza nei confronti della magia non nasce col Cristianesimo. Già nelle leggi delle XII tavole sono previste pene severissime per gli exantatores, vale a dire per coloro che si servivano di canti magici per trasferire le messi da un campo altrui al proprio. [1] Punizioni che andavano dall’imprigionamento, fino alla pena capitale, erano inflitte a coloro che venivano sorpresi a celebrare riti magici notturni. [2] Ancora più rigorose erano le sanzioni, sotto Costanzo II, contro tutti coloro che si avvicinavano alle arti magiche. Infatti era prevista la condanna a morte per chiunque portasse al collo amuleti contro la quartana o venisse sorpreso a transitare di notte vicino a una tomba.[3] Certamente simili condanne erano in vigore nel periodo tardo, quando il Cristianesimo si avviava ad essere la religione dominante. Tuttavia già nel 81 a .C, con la Lex Cornelia de veneficiis, la stregoneria era assimilata al veneficio. Per l’appunto Plinio, reputa l’arte magica affine a quella degli avvelenatori (veneficae artes) e aggiunge che: ”non c’è nessuno che non abbia paura delle formule magiche”[4]. Il motivo è che, per usare una definizione di Brown, il mago è ”un uomo dall’immagine doppia, vale a dire che occupa simultaneamente due dimensioni. (Forse perchè a Roma, sotto sotto, finanche le persone più colte e smaliziate, credevano in un mondo parallelo che, si troverebbe alle spalle di ogni accadimento umano e di tutte le cose visibili.

    Anche i più eruditi, soprattutto se seguaci del medio e tardo platonismo, non potevano che prendere in considerazione la possibilità di presenze incorporee. Si tratta di entità intermedie che occupano lo spazio che intercorre tra la dimensione umana e quella divina, creature che si avvicinano al mondo delle cause e che possiedono, per propria natura, il potere magico. Persino nelle comunità Cristiane più antiche albergavano simili credenze, che si manifestavano nell’ esagerata venerazione per gli Angeli, non scevra da connotazioni di tipo magico; tanto che nel sinodo di Laodicea, tenutosi intorno alla metà del IV secolo, si sentirono obbligati a prendere drastici provvedimenti nei confronti di questo culto.

    Ma quali erano le motivazioni per tale diffidenza, se non addirittura paura, nei confronti dell’arte magica?
    A quei tempi, la magia si divideva e ridivideva in molteplici rivoli, alcuni dei quali si presentavano con i sepulcrum horrrores, dei quali accennano vari scrittori latini.
    Orazio ne offre uno spaccato raccapricciante nella sua V epode.

    Il luogo potrebbe essere la casa di Canidia, una donna che praticava la magia più tenebrosa. Nei pressi della sua casa doveva trovarsi un appezzamento di terreno incolto. Le stanno intorno altre streghe che l’aiutano nella spaventosa cerimonia. Loro vittima è un fanciullo impubere, che esse hanno rapito per poter ottenere un filtro d’amore potentissimo. Tra le chiome di Canidia, si aggrovigliano serpi sinuose e le sue compagne, sono intente a spogliare il ragazzino della toga pretexta. Dopo aver fatto ciò, gli strappano dal collo la bulla che ogni fanciullo Romano portava al collo per proteggersi dalle presenze tenebrose. Quindi scavano una fossa, entro la quale interrano fino al collo il bambino, ponendogli poi davanti cibi diversi. Intanto Canidia si affaccenda attorno a un fuoco su cui getta: erbe strappate alle tombe, uova di rana tinte di sangue, foglie e fiori disseccati che provengono dalla Tessaglia, ossa umane strappate alla bocca di una cagna affamata nonché penne di civetta. Mentre la strega è intenta ad effettuare queste operazioni, le altre spruzzano intorno acque sepolcrali. Quanto al fanciullo, non riuscendo a muovere a pietà le donne, scaglia su di esse maledizioni terribili. Le avverte che se lo faranno morire in quella maniera atroce, lui si trasformerà in uno di quegli spiriti inquieti che nessun piaculus riesce a placare. Le avvisa dell’inefficacia della pozione magica che vogliono preparare. Preannuncia che sarebbero finite lapidate e, che i loro corpi insepolti sarebbero stati dilaniati dagli animali che si aggirano tra le tombe dell’Esquilino.

    Non si può escludere che Orazio abbia estratto le figure delle quattro streghe, da persone da lui personalmente conosciute o da personaggi dell’immaginario popolare. Tuttavia è anche possibile che la descrizione rivesta un carattere simbolico e che, mediante questa, il poeta tenga a condannare la goeteia ed i suoi oscuri significati. Nel suo racconto pare di percepire l’idea di un quadrato magico, costituito da quattro elementi (le quattro streghe) ed un quinto, personificato dal fanciullo rapito, collocato al centro della scena. Le donne per porre in atto il loro maleficio, rapiscono un bambino impubere, non un neonato, come si credeva che facessero le streghe .
    E’ da notare che il ragazzino possiede la capacità di esortare le rapitrici ad essere pietose e, alla fine, è in grado di predir loro il futuro e prospettare la sua trasformazione da tenero fanciullo in entità vendicatrice e malefica.

    La normale purificazione che normalmente si esegue con acque lustrali qui è sostituita da acqua di paludi infere. Le serpi che si attorcigliano ai capelli di Canidia richiamano l’immagine di Aletto, una delle Dirae. Quanto al bambino immerso nella terra fino al collo, ricorda la descrizione fatta da Plutarco di Cheronea del viaggio nell’oltretomba di Tespesio di Soli. In tale descrizione, ci sono le anime di coloro che, sia pur immersi nel chasma fangoso, metafora delle passioni corporee, con la testa, simbolo dell’intelletto, restano al di fuori di un χάσμα – [5] (baratro melmoso). Come se, con questa figura, Orazio volesse asserire che,anche se l’anima cade preda di forze oscure, la sua parte più pura resta libera e in grado di profferire verità e scorgere il futuro mentre una volta caduta in balia dell’Ade, essa muta e da luce si converte in ombra, diviene un demone malefico, congiunto alla legione dei terrificanti Lemuri.
    Ciò che appare più evidente in tutta la truce vicenda, è quanto la magia ha di più peculiare: la trasmutazione. In questo caso quella del bene in male e della luce nel suo aspetto rovesciato, cioè l’ombra.
    Qui Orazio fa sua la credenza che i neonati corrano il rischio di venir rapiti dalle Strigi.
    Questi sono degli “uccellaci” di origine infera, con l’aspetto di rapaci. Si diceva che assalissero i neonati nelle culle per sottrarre loro la forza vitale. Non si sapeva bene se provenissero dall’ombra dell’Ade o se fossero streghe tramutatesi in rapaci, durante le loro escursioni notturne. Ma esisteva un antidoto a questa calamità: un incantesimo suggerito dalla dèa Carna alle prische genti Latine.

    Si raccontava che le streghe compissero le loro trasformazioni, intonando le nenie magiche dei Marsi. Fu la nutrice di un bambino di nome Proca che, accortasi della presenza delle Strigi, si rivolse alla dèa Carna, implorandone l’aiuto. La dèa le apparve e le insegnò un incantesimo potente per salvare i neonati dai demoni notturni. Usando un ramo di corbezzolo, sfiorò per tre volte la porta, e per tre volte tracciò dei segni magici sulla soglia della casa. Asperse di acqua lustrale, nella quale aveva versato una pozione magica, l’ingresso. Poi, al posto del bambino, sacrificò una maialina di due mesi, ne estrasse le viscere, e su di queste recitò una cantilena incantata: uccelli notturni lasciate le tenere fibre. “Cuore per cuore, prendete fibre per fibre, vi dono questa vita per un’altra migliore.” Fatto questo, sparse in giro le viscere crude, vietando però ai presenti di guardare. L’incantesimo si concluse ponendo un ramo di biancospino alla finestra attraverso la quale, la stanza riceveva la luce del giorno. [6]

    Si tratta di una bizzarra mescolanza di magia e religione. Il fatto è che i culti più antichi conservavano in se valenze magiche. Infatti noi vediamo la nutrice del piccolo implorare devotamente l’aiuto divino. A questo fa riscontro l’immediato manifestarsi della dèa che risana il bambino servendosi di un cerimoniale magico.
    Si tratta di un tipo di magia in stretta risonanza con la religione. Gli oggetti utilizzati hanno funzione esclusivamente apotropaica: l’acqua, il corbezzolo, il biancospino. Perché se è vero che l’acqua tradizionalmente purifica, non ci viene detto con quali componenti fosse confezionata la pozione discioltavi dentro.
    Probabilmente doveva essere qualcosa di intollerabile alla natura delle Strigi. Quanto al corbezzolo e al biancospino, sono quasi certamente piante che hanno a che vedere con i miti legati a Carna. Il biancospino in particolare, oltre ad essere messaggero della primavera e dall’uscita dalle brume invernali, è anche il dono che Giano fece alla sua sposa, che è per l’appunto Carna. Questo fu il motivo per cui il dio di ogni inizio e di tutte le porte, fece del biancospino il protettore degli accessi e delle soglie.

    Per quel che riguarda il sacrificio della maialina, ci troviamo di fronte a un esempio di magia sostitutiva. Come se le Strigi, avessero il diritto di succhiare la vita ai bambini e, impedendo che ciò avvenisse, dovesse essere dato loro un surrogato di quel che a loro spetta. Compiuto il rituale, per una legge inderogabile della magia… i conti sarebbero tornati. A convalida di ciò, Plinio accenna al trasferimento con modalità magiche delle malattie dagli uomini agli animali.
    Se questo incantesimo viene celebrato con finalità difensive, quello che compie la donna abbandonata dall’amante della VIII egloga di Virgilio, presenta caratteristiche più aggressive.
    La cerimonia ha lo scopo di costringere l’uomo che l’ha lasciata a ritornare a lei, servendosi per l’appunto dell’arte magica. La donna ha con se un’aiutante, forse una sua schiava che nel corso della cerimonia funge da assistente.
    La donna le ordina di portare dell’acqua e di predisporre l’altare che, viene cinto da una bendala e, sulle fiamme appena accese, vengono posate delle fronde verdi e delle erbe profumate. Su queste vengono ulteriormente sparsi grani di incenso. Dopo di che la maga da inizio ad una sorta di cantilena, per mezzo della quale celebra la potenza dei suoi “Carmina”.
    Si tratta di una nenia, intramezzata dalla ripetitività magica di certi versi, con i quali essa, si appella di continuo, alla forza dei suoi canti. “Ducite ab urbe domum mea carmina, ducite Daphnim”.[7]
    Quindi prende una figurina fatta di cera e l’avvolge in tre fili di tre colori diversi e, per tre volte, la conduce attorno all’altare. Ordina poi ad Amarilli di annodare con tre nodi ognuno dei tre fili “Necte tribus nodis ternos, Amarilly, colores “[8] Dopo di che pone tra le fiamme dell’altare il pupazzetto di cera assieme a una figurina di argilla. Su tutto sparge del farro, del sale e altri grani d’incenso. Poi ravviva il fuoco con bitume e vi pone sopra foglie di alloro, quindi fissa lo sguardo sulle due figurine e ordina: “Come questa argilla si indurisce e questa cera si scioglie a un unico fuoco così Dafni per il nostro amore……)

    Ho riportato solamente alcuni dei momenti salienti dell’incantesimo, che procede per ben 105 versi. Esso si evolve con una serie di cantilene che, accompagnano rare e blande gestualità. Si tratta di un perfetto modello di magia “naturale”. La maga non pronuncia invocazioni ne proferisce evocazioni ma è lei, e solamente lei, a condurre l’incantamento.

    Si serve unicamente di oggetti ed elementi naturali: acqua, una bendula probabilmente di lana, erbe aromatiche, grani di incenso, farro e cera d’api. La bendula che circonda l’altare, deve servire ad isolare il punto preciso in cui avverrà la palingenesi. L’erba aromatica e i grani di incenso, provvedono ad indurre i Numina del posto a divenire propizi o, quantomeno, a non ostacolare il buon esito della cerimonia.

    La prima cosa che l’incantatrice chiede è dell’acqua. Ma di quale tipo ? Acqua lustrale,attinta da una sorgente purissima, con la quale purificare il luogo e l’altare,oppure acqua del pozzo, immagine di una fluidità infera? Questo non ci viene detto, tuttavia possiamo immaginare che il rito si svolga nelle ore notturne, quando nel cielo splende la luna “Carmina vel coelo possunt deducere lunam ,carminibus Circi socios mutavit Ulixi frigidus in pratis cantando rumpitur anguis”. [9] E’ da notare la straordinaria musicalità dei versi. Possiamo immaginare che l’acqua sia stata versata in un catino e, in questo modo funga da specchio alla luna: “con i canti si può trarre la luna dal cielo”.

    Non è pensabile che credessero davvero ad un avvicinamento fisico dell’astro. E’ invece probabile che si riferissero al potere magico della luna, della quale l’acqua è il tramite. In forza di canti speciali, questa forza arcana, scende ad operare nel rito. Perché tra la luna e l’acqua esiste uno strettissimo legame.

    L’acqua è il “vincolo”, mediante il quale si esprimono i poteri della luna.

    Incantare vuole dire anche “essere nel canto”, cioè compartecipi del “fascinum” dell’universo che si manifesta mediante sonorità ineffabili. In esso è riposta la forza dell’incantamento, perché la legge che regola tutti gli incantesimi e tutte le magie è il ritmo. “ Forse tra l’incantesimo della vita e l’incantesimo della morte, non vi è che una differenza di ritmo”. Scrive A. Castiglioni [10]

    Ovidio descrive Circe che intona tre canti magici mentre scaglia il maleficio contro Pico. Per due volte la maga si volge verso il sole che nasce, per due volte si volge verso il sole che tramonta. Poi per tre volte, intona tre canti magici e, per tre volte, tocca con la sua bacchetta il malcapitato Pico. [11]

    Quanta importanza abbia il numero tre nella magia è a tutti noto Tre sono i volti visibili della luna, tre sono i corpi con i quali Ecate è raffigurata ed Ades, Signore degli Inferi, è il signore del terzo regno. “Necte tribus nodis ternos, Amarilly, colores”. [12] In questi versi va notata la reitarazione del numero tre, accompagnata dalla allitterazione nel suono delle parole, che si sviluppa con il rirproporsi ritmico della sibilante “S”. Il punto centrale di tutta la scena, pare essere l’altare su cui arde il fuoco. Perché questo è il luogo della trasformazione entro cui le due figure, l’una di cera l’altra di argilla, si distruggono e si rinnovano al compiersi della malia.

    Assai conosciute e temute erano le Tabellae de Fixiones, lamine di piombo arrotolate e trafitte da un chiodo. Nella parte interna era incisa una formula esecratoria contro uno o più individui. Queste lamine, venivano sotterrate nei cimiteri, accanto alla tomba di qualcuno morto giovane ed in modo violento. Spesso al nome dell’ affatturato, era aggiunto il matronimico.

    A Roma ne sono state trovate parecchie, con la formula maledicente, scritta in greco o in latino. La maggior parte di queste maledizioni, sono rivolte contro gli aurighi “vedette” del circo, e contro i loro cavalli. Ne è un esempio la seguente tabella, ritrovata in una necropoli dell’Africa settentrionale. “ Ti scongiuro o demone, chiunque tu sia, che da quest’ora, da questo giorno, da questo momento, tu torturi e uccida i cavalli del Verde e del Bianco, e uccida e annienti gli aurighi, Cloro e Felice e Primulo, e non lasci loro la vit . Ti scongiuro a nome di colui che a suo tempo ti ha fatto dio del mare e dell’aria “IAO –IASDAO OORIO AEA” [13] Particolarmente impressionante è una defixio rinvenuta in un vaso di argilla, assieme a una statuetta fittile, raffigurante una donna con le mani legate dietro la schiena ed il corpo trafitto da aghi.[14]

    Meno truce, ma interessante, è una lamina della tarda età repubblicana, dove la persona maggiormente colpita, è una certa Rhodine. Essa sembra essere il personaggio centrale contro cui è scagliato il maleficio. Lo scopo da raggiungere è quello di separare e creare dissidio tra Rhodine e un tal M.Licinius Faustus :”Così come il morto che qui è sepolto non può parlare e discorrere ,allo stesso modo Rhodine in casa di M. Licinius Faustus sia morta ,ne possa parlare o discorrere. Cosi come i morti non sono ben accetti ne agli dèi ne ali uomini, allo stesso modo Rhodine non sia ben accetta in casa di M.Licinius Faustus ,e a lui importi tanto di lei quanto gli importa di questo che è qui sepolto. Padre Dis, ti raccomando Rhodine, fai in modo che sia sempre odiosa a M. Licinius Faustus .E ti raccomando ancora allo stesso modo: M.Hedius Amphion,C.Popillius Apollonius,Venonia Hermione,Sergia Glycinna.”

    Alquanto bizzarra a noi appare la prima, nella quale il maleficio è lanciato anche contro degli animali, probabilmente perché si tratta di cavalli reiteratamente vincenti nelle gare del circo. In questa, ritroviamo la precisione propria ai rituali religiosi più arcaici “da quest’ora, da questo giorno ,da questo momento”, unita all’appello ad un’entità sconosciuta “chiunque tu sia”, che ricorda la ben nota formula del “quo alio nomine fas es nominare”, usata nell’invocazione a un dio ignoto. Assai enigmatica è la parte finale ,dove si accenna a un “Colui” che ha reso l’entità alla quale si rivolge, dio del mare e dell’aria. Di quest’ultima non si dice il nome o forse questo è contenuto nelle tre parole finali che, molti interpretano come un riferimento al dio degli Ebrei. Probabilmente non è così, presumibilmente questo nome segreto, si trova celato proprio nel suono dei fonemi col quale in modo ritmico, ci si rivolgeva alla divinità della quale il nome deve restare nascosto. Infatti nella tradizione magica, conoscere il nome segreto di qualcuno o di qualcosa, equivale a impadronirsene e possederla. C’è da notare inoltre che le tre parole sono costituite soprattutto da vocali. Quindi da lettere che nel folclore greco, erano utilizzate per gli scongiuri e per le operazioni magiche.

    La seconda, è interessante non per se stessa, ma per ciò che l’accompagna. E’infatti possibile ravvisare nella statuina di donna inginocchiata e trafitta dagli aghi il genio o la fortuna della persona da affatturare. Quanto all’ultima tabella, questa è caratterizzata dal “come se” ripetuto. Vale a dire dal tipo di formula che, è peculiare alla magia “analogica” e dalla ossessiva ripetizione del nome del povero M.Licinius Faustus. Costui doveva essere un personaggio di grande rilievo per chi aveva compiuto o commissionato il sortilegio che, non è fatto per causare la morte di Rhodine ma per ispirare inimicizia tra lei e Licinius, tra lei e la di lui famiglia. Il nome della donna sembra essere di origine Greca. Forse Rhodine era una liberta, sostenuta da un gruppo di altri liberti che, si adoperava perché fosse ben accetta a Licinius, presumibilmente suo ex padrone. Alla fine Rhodine è abbandonata alla potenza del dio degli inferi, quasi si trattasse di una “Devotio” casalinga .

    Per concludere: la pratica della magia e il voler acquisire il potere magico è sempre stato considerato con diffidenza, anche nelle culture più antiche. Ma che cosa è la magia (considerata sotto questo profilo)? Questa è soprattutto un’arte, mediante la quale si può ottenere ciò che si vuole, utilizzando particolari riti, grazie ai quali si viene a contatto con una dimensione “altra”. Ed proprio per questo che, da sempre, è stata considerata cosa interdetta e peccaminosa per i più. Peccaminosa perché viene a costituirsi una commistione proibita, tra due dimensioni antitetiche.

    Nella Grecia antica, la casa in cui era morto qualcuno, per un certo tempo era considerata impura, non per il fatto della morte in se stessa, quanto perchè si era aperto un varco tra due mondi diversi. Infatti lo stato di impurità era presente anche al momento di una nascita.

    In quest’ottica, impurità vuol dire commistione. E’ però necessario fare un distinguo tra arte magica e potere magico.
    L’una può essere connaturale a certe creature, l’altra si acquisisce con studio e sacrificio. La seconda appartiene per struttura a quelle entità intermedie che, sia per i neo-platonici che per le società più arcaiche, popolano la dimensione sottile che è al di la del visibile
    Da qui nasce la cautela, nei confronti di chi, tenti di inserirsi in un territorio, al quale l’uomo comune non appartiene. Non tanto perché possa nuocere alla comunità, quanto perché è come rinnegare la propria stirpe originaria.

    All’essere umano non è dato trasmutare ciò che è fisico, servendosi di un potere psichico e mentale. Perchè l’essenza della magia è soprattutto trasmutazione, capacità di trasformare se stessi e le cose che stanno intorno. Non è forse questo che, nelle tradizioni folcloriche di tutti i popoli, fanno le streghe, quando in certe notti, si recano ai loro raduni misteriosi.

    Apuleio ce lo insegna nel suo bizzarro romanzo che, non per niente, dedica alle “metamorfosi” delle streghe di Tessaglia. La luna è l’astro a cui fa capo il potere magico, ed è nelle notti di luna che esse compiono le loro metamorfosi e, per l’appunto, protagonista del romanzo di Apuleio è proprio la Luna.

    Non certo l’astro fisico ma, la metafora della luce che risplende nell’ombra. Quella luce che rende visibile un mondo che è invisibile e che tale deve restare. Solamente mediante la forza di certi canti “ i carmina” tale luce può irrompere con la forza avvolgente dei sogni, nel mondo fisico, abitato dagli uomini. Il mago, il vero mago, è chi conosce la relazione segreta tra le cose e, sa che il tutto, è legato da un canto speciale, il cui bandolo si trova nella parte più profonda di se stesso. Ma, voler apprendere l’arte magica vuol anche dire ribellarsi alle leggi sociali ed umane. Vuole dire sentirsi indipendenti dalle proprie origini e, riallacciarsi a un perduto vincolo primordiale. L’incantesimo infatti, somiglia a un ricordo ancestrale che riemerge da profondità sconosciute. Vuol anche dire, saper pronunziare, con il ”sussurrus magicus”,il nome segreto del proprio demone invisibile.


    Note

    [1] Festo-190 ,in Baistrocchi – Arcana Urbis
    [2] Cod. Theod, IX,XVII-7
    [3] Ammiano Marcellino -XIX
    [4] Nat Hist XXVIII
    [5] Plutarco- De Genio Socratis- 591- D)
    [6] Ovidio –Fasti –VI – 140- 160
    [7] Conducete dalla città alla casa,conducete Dafni
    [8] Lega con tre nodi,o Amarilli,ciascuno di questi colori
    [9] I canti possono trascinare giù dal cielo la Luna . Con i canti, Circe trasformò i compagni di Ulisse,cantando si fa scoppiare nei prati il freddo serpente
    [10] Incantesimo e Magia – Pg 436 Mondatori – Milano - 1934
    [11] Ovidio –Metamorfosi –XIV – 380/ 385
    [12] Ovidio –Metamorfosi- XIV -320 -385
    [13] Iscrizioni Latine (ILS II I,,3001= CIL XI. 2 ,4639) in Georg Luck [ Arcana Mundi]
    [14] Arcana Mundi - oc

    Incantesimi e Magia nel Lazio Antico e Roma - http://simmetria.org/
    (Clic per visualizzare l'articolo completo di immagini)
    Ultima modifica di Tomás de Torquemada; 10-07-13 alle 11:01
    "Tante aurore devono ancora splendere" (Ṛgveda)

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    Predefinito Re: Misteri dell'Urbe

    Citazione Originariamente Scritto da GNU-GPL Visualizza Messaggio
    Lo Schema Costruttivo dell'Arco di Costantino


    L'arco di Costantino cela una sapienza architettonica non ordinaria, decisamente eccezionale, dispiegata per di più con il determinante ausilio della tavola tripartita, il quadrato partito in nove caselle che figura nel quadro d'apprendista ed è il gioiello del grado di Maestro, uno degl'indiscutibili fossili residui della Massoneria operativa nella speculativa: l'architetto dell'arco di Costantino ha davvero «tracciato una tavola».

    Per onorare Costantino e la sua vittoria su Massenzio, il Senato impose all'architetto non pochi imperativi: inglobare nell'arco rilievi desunti da monumenti di Adriano, Marco Aurelio e Traiano con altri scolpiti appositamente per Costantino, articolare in modo continuo il ciclo narrativo dei fregî e l'epigrafico, sottolineare con l'architettura le principali cadenze della complessa simbologia da manifestare con il monumento.

    Già un archeologo di razza come Mansuelli aveva colto quali difficoltà si fossero presentate all'ignoto architetto, e come le avesse superate di slancio. L'architetto infatti non si è limitato alla semplice inserzione dei fregî traianei e di Marco Aurelio, ma ha voluto che le loro proporzioni risonassero nell'intero monumento. Ciò costituiva la principale difficoltà: mentre i rilievi di Marco Aurelio sono costruiti con la proporzione armonica di due terzi, quelli di Traiano sono basati sulla sezione aurea. Le tre principali consonanze armoniche, tradotte in rapporti lineari, danno luogo a superfici rettangolari costituite da moduli quadrati, mentre in un rettangolo aureo l'unica divisione regolare possibile riproduce moduli aurei.

    L'architetto ha risolto questa difficoltà utilizzando gli sviluppi proporzionali insiti nella tavola tripartita. Per ottenerla è necessario armare il quadrato delle sue diagonali e delle sue mediane, quindi si congiungono i punti mediani dei lati con gli angoli dei lati opposti (Ill. 1.1). Questi segmenti, ipotenuse di triangoli rettangoli 1 : 2 (e quindi in radice di 5), intersecano le diagonali in quattro punti sui quali si tracciano le due coppie di parallele trasversali che costituiscono l'ossatura della tavola tripartita (Ill. 1.2). La stessa costruzione è però necessaria per sviluppare un rettangolo aureo (sotto, a sinistra).
    L'unica possibilità d'accordare le due proporzioni era di costruire l'arco sulla differenza tra un accordo armonico e la sezione aurea. Perciò l'architetto, invece di sviluppare totalmente il rettangolo aureo dal punto mediano del lato (Ill. 2.1), ne ha contenuto lo sviluppo entro il quadrato, puntando il compasso sui due angoli di base (Ill. 1.4). Su questo rettangolo, sottounità della sezione aurea, ha impostato la facciata dell'arco.

    Sulle suddivisioni della tavola tripartita s'allinea la distribuzione delle parti. L'arco trionfale è corrispondente al terzo centrale, sui margini della tavola insistono gli archi laterali, i tondi adrianei e i fregî di Marco Aurelio in alto. Sulla fascia orizzontale del primo terzo s'arrestano i rudenti, cioè le modanature che colmano gli sgusci delle colonne, sulla seconda s'incentra il cornicione divisorio.
    E proprio con il cornicione, così inusualmente sporgente, l'architetto ha raggiunto una proporzione armonica in diatessaron, o di tre quarti. Suddivisa nuovamente la tavola tripartita per tre (Ill. 1.3), e quindi per due, ha tracciato le parallele delle ipotenuse in radice di 5 ottenendo il rettangolo in tre quarti e una scansione modulare di 18 x 24

    Con questo rettangolo era possibile armonizzare i fregî aureliani: ciascuno in due terzi verticali, li ha accostati ai lati dell'epigrafe ottenendo due rettangoli orizzontali di tre quarti. Le due coppie di rilievi trovano così perfetta risonanza nelle dimensioni dell'arco.
    Con la modulazione di 18 x 24 è possibile, per chi ha pazienza, una più attenta lettura del monumento (sopra). Si noterà che i piedistalli delle colonne sono di quattro moduli, le colonne di sei, capitello e cornicione di tre. Quindi la proporzione fra la colonna e il suo piedistallo è di due terzi, fra la colonna e l'insieme capitello-cornicione d'un mezzo. Le statue ai lati dei rilievi aureliani sono di tre moduli, sul piedistallo d'un modulo: anche qui, rispetto alla colonna, un rapporto di due terzi; i tondi adrianei occupano due moduli e sotto di essi le fasce scultoree realizzate appositamente si sviluppano su un modulo: un mezzo.
    Il cornicione divide l'altezza sui 5/13, cioè la sezione aurea aumentata d'un'unità. L'arco trionfale occupa un'area, sino al cornicione, che ripete in verticale le proporzioni di tre quarti. Ma a osservare le linee di scrittura epigrafica si noterà che in ogni modulo ne sono contenute tre. Ciò significa che la modulazione a cui ha fatto ricorso il nostro anonimo e ingegnoso architetto è di 54 x 72. Per i nostri occhi profani sarebbe solo un coacervo di linee. Per lui era musica, la musica dell'universo, della mens divina celebrata nell'epigrafe.

    Fonte: Zen-it.com Zenit - Geometria simbolica - Lo schema costruttivo dell'arco di Costantino

    « Respingi chiunque venga a mendicare ;


    Sono poveri la cui impudenza merita solo un'elemosina.


    Respingi chiunque non sia della razza che passerà all'altro mondo.


    Gli uomini portano tutti visibilmente la loro impronta.


    Non temere di essere ingannato dagli impostori,


    Essi non sapranno nulla di ciò che è celato se sono impostori.


    E non potranno vivere al cospetto della Luce. »


    R. A. Schwaller de Lubicz

  3. #3
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    Predefinito Re: Misteri dell'Urbe

    Nell'architettura Vitruvio impera.

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    La Mente Divina
    L'inestimabile testamento spirituale racchiuso nell'arco di Costantino, costruito con la tavola tripartita

    Sic, sic iuvat ire sub arcum.
    Così, così giova andare sotto l'arco.
    Virgilio, Eneide


    Nel nostro tempo dominato dal nichilismo, dall'ossessione per il particolare e per l'atomizzazione, signoreggiato dal riduzionismo, la prospettiva temporale si schiaccia sull'illusorio piano del presente. Il numero si riduce a cifra, quindi la scienza diviene tecnica della misurazione. L'arte svanisce e ciò inquieta, poiché ogni epoca prende forma nell'opera d'arte e la libertà è profondamente connessa con la vita dell'arte. La storia, infine, appare allo sguardo dell'uomo contemporaneo come un ingombrante, fastidioso cumulo di detriti.

    Eppure quest'epoca scricchiolante e solcata da crepe, se non fosse immersa nell'oblio di sé avrebbe da meditare sulla scacchiera della storia quelle stagioni in cui grandi e all'apparenza solide civiltà declinavano inconsapevolmente verso il proprio tramonto, illuminate da una luce radente e fioca che allunga le ombre e le rende spettrali. L'estenuante declino dell'impero romano, per esempio, riserva ancora sorprendenti e illuminanti pagine a chi cerca varchi tra le strette maglie del Tempo e della Storia.

    Tra le tante degne di lettura merita riflessione la straordinaria pagina racchiusa nelle forme dell'arco di Costantino, monumento in cui una civiltà al tramonto ha lasciato in un eccezionale panegirico sull'armonia il proprio inestimabile testamento spirituale. Nel 315 dopo Cristo Senato e popolo romani dedicano il famoso arco trionfale alla vittoria di Costantino su Massenzio. Il secolo precedente ha profondamente segnato l'impero: incursioni barbariche e focolai di guerre ai confini, guerre civili, inflazione galoppante, epidemie e conseguente crollo demografico ne hanno minato la stabilità e i valori.

    La tipologia del monumento a due fronti e tre fornici è esemplata sull'arco di Settimio Severo. La scelta è tutt'altro che casuale. Sia Settimio Severo che Costantino hanno conquistato la porpora imperiale a prezzo di dure battaglie, meritando il rispetto e i favori del Senato. Settimio Severo, eletto regolarmente dal Senato, dopo la sua prima vittoria annunciò con accorta solennità che sull'esempio di Marco Aurelio avrebbe rispettato le prerogative dell'assemblea. Consesso d'intonazione spiccatamente conservatrice, tenace assertore della propria dignità e geloso dei proprî privilegi, il Senato raramente ha lasciato spirare nel loro letto gl'imperatori che l'hanno mortificato. Con la scelta della tipologia architettonica, che incornicia nella sommità dell'arco i fregî di Marco Aurelio, il Senato dunque chiedeva a Costantino il rispetto delle proprie prerogative.

    Ma il messaggio dell'assemblea non si riduce alla cura dei proprî interessi: a Costantino, che due anni prima ha restituito libertà di culto ai cristiani perseguitati dal suo predecessore, il Senato ricorda l'esempio di Settimio Severo e della sua dinastia, sotto la quale l'impero conosce momenti sereni animati da una fruttuosa politica di tolleranza per tutti i culti. Severo Alessandro in particolare spiccava per il suo sincretismo ascetico, espressione d'una concezione universale della religione. Il suo santuario domestico, in perfetta sintonia con la politica di tolleranza, raccoglieva le immagini di Orfeo e di Cristo, di Abramo e di Apollonio di Tiana, il taumaturgo neopitagorico, e d'altri ancora.

    Gli scrittori della Historia Augusta, quando additeranno a Costantino il ritratto dell'imperatore perfetto nella figura di Severo Alessandro, certo su ispirazione di qualche toga senatoria, riecheggiano intenzionalmente ciò che già è scritto a chiare lettere nell'arco di trionfo: perseguire una fattiva politica di tolleranza religiosa per saldare le variegate componenti dell'impero. Questo indirizzo di governo non è però frutto di mero calcolo d'opportunità e convenienze, ha ben solide premesse filosofiche e metafisiche le cui radici platoniche affiorano limpidamente nelle sculture apollinee e solari, e nella celebrazione epigrafica della mens divina.

    L'orientale culto del Sole si colora nella seconda metà del terzo secolo d'una intonazione platonica con il prosecutore della politica di tolleranza dei Severi, l'imperatore Gallieno, che volle si erigesse in Roma una statua colossale con l'aspetto del dio. Noto come imperatore filosofo, era amico di Plotino e uno dei suoi più fervidi seguaci; fu sotto il suo regno che Plotino sognò d'edificare in Campania la città di Platone. Il Magistero di Plotino lascerà un'impronta indelebile per tutto il secolo successivo; attorno a lui, ricorda il suo diletto allievo Porfirio, oltre Gallieno, i discepoli e molti fanciulli, s'affollavano «parecchi senatori», politici, rètori e prefetti.

    Nel solco dell'insegnamento di Plotino la teologia solare s'affina ricollegandosi a una concezione esplicitamente monoteista. Helios, il più grande degli dèi, diviene emanazione dell'Uno, la somma divinità dei neoplatonici. Come demiurgo dell'Uno il Sole, posto nel centro del mondo, congiunge tutte le parti dell'universo, il cielo alla terra, l'intelligibile al sensibile. È Helios la mens divina celebrata nell'epigrafe dell'arco (a sinistra, in alto), ovvero il nous di Plotino, la manifestazione dell'intelligibile nel sensibile.

    È la mens divina, o numen divinum o semplicemente divinitas, a cancellare le distinzioni e a dare al linguaggio religioso un carattere universale e metafisico e a sviluppare la tolleranza religiosa: di per sé immutabile, nel mondo del molteplice e del divenire si manifesta con innumerevoli nomi e aspetti. Porfirio lo indica chiaramente ai cristiani: «se voi affermate che vi sono presso Dio angeli, che noi chiamiamo dèi perché sono accanto alla divinità: che ragione c'è di battagliare per dei nomi, se solo nella denominazione è la differenza?». La differenza c'era, e c'è: la metafisica di Plotino nega a un Salvatore il compito di salvare le anime e assegna all'ascesa libera e razionale dell'uomo la possibilità di tornare all'Uno.

    Alla morte di Plotino è Porfirio a prendere il timone della scuola platonica e a diffonderne il logos in tutta la città. Tiene conferenze pubbliche, diviene famoso per la chiarezza e la cultura, che spazia dalla musica alla geometria, dalla retorica alla mitologia alla filosofia platonica, pitagorica, aristotelica. Anch'egli annovera tra i suoi discepoli senatori e rètori, politici e prefetti. Certamente suoi allievi sono gl'ispiratori dell'arco di Costantino: tra il 312 e il 315, nel lasso di tempo in cui l'arco di Costantino viene progettato e costruito, sono prefetti dell'urbe Annio Anullino, Aradio Rufino e Rufio Volusiano, neoplatonici di ferro, cultori della teologia solare, personalità con le quali lo stesso Costantino ha stretti rapporti. E anche tra i senatori, gli altri committenti dell'arco, la compagine platonica vanta robuste schiere.

    Solo entro questa cornice storica e filosofica, solo con gli scritti di Porfirio è possibile decifrare la monumentale ricchezza semantica dell'arco di Costantino, le sue sottili implicazioni pitagoriche, cosmogoniche, e iniziatiche. Porfirio, cui dobbiamo un saggio sulle proporzioni armoniche e uno sulla vita pitagorica, inizia la pubblicazione degli scritti di Plotino nel 301. Non li organizza secondo un criterio cronologico, ma iniziatico, seguendo un percorso ascensionale che conduce il lettore dal sensibile all'essenza dell'intelligibile: l'Uno.

    E li organizza in sei gruppi di nove trattati ciascuno: «con i cinquantaquattro libri di Plotino che possedevo ho composto sei Enneadi, avendo così la gioia di trovare il numero perfetto sei e il numero nove». Non può non stupire l'analogia con le proporzioni dell'arco, che allineano sull'altezza, «sul percorso ascensionale», esattamente cinquantaquattro moduli, suddivisi in nove gruppi di sei, coronati dall'epigrafe che celebra la mens divina, il nous di Plotino (vedi lo studio sullo Schema costruttivo dell'Arco).

    L'intero monumento è scandito dalla proporzione armonica di tre quarti (vedi le note sull'Armonia) e qui il rapporto si precisa trascendendo la semplice analogia: inscritto entro due triangoli pitagorici 3-4-5 con l'ipotenusa in comune, l'arco di Costantino compendia la massima virtù del Principe, e dell'iniziato: la giustizia. A svelarne la simbolica sottesa è il successore di Porfirio, Giamblico, nella Vita pitagorica: Pitagora, «volendo dimostrare che la giustizia, limitata, uguale e commensurabile domina anche sull'ineguale, incommensurabile e illimitato, e indicare nel contempo come la si deve esercitare, diceva che la giustizia somiglia a quella figura che è sola in geometria ad avere illimitate possibilità di composizione di forme che pur essendo disuguali tra loro tuttavia ammettono un unico procedimento dimostrativo per le loro superfici quadrate».

    La giustizia trova pertanto corrispettivo geometrico nei triangoli rettangoli, e massimamente in quello i cui cateti stanno nel rapporto di tre quarti: Pitagora, insiste Giamblico, «rappresentava le costituzioni politiche con tre linee combinate in guisa che si toccassero alle estremità: uno degli angoli da esse formato era retto, una linea stava con l'altra nel rapporto di 4 : 3, l'altra aveva cinque unità. Se noi consideriamo i rapporti in cui queste linee e i loro quadrati stanno tra loro, possiamo delineare il quadro della costituzione politica ottima». Ma l'insegnamento discende direttamente da Porfirio, per il quale la giustizia è la suprema virtù e la suprema armonia, ché mira all'equilibrio tra le altre virtù e cura che nessuna prevalga in modo unilaterale.

    La giustizia, nella via iniziatica platonico pitagorica, è incarnazione individuale e sociale delle leggi del cosmo, il raggiungimento della padronanza di sé nell'accordo armonico con l'universo: la maestrìa. «Giustizia -sottolinea Porfirio nelle Sentenze- è provvedere al proprio compito nel conformarsi alla mente e nell'agire verso la mente». Se l'obiettivo è di raggiungere la mens divina cantata nell'epigrafe, allora la giustizia ne costituisce la via maestra e informa la stessa «ossatura» del monumento.

    L'arco di Costantino è dunque un ispirato inno architettonico e scultoreo alla tolleranza e alla giustizia, intonato sulle corde d'Armonia, rivolto al nuovo principe, e ciò basterebbe a renderlo straordinario. Ma ciò che lo rende unico è d'indicare agl'iniziati delle cerchie platoniche, oltre le capacità di comprensione dei profani e forse dello stesso Costantino, l'ulteriore, definitivo passo verso il ricongiungimento con l'Uno, l'obiettivo supremo di Plotino di riunire il «divino ch'è nell'uomo al divino ch'è nell'universo».

    Sui lati dell'arco volti a est e ovest, tra i due fronti, sono incastonati due tondi a rilievo che raffigurano il Sol Oriens (sopra) e la Luna Occidens (sotto). Sul lato est il sole s'innalza dal mare sulla sua quadriga, cioè i solstizî e gli equinozî, preceduto dalla sua luce; sul lato ovest la luna s'appresta a inabissarsi con la sua biga. Le rappresentazioni dei due fregî illustrano con la massima fedeltà un brano di Porfirio dell'Antro delle Ninfe. In questo testo, che Ficino tradusse nel Quattrocento, l'erede di Plotino esamina la complessa simbologia d'un brano omerico in cui si narra d'un antro con due ingressi popolato di ninfe.

    Non sarebbe altro, spiega Porfirio, che una metafora dei due solstizî, le due porte cosmiche di discesa delle anime nel mondo e di ascesa all'Uno: «coloro che parlano delle cose divine ponevano essere due di questi ingressi: Cancro e Capricorno. Il Cancro è quello per cui le anime discendono e il Capricorno quello per cui ascendono. Ma il Cancro è settentrionale, mentre il Capricorno è meridionale». Mentre tutti coloro che si incarnano imboccano la via che attraversa il tropico del Cancro, per il tropico del Capricorno transitano solo gl'iniziati che portano a compimento il viatico, «coloro che ascendono agli dèi. Per questa ragione Omero la chiama via degli immortali, comune anche alle anime che sono per sé o per essenza immortali». L'ascensione verso la mens divina ha nel Capricorno un valico obbligatorio che pochissimi raggiungono. I gravami sono molteplici, solo le virtù, ricorda Porfirio, purificano e liberano. E la giustizia, la suprema virtù armonica, è il viatico verso la mente divina.

    I due fregî volgono la dottrina dei solstizî e dell'ascensione all'Uno nell'intonazione solare dominante nell'arco. Il sole inquadrato sulla diagonale ascendente e la luna, serrata nella diagonale opposta, rappresentano una sorta di sigillo segreto o di firma dei platonici discepoli di Porfirio, che ha laconicamente scritto nell'Antro delle Ninfe: «quanti parlano delle cose divine fissano il Sole e la Luna quali ingressi delle anime; e per il Sole si sale, mentre per la Luna si scende». A ciascuno decidere quale debba essere il proprio destino.

    Il Senato, credo, non si trattenne da una sottilissima quanto orgogliosa nota polemica: sotto il tondo del Sole fece scolpire il Solenne ingresso di Costantino a Roma, sotto la Luna Costantino a Milano. Sotto la porta degl'immortali Costantino entra nella città eterna, e viene consacrato Principe; sotto quella del volgo destinato alla morte viene posta la città che contende a Roma il soggiorno degl'imperatori. Forse comincia qui una secolare diatriba. Ma questo è 'colore'.
    La dottrina dei solstizî, i poli eterni e discordanti dell'armonia cosmica, le due porte di Giano o dei due San Giovanni, suggerisce dunque un'ulteriore lettura dell'arco che diviene, con la sua tipologia a due fronti, stretto parente dell'antro delle ninfe di Porfirio. I suoi fronti, posti sul cardo nord-sud, corrispondenti dunque all'asse zodiacale del Cancro e del Capricorno, i tondi del Sole e della Luna indicano chiaramente la soglia trionfale che attende chi incarna la giustizia in terra e compie la Via Regia. Iuvat ire sub arcum: giova andare sotto l'arco.

    La Storia prese altro indirizzo da quello auspicato nell'arco di Costantino; la tolleranza fu bandita, la giustizia costretta alla latitanza; l'Occidente s'inabissò per lungo tempo come la Luna del fregio. Solo coloro che hanno saputo varcare la soglia del Capricorno, e del tempo, hanno raggiunto l'Armonia.





    Fonte: Zen-it.com

  4. #4
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    Predefinito Re: Misteri dell'Urbe

    Molto è stato scritto su Roma, inesauribile fucina di fatti, storie, accadimenti e misteri. Uno di questi riguarda il suo nome segreto. Un nome nato forse contemporaneamente alla città, tramandato in gran segreto dai primi Re sino ad arrivare a conoscenza dei potenti Cesari. Un nome che doveva essere pronunciato solo nelle cerimonie solenni e mai al di fuori di esse, pena la morte.






    IL NOME SEGRETO DI ROMA


    Scrive Giovanni Pascoli nel suo famoso "Inno a Roma":

    O - ma qual nome ora, de' tuoi tre nomi,
    dirà l'Italia? Il nome arcano è tempo
    che si riveli, poi ch'è il tempo sacro.
    Risuoni il nome che nessun profano
    sapea qual fosse, e solo nei misteri
    segretamente s'inalzò tra gl'inni…


    Da questi versi si deduce che Roma non aveva un solo nome, ma addirittura tre: uno ovvio, uno segreto e uno sacro. Il nome segreto di Roma sarebbe "Amor", quello sacro "Flora", in onore di Venere. L'idea che Roma avesse un nome segreto ha origini antichissime. Riporta Giulio Solino, un dotto vissuto nel III sec. d.C., che questo nome era a conoscenza dei soli capi di Stato, i quali se lo tramandavano al momento del passaggio del potere. Il Pontefice Massimo pronunciava il nome segreto solo ed esclusivamente durante i sacrifici rituali. Si ha prova di un antico rituale compiuto durante il solstizio d'inverno in onore della dea Angerona la cui statua ha la bocca bendata, forse proprio per alludere all'impronunciabilità del nome. Macrobio, un funzionario imperiale vissuto tra il IV ed il V sec. d.C., nei suoi "Saturnalia" riporta che il nome arcano era scritto in libri antichissimi, però ognuno di essi citava un nome diverso, quasi ad ingarbugliare le carte a chi tentava di scoprirlo. E anche Plinio il Vecchio, nella su Historia Naturalis, ci ricorda che riti misteriosi proibiscono di pronunciare l'altro nome di Roma…

    Ma perché un nome segreto? Forse perché non subisse da parte dei nemici il rito dell'evocatio: avere un nome segreto metteva al riparo la città stessa da chi le era ostile e dalle maledizioni scagliate dai nemici che, invocandone il nome, potevano ingraziarsi il nume tutelare. Sappiamo per esempio che, durante la presa di Veio, i romani ne invocarono la dea protettrice, Giunone, promettendo di adorarla meglio degli stessi abitanti. In questo modo la battaglia volse in modo favorevole all'esercito romano (fatto riportato da Tito Livio). Per questo non si doveva conoscere nemmeno il nome della divinità protettrice di Roma, per evitare che questa potesse cedere alle lusinghe dei nemici. Addirittura non poteva essere rivelato neppure il sesso del nume. Il nome di una città era inoltre considerato sinonimo di potenza e grandezza magica, quindi pronunciarlo significava acquisire tali forze.

    Il nome Flora - il possibile nome sacro - avrebbe origine da un episodio accaduto sotto il regno di Tarquinio Prisco. Come spesso succede, infatti, i nuovi regnanti rimuovono ciò che è stato fatto da chi li ha preceduti e il penultimo re di Roma non fu da meno: ordinò che fossero spostati dal Campidoglio certi altari dedicati ad alcuni dei. Ma Terminus e Iuventas (come narra Varrone, in De Lingua latina e conferma Tito Livio) si rifiutarono... di venir rimossi! Gli aùguri trassero dunque il vaticinio che mai Roma sarebbe scesa dalla sua altezza, mai sarebbe decaduta dalla sua posizione di prestigio e la definirono "Flora", "la Fiorente" (o anche "Valentia", la Forte). Ma Flora ci ricorderebbe anche Venere, alla quale erano dedicati i Ludi Florales ( Floralia), feste del "rinnovo della natura", che si svolgevano tra il 28 aprile e il 3 maggio. E sempre Venere ci conduce ad Amor, il terzo e più esoterico nome della città. L'idea che Venere potesse essere il nume tutelare di Roma ebbe origine durante l'ascesa al trono di Augusto, che divenne Cesare proprio perché considerato un diretto discendente della dea.



  5. #5
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    Predefinito Re: Misteri dell'Urbe

    La "Bocca della Verità" è uno dei simboli di Roma e ha alimentato attraverso i secoli la propria fama in tutto il mondo, dando adito a numerose interpretazioni circa la sua funzione.



    M.° Giorgio Marlin Colatriani


    LA BOCCA DELLA VERITA'






    Risalente secondo alcuni studiosi al IV secolo a.C. la scultura, di 1 metro e 66 centimetri di diametro e 22 di spessore, raffigura un volto barbuto con occhi, narici e bocca cavi, attraverso cui poteva eventualmente filtrare l'acqua di scolo, ma la sua fama è legata al mito che la voleva giudice della lealtà di coloro che infilavano la mano nella fessura corrispondente alla bocca: se avessero mentito avrebbero rischiato che la scultura tenesse il loro arto bloccato. Si tratta di una leggenda che nel corso dei secoli, specialmente dal medioevo, ha riguardato la sincerità nei rapporti amorosi ma anche quella di personaggi illustri, quali l'imperatore Giuliano che venne smascherato per aver truffato una donna e a cui il diavolo, nascosto dentro all'opera marmorea, promise riscatto in cambio del ripristino del paganesimo. Altre qualità attribuite alla scultura erano la divinazione e la capacità di donare forza e virilità, per la presenza di uno scroto emergente dalla barba. <…>

    Prima della conclusiva perizia di identificazione del reperto scultoreo della Bocca della Verità, citiamo quanto storicamente raccontano gli studiosi come Giuseppe Massimi. Identificata approssimativamente quale simulacro d'idolo parzialmente interrato, prima di essere dissepolta fu ignorata per lungo tempo. Una nota leggenda riportata dal Crescimbeni proseguì per lungo tempo e varie supposizioni si fecero su di essa: che fosse il dio Oceano per le sue ben identificate corna a forma di chele di granchio: «Intorno a questa pietra è passata voce di età in età, che ella fosse un simulacro d'idolo, nella cui bocca, che è aperta, gli antichi romani fossero poveri di por la mano quando giuravano giudizialmente, e che giurando il falso la mano restava addentata nella bocca…». Giovanni Battista Giovenale nel 1927 riporta altre notizie sull'opera: «Le appendici frontali non sono corna bovine, come altri ha potuto credere, sibbene branche di granchio; e queste caratterizzano il dio Okèanos». Il ricercatore propone altre ipotesi, come quella secondo cui i pittori della scuola del Callisto, che dipingevano sovente uomini barbuti, avrebbero visto la Bocca, cui si sarebbero ispirati, fra i ruderi vicino al tempio di Ercole, dove certamente la vide e descrisse nel 1452 Nikolaus Muffel (storico autore di una Descrizione della città di Roma).

    Spostata dal terreno divelto su richiesta del papa Sisto IV ( 1471-1484) la Bocca, con i suoi elementi facciali separati da antiche fratture, sarebbe stata in seguito disegnata da Martino Eemskerk (1498-1574) e dall'Anonimo di Fabriczy (1562-1572). Quindi il mito popolare si diffuse fortemente da quando la Bocca fu esposta e ricomposta definitivamente nel 1637. Attualmente si fa presente che, dopo un recente restauro di pulitura dell'opera, alcuni dei simboli descritti ed evidenziabili in foto antecedenti al lavoro, ora non sono più facilmente riconoscibili. Evidentemente un'energica pulitura della scultura ha eroso in maniera eccessiva alcuni rilievi, resi ancora meno evidenti per la naturale venatura violacea, comparsa nel bianco del marmo dopo la cancellazione della precedente patinatura. Questa protezione secolare e uniforme si era formata nel tempo attraverso concrezioni lichenoidi e un successivo strato di grasso, creato dalle tantissime mani che hanno toccato il mascherone.

    E' grazie alla documentazione fotografica precedente al restauro che è possibile ancora evidenziare, con maggiore facilità rispetto alle attuali immagini, tutta la simbologia presente sulla Bocca della Verità, di cui ho svolto un'accurata perizia, frutto di anni di ricerche. Il celeberrimo disco marmoreo dall'aspetto apotropaico, deve dunque il suo nome all'attribuzione popolare che esso possa mordere la mano di chi mente. L'interessante opera ha ispirato varie leggende e teorie di identificazione. Definita erroneamente "antico chiusino di pozzo" o della Cloaca Massima, è superficialmente un marmo di epoca imprecisata raffigurante un volto di uomo o di divinità (il dio Oceano, un satiro, etc.). Per i numerosi aspetti storici e archeologici, come la simbologia e la religione, convergenti tra loro e per l'elemento con il quale è stata costruita, si è giunti dopo anni a una conferma della sua identità. A conclusione di tale perizia, detta opera confermerebbe la specifica raffigurazione simbolica di forma solare del dio Fauno, divinità italica con un culto anteriore a Roma, spesso confusa con il dio Silvano, divinità delle selve e dei boschi, o con il dio greco Pan dal quale, anche se aveva in comune alcune caratteristiche, differiva per vari poteri divinatori.







    Immagine tratta dalla rivista Fenix


    II grande tondo della Bocca della Verità fu collocato, dopo il suo ritrovamento nel 1637, nel vicino portico di Santa Maria in Cosmedin, singolare complesso architettonico del Paganesimo e del Cristianesimo. <…> L'enorme mascherone della Bocca della Verità, opera dall'aspetto panteista e dall'originalissimo contenuto artistico e arcano, infonde ancora oggi nella gente un'emozione unanime di fronte all'inconsueta atmosfera in stile pagano, per il suo aspetto misterioso e per ì suoi strani simboli, resi quasi irriconoscibili per la lenta erosione, provocata dal fango durante i secoli di interramento. La forma tondeggiante fu una rappresentativa propiziazione solare per l'agricoltura, ma singolare è il gran numero di simboli raffigurati nell'effigie: un elemento tondo dall'evidente forma di scarabeo al centro della fronte documenta l'ingresso nel Lazio arcaico del culto di Kepher, divinità egiziana del sole nascente. Questo nome, avendo per geroglifico lo scarabeo, evidenziava, tramite l'abitudine del coleottero di rotolare una palla di sterco con le proprie uova sulla sabbia riscaldata dal sole, l'origine di ogni forma di vita. Per questo motivo lo scarabeo divenne in Egitto il più diffuso amuleto, presente anche tra le divinità del pantheon egizio. Simbolico è lo scroto, raffigurato sfericamente in basso, rappresentante la ghiandola bilaterale della forza generatrice, parallelamente alle due chele, in alto sulla fronte simili a corna, a significare una simbiosi fluviale-marina con la simbologia caprina e boschereccia. I profili di due teste di lupo, dall'indubbio riferimento alle lupercali, si evidenziano ai lati del volto.


    M.° Giorgio Marlin Colatriani - dal n° 1 di Fenix (novembre 2008)

  6. #6
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    Predefinito Re: Misteri dell'Urbe

    L'ISOLA TIBERINA




    Collegata alle due rive del Tevere dal Ponte Cestio e dal Ponte Fabricio, che risale al 62 a.C. (ed è l'attraversamento in pietra più antico della città), l'Isola Tiberina è legata a leggende millenarie, che evocano misteri.

    Si narra infatti che l'Isola Tiberina sia nata nel 509 a.C. dai covoni di grano di Tarquinio il Superbo gettati e ammassati nel fiume Tevere dal popolo romano come gesto di ribellione al re, poi cacciato da Roma. La leggenda nasce da un culto molto antico, in cui si sacrificavano le primizie del raccolto, benedicendolo nelle ceste che venivano poi gettate nel fiume per ingraziarsi la divinità fluviale. I fasci di grano, oltre ad essere sacri a Cerere, lo erano alla Mater Matuta e alla Dea Opi. In realtà, la nascita dell'isola è dovuta alla sovrapposizione, nel susseguirsi dei secoli, di roccia vulcanica e detriti di alluvioni.

    Secondo un'altra leggenda, più nota, tutto iniziò con una terribile pestilenza che da oltre due anni colpiva Roma, e contro la quale non si trovavano rimedi. Così si consultarono i libri Sibillini, che suggerirono di far venire a Roma Esculapio. Ma Esculapio era già morto da mille anni e quindi si decise di andare a prendere il serpente sacro, simbolo del suo potere guaritore. Dieci messi romani andarono a Epidauro dove viveva, nel tempio dedicato ad Esculapio, il serpente sacro. E l'animale, cosa rara, uscì inaspettatamente dal suo nascondiglio, si avviò verso la nave romana, si accovacciò sul ponte e vi rimase fino a quando la nave cominciò a risalire il Tevere per approdare a Roma. Appena giunto in prossimità dell'Isola Tiberina, il serpente saltò dal ponte e si nascose nei canneti dell'isola. I romani lo considerarono un segno positivo e (complice il caso) la pestilenza scomparve da Roma. Da qui la decisione del Senato di costruire un tempio a Esculapio, in segno di ringraziamento.

    Come testimonianza dell'avvenuto l'isola prese la forma di trireme, con tanto di prua, poppa e albero maestro, rappresentato, in origine, da un obelisco e poi da una colonna con la croce, ora inesistente, chiamata "colonna infame", perché lì erano affissi i nomi dei "banditi che nel giorno di Pasqua non partecipavano alla messa eucaristica".



    Lauro G. - Ricostruzione dell'Isola Tiberina (1612)



    Il Tempio di Esculapio venne costruito nella parte meridionale dell'isola, nel luogo oggi occupato dalla chiesa di San Bartolomeo. Al suo interno un pozzo testimonia la fonte collegata al santuario. Ai lati del tempio si trovava un portico per l'accoglienza dei pellegrini e soprattutto dei malati. Questi venivano ospitati nel tempio in attesa della guarigione miracolosa da parte di Esculapio, Dio della medicina.

    Ma se ben due segreti di questa isola preziosa riguardano la sua nascita, esiste una leggenda altrettanto misteriosa, che questa volta ha come protagonista i morti. Al XVII secolo viene fatta risalire la Confraternita dei Sacconi Rossi: la leggenda narra che a questa confraternita, il cui nome deriva proprio dal loro indossare dei mantelli con cappucci rossi, spettasse il compito di trasportare sull'isola Tiberina tutti coloro che avevano perso la vita nel Tevere e di occuparsi anche della loro sepoltura se nessuno li reclamava. Ancora oggi il 2 novembre ha luogo sull'isola una commemorazione di tutti "i morti senza nome" che culmina nel rilascio di alcune corone di fiori nel Tevere. La Confraternita, estintasi dopo l'inizio delle sepolture esclusivamente al Verano, si è ricostituita di recente per iniziativa dell'Ordine Ospedaliero Fatebenefratelli.

 

 

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